Francia dei giorni nostri.
Pierre (Vincent Lindon) fa il ferroviere e lavora di notte alla manutenzione dei binari, tra campi nel nulla avvolti nel buio più profondo, maneggiando un bengala segnaletico rosso o sopra un convoglio tecnico, per sostituire i cavi elettrici usurati o assestare i chiodi lungo il tracciato.
Dopo la morte della moglie Pierre si occupa come può della casa, cerca di fare “il meglio possibile” per la crescita dei suoi figli: Felix (Benjamin Voisin) e Louis (Stefan Crepon). Felix, chiamato da tutti “Fus”, in onore della sua passione per il calcio (Fussbal, in tedesco), è un ragazzo solare e un discreto giocatore. Ha provato a studiare per fare il metalmeccanico e seguire le orme paterne ma senza grandi risultati. È iperprotettivo e quasi materno nei confronti del fratello più piccolo, che lui chiama “Loulou”.
Louis è timido e così studioso che presto sarà ammesso alla Sorbona: sarà allora che Fus e Pierre dovranno cercare di convivere insieme senza scannarsi. Perché Fus è stato visto di recente dai colleghi di Pierre insieme a un gruppo di estrema destra, legato alla tifoseria calcistica. Un gruppo violento, che avrebbe alzato le mani su un corteo di lavoratori durante una manifestazione.
Per Fus sono solo “amici con cui si diverte la sera”, non lo coinvolgono “in quelle cose”. In fondo li conosce da sempre, erano suoi compagni di scuola e di curva.
Pierre troppo presto giudica Fus come “parte di un branco” e scontro dopo scontro inizia a perdere il rapporto con suo figlio. Fus torna sempre più tardi la notte o non torna per nulla. Appare spesso ubriaco e ascolta tutto il giorno musica disco a tutto volume, quando non la balla in qualche rave party.
Inizia a esprimersi in modo livoroso con chiunque frequenti la loro casa per aiutare LouLou negli studi, specie i “bravi ragazzi dell’Università”: li giudica troppo distanti dai problemi della gente comune, “fighetti”. Pierre lo tiene costantemente a freno, spesso in modo brusco e autoritario.
Alla fine tutto ciò che li tiene uniti è solo l’affetto per Louis e poco altro.
Un giorno Pierre segue Fus da lontano, in auto, dopo l’ennesimo litigio. Lo vede entrare in quella fabbrica abbandonata che spesso di notte guarda da lontano nei suoi turni di manutenzione ai binari.
Fus entra, Pierre lo segue e scopre un luogo brulicante di gente che si allena, balla e addirittura combatte all’interno di una specie di gabbia, a mani nude. Pierre si mette a un margine della gabbia e osserva il figlio tra la folla a bordo ring, sull’altro lato. Fus urla e sbava, inneggia alla morte del combattente più debole. Ha gli occhi iniettati di odio e lacrime. Pierre va via con lo sguardo assente, ormai considera suo figlio come morto.
Certo per il padre esistono ancora dei “riflessi di Fus”: nei momenti in cui stanno ancora tutto insieme a Louis, nei pomeriggio della domenica. Quando, un po’ ubriachi, giocando a calcetto nel piccolo campetto costruito in giardino, tirando rigori in una piccola porta di metallo costruita al fianco di un paio di altalene. Quando posano insieme sorridendo per le foto della festa per LouLou. Quando la loro squadra segna allo stadio per la grande partita per cui da tempo hanno preso i biglietti.
Quando tutto insieme preparano i bagagli per il trasferimento di Louis in un appartamento in affitto vicino alla Sorbona la macchina di Pierre è così carica di mobili che non c’è spazio nemmeno per uno spillo: solo Pierre può accompagnare LouLou. Fus scherza cercando di rimanere attaccato alla portiera dall’esterno, per una decina di metri: vuole a tutti i costi andare via con il fratello e infine ruzzola buffamente, lo saluta con la mano e con un sorriso mentre si allontana.
Pierre rientra a casa e trova Fuz coperto di lividi e sangue.
Pestato duro in una resa dei conti.
Lo accudisce meccanicamente, ma in fondo lo sente già come un estraneo.
Sangue e indifferenza continueranno a tenere sempre più distanti padre e figlio, fino a esiti molto drammatici.
Fino a che pure uno dei ricordi della vita felice nel passato, la porta da calcio del giardinetto, viene anche lei trasformata in un oggetto di “lotta politica” tra “noi contro loro”: diventando una spranga d’acciaio.
Con Jouer avec le feu, letteralmente “giocare con il fuoco”, le sorelle registe e sceneggiatrici Delphine e Muriel Coulin arrivano alla loro terza pellicola cinematografica. Molto legate alla produzione di documentari, con il loro primo film, 17 ragazze, uscito nel 2011 e ispirato a un reale fatto di cronaca, le due autrici confermano il loro interesse per i temi sociali più legati al presente, i più “urgenti” per comprendere la realtà che ci circonda.
Il titolo italiano di quest’opera, Noi contro loro, sintetizza in pieno l’argomento centrale del film: specchio delle tensioni sociali figlie dell’attuale clima politico francese (ma pure italiano). Ci viene raccontato un mondo in cui non può che cadere nel nulla ogni ricerca di dialogo o di “possibile mediazione”, tra chi “la pensa politicamente in modo differente”. Che si invochino fantasmi del passato o si dia ascolto al “rispettivo gruppo di amici”, che ci si affidi alla nostalgia o al nichilismo, i personaggi dell’opera di Delphine e Muriel Coulin sono (pre)destinati a camminare da soli verso un futuro che li vede “divisi e nemici”, “Noi contro loro”. Pur di fatto facendo parte della stessa famiglia nucleare e quindi essendo loro tre insieme “un Noi”, come urla inascoltato il personaggio di Louis, in uno dei momenti più stringenti della pellicola.
Pierre e Fuz vagano invece solo tra foto e ricordi, senza il coraggio di guardarsi negli occhi, con la convinzione reciproca di avere davanti l’immagine distorta, di un padre o un figlio, che si ritengono ormai “già morti”.
Entrambi vivono un lutto struggente, quanto quasi inspiegabile.
Le due registe non fanno sconti a entrambe le “fazioni in gioco”: la violenza fisica e psicologica è intesa equamente, ripartita tra chi “si crede buono” e chi storicamente “non può essere che il cattivo”. Le botte, gli insulti e il sangue arrivano da destra come da sinistra, con pari rancore, paranoia e “squadrismo”, come tra estremisti ultras di squadre di calcio.
Allo stesso modo le fragilità emotive e le “buone intenzioni”, che hanno radici in un disagio sociale che il racconto prende in prestito direttamente dalla cronaca, sono ben ripartire tra tutti i personaggi sulla scena: mettendo bene in evidenza una complessità di vedute che le due registe sanno maneggiare con cura e rispetto di tutte le parti in causa. Come dovrebbero fare i migliori autori, ma anche i giornalisti.
Vincent Lindon, quasi per predestinazione, continua qui a interpretare personaggi complessi e dolenti, conferendogli grande umanità e umiltà, un animo tormentato quanto malinconico. Un personaggio splendidamente imperfetto, “vivo”.
Benjamin Voisin, che impersona Fus, dimostra di essere un giovane attore davvero straordinario e versatile, raccontandoci qui un personaggio in continua trasformazione: tra il ragazzino e l’adulto, tra l’ingenuità e la ferocia.
Il personaggio del bravo Stefan Crepon ha un ruolo più piccolo ma determinante: è quasi un “collante sociale” tra il fratello e il padre. Una voce sempre gentile e premurosa, ma che proprio per questa gentilezza, in una storia che racconta con disincanto la realtà attuale, non può che essere una voce sussurrata. Tragicamente poco più che una “comparsa inascoltata”, all’ombra di un conflitto ideologico.
L’ultima pellicola di Delphine e Muriel Coulin è molto cruda e struggente, “pragmatica” ed essenziale come il miglior cinema sociale del fratelli Dardenne.
Interpreti molto bravi, una messa in scena sempre realistica, ma che in alcuni frangenti sa essere anche evocativa, quasi “mistica”: come nelle scene notturne, tra binari illuminati da bengala rossi e rave party dal colore blu elettrico.
È un film duro, che fa molto riflettere e conquista facilmente l’attenzione degli spettatori.
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