sabato 20 aprile 2024

Monkey Man: la nostra recensione dell’action movie “spirituale” scritto, diretto e interpretato da Dev Patel

India. In un piccolo villaggio immerso nel verde una madre racconta al suo bambino, per farlo addormentare, la sua storia preferita: la leggenda di Hanuman. Il piccolo rimane più che sveglio, sovraeccitato, ascoltando le gesta dello scimmiotto che volle avvicinarsi a un frutto di mango sull’albero più alto della foresta, finendo per mangiare infine il sole, diventando invincibile ma scatenando l’ira degli dei.

Siamo ancora in India, alcuni anni dopo, nei bassifondi della grande megalopoli di Yatana, al “Tiger’s Temple”, dove si tengono combattimenti clandestini senza regole tra guerrieri mascherati, tra fango, sangue e stranieri che scommettono pesante.  Contro l’uomo serpente si scontra quel bambino che una volta amava la storia di Hanuman, che ora diventato adulto, nascosto dietro a una maschera e pieno di muscoli, si fa chiamare Monkey Man. Si scontra e perde sempre, per agevolare le scommesse più ghiotte e “concordate” del padrone di casa, maneggione e grande anfitrione Tiger (Sharlto Copley), ma tra una nuova cicatrice e l’altra pensa a ben altro. 

Progetta un grande piano per lasciare i bassifondi, salire in cima alla grande città e alla catena alimentare, alla corte di Queenie (Ashwini Kalsekar), nel suo “Kings”, un castello/albergo/Night Club da cui, tra prostitute, gioco d’azzardo e droga, governa i traffici loschi di tutto il paese. 

Nella stanza più in alto dell’edificio, come sul ramo più alto della foresta, Monkey Man raggiungerà il suo “mango”, il suo “premio”, la sua grande “vendetta”. 

Forse scatenerà anche l’ira degli dei.

Forse diventata l’eroe che il suo paese sta cercando dopo essere caduto nella corruzione e dissolutezza morale, a causa del capo della polizia Rana (Sikander Kher) e del finto guru spiritual/televisivo Baba Shakti (Makarand Deshpande). Ma la salita, a suon di pugni e pistole, sarà lunga e difficile. Comporterà nocche rotte, cadute vertiginose e una dolorosa “rinascita” per il nostro eroe. 

Serviranno la guida spirituale e marziale del saggio Alpha (Vipin Sharma), che eleveranno Monkey Man alle tecniche e onore dei guerrieri Veda. Servirà soprattutto una pace interiore che guidi l’uomo fino a non renderlo più cieco a causa della vendetta. 


È decisamente un periodo florido “per le scimmie”, tra i trasformers scimmie dell’ultimo film Hasbro al nuovo Kong e Godzilla al cinema per Warner, passando per l’imminente Regno del pianeta delle scimmie di 20th Century Fox. 

È un periodo interessante anche per gli uomini-animale, tra la dolce e combattiva mutaforma di Dungeons&Dragons,” l’airone umano de Il ragazzo e l’airone di Miyazaki  e il sorprendente Dog Man di Luc Besson.

Dav Patel, l’attore di The Milionaire, Humandroid, Marigold Hotel e Lion, scrive e costruisce personalmente, fin dal 2018, questa pellicola per il suo debutto da regista. La produzione è dal già leggendario Jordan Peele e nella sceneggiatura Patel si fa accompagnare anche da un “esperto di epica”, come quel John Collee di Master & Commander

Le coreografie di lotta sono  sotto la direzione di un veterano come Brahim Chab, con in curriculum le acrobazie in motion capture per i videogame della serie Assassins Creed e molti action movie con protagonisti Jean Claude Van Damme, Scott Adkins e addirittura sua maestà Jackie Chan. 

Lo stunt Double di Patel per le scene più complesse è poi Wut Kulawat (stunt di Tyler Rake) e come coordinatore degli stunt c’è un’altra leggenda, Udeh Nans, che ha lavorato a quei capolavori senza tempo di The Raid e The Raid 2 di Gareth Evans.

Il direttore della notturna e psichedelica fotografia è Sharone Meir e viene dritto dal recente Silent Night, dove la sua fotografia, già notturna/industriale/psichedelica, era una delle cose più riuscite dell’ultimo film di John Woo. Le musiche, un felice mix di tamburi tribali e techno-trance che ricorda il sound design dell’anime Akira, di Otomo, sono di Jed Kurzel (Assassin’s Creed). 


Monkey Man è un film semplice ma anche simbolico, quasi un cine-fumetto sui Veda. 

La storia dello scimmiotto che vuole raggiungere il mango, che simboleggia il sole e si trova nel punto più alto della foresta, scatenando l’ira degli dei e trasformandolo in eroe tragico, è un topos felicemente trans-culturale. Un po’ Icaro e un po’ Prometeo, un po’ il Goku di “viaggio in Occidente” (la stessa fonte di Dragon Ball, un romanzo cinese del XVI secolo). 

Il bambino diventa grande diventando lui stesso lo “scimmiotto”, sui ring colorati di un wrestling clandestino onorevole ma dimesso, che richiama colori e urla di pellicole come Lionheart quanto Danny the Dog (un altro uomo-animale). 

Il Monkey Man diventa “grande per vendetta” e sfida i “nuovi dei”, inaccessibile quanto crudeli come da tradizione, che hanno residenza ai “piani alti del mondo” della nuova India cosmopolita, tra grattacieli sgargianti costruiti ai margini delle baraccopoli. Luoghi che hanno il sapore e colori accesi della Neo Tokyo di Akira, così come la sopra menzionata colonna sonora, carica di sonorità house/trance e tamburi, idealmente in bilico tra passato e presente, tra spiritualità e consumismo, in grado di  trascinarci in atmosfere new age vibranti, dove grazie anche ai canti tribali e a effetti speciali “trascendenti” (interessanti e particolari gli effetti visivi) sembra possano prendere forma i leggendari “Veda”. 

Dopo un incipit quasi super-eroistico e una descrizione del sottobosco del mondo criminale indiano veloce, sarcastica e concitata come in un film di Guy Ritchie (vedi la sequenza del “furto collettivo” del portafoglio), quella a cui assistiamo è in sostanza una trama simile a una “Anabasi in verticale”. 

Sul piano visivo abbiamo un viaggio dai bassifondi verdeggianti, rugginosi e poveri, ma pieni di spiritualità, agli attici luminosi e metallici del “nuovo potere”, dove domina solo il denaro, in un continuo percorso a ostacoli e scontri fisici “duri” che ricorda il The Raid di Gareth Evans, con uno stile che passo dopo passo si fa sempre più psichedelico, sporco e concitato. Ogni pugno fa male e lascia cicatrici su corpi in costante dissoluzione fisica quando morale, che si possono riconoscere e identificano prima di tutto per le cicatrici di una lotta (come nel caso del capo della polizia), prima ancora che per una narrazione esplicita, che spesso è “posticipata al visivo” in un modo narrativamente interessante. A contrapporsi a gangster in doppio petto e poliziotti corrotti arrivano poi, tra sogni e realtà, guerrieri armati di lance e spade vestiti in abiti tradizionali indiani, che citano per il trucco pure Shiva, in un meltin pop marziale ancora sospeso tra passato e presente, che ricorda l’incipit del terzo John Wick. 


Sul lato emotivo, Patel sceglie di interpretare una specie di eroe metafisico, un “deadman immortale” guidato dalla vendetta, per molti versi non distante dal Corvo di Proyas. È un uomo cupo, affranto e quasi silenzioso, che si carica mano a mano nel viaggio anche di valori morali positivi, procedendo verso una spiritualità più completa. Molti personaggi come Alpha e Queenie sono davvero riusciti e tragici, alcuni comprimari riescono invece a sviluppare anche una sottile linea comica. Il tono generale è quindi tragico, ricercatamente “teatrale”, ma non mancano momenti surreali quanto divertenti come la corsa coi i tuk tuk truccati. 

Patel dimostra di avere le idee molto chiare nella gestione della pellicola e la visione trascorre senza intoppi o cali di ritmo, in uno scenario che dal naturalistico al decadente/industriale si fa sempre più stretto, contratto e claustrofobico, a tinte rosso sangue come in The Raid. Un sangue che “fa pendant” con le luci da Night Club rosso lussuria delle vip room più esclusive del “Kings”, seguendo idealmente l’armocromia di un'unica arteria marcia della modernità orientale, oggi per i ricchi occidentali più paradiso del business, del piacere e dissolutezza, piuttosto che il massimo luogo di meditazione che rappresentava in passato. 

Si sente quasi la malinconia e il marciume di corpi in vendita e mazzette che passano sotto mano all’ombra dei palazzoni, mentre il “ritorno al primitivo”, il gioco della lotta tra maschere animali, come la fuga verso le foreste che avviene a metà pellicola, sembrano qualcosa di più salvifico che regressivo. 

Patel sembra didatticamente e titanicamente ricercare nuove basi/radici, simboli/spiriti, per la “ricostruzione” di questo piccolo microcosmo che “sente suo”, anche al di là di una poetica action fieramente da b-movie (che a tratti fa anche tanto “Uomo Tigre”, per i fan dei cartoni animati “vintage”), estrema e quasi griffata, cool e glam come in John Wick. Ma oltre ai capi firmati e alle musiche disco il regista riesce a farsi coerente e originale proprio nella rappresentazione dell'iconografia cinematografica del mito: seguendo le orme di una “tradizione orientale” che abbraccia anche i cinesi Wuxia. Gli dei e gli eroi del resto nel cinema wuxia debellano interi eserciti a mani nude, tra balletti di calci e pugni, proprio come gli artisti marziali anni '80 come Van Damme faranno in seguito nel genere action e nel 2000 faranno i “nuovi dei”: i supereroi Marvel. C’è una sottile ciclicità in questo percorso ed è in questo senso stimolante il momento in cui Alpha insegna le millenarie tecniche Veda a Monkey per debellare un guru 2.0 del nuovo millennio.

Dav Patel sa confezionare un “action spirituale” dinamico, esteticamente ricco tanto visivamente che sul piano sonoro, divertente e movimentato nelle coreografie di combattimento e con un animo tragico/epico profondo. Anche se qui i personaggi per lo più non parlano molto e le mazzate stanno al primo posto, la storia funziona e lo spettacolo è garantito da un'idea di cinema movimentato, “ginnico” quanto intrigante. 

Un film da gustarsi in sala, con gli amici e con i pop corn di ordinanza, che i fan degli action non dovrebbero farsi scappare. 

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