"È
estate, che c'è di meglio di una bella sagra di paese dove ubriacarsi e fare
gli scemi con le ragazze? E se la sagra fosse di 9 giorni, piena di gnocche
svedesi bionde, birra e funghetti allucinogeni per tutti?" Con questa
allettante aspettativa, quella merda di Pelle (Vilhelm Blomgren), che fa tanto
il ragazzino hippy da comunità "tutto biologggico, un saccobbbuono!"
di Bianco, Rosso e Verdone, infila i suoi amici di università in una specie di
girone dantesco, popolato da una setta di matti adoratori di oscure divinità
agresti che ne faranno davvero di ogni. Nel gruppetto degli sfigati, un ragazzo
allupato che pensa di trovarsi in American Pie e due laureandi in antropologia
che, porelli, cercano pure di comprendere usi e costumi di 'sti fanatici per farci
una tesi (pure dopo che hanno visto cose pazze tipo "martelloni"),
nonché una ragazzina (Florence Pugh) che è da poco passata poco indenne da una
situazione familiare allucinante. Come finirà? Come in Hereditary, primo film (e capolavoro) dello stesso regista, Ari Aster, di questo Midsommar:
finirà malissimo!!! Una messa in scena sontuoso, un ottimo cast, inquadrature
magnifiche ed ispirate. Una fotografia che sa descrivere paesaggi naturali quanto quasi alieni, scenografie magiche quando eretiche,
l'ennesima prova di indiscussa bravura di Aster nel saper creare tensione.
Dietro a tutti i mille meriti di una pellicola numero due potente,
terrorizzante quanto magistrale, c'è qualcosa di davvero straniante in questo
Midsommar. È film che non si capisce davvero se "ci è o ci fa", una
pellicola che sa comprendere i limiti emotivi del pubblico e giocarci. Cosa
intendo? Mi spiego con una mia teoria, cercando di rimanere il più criptico
possibile per non rovinarvi nemmeno una delle mille sorprese che il film di
Aster regala.
Con Hereditary il regista 34enne di New York aveva creato una
autentica perla della paura, carica di una tensione costante e mozzafiato in
grado di annichilire lo spettatore medio. Il pubblico non sapeva come elaborare
questo "stress emotivo", aveva paura di essere trascinato troppo in
fondo dal terrore e per esorcizzare lo spettacolo fin da subito rispondeva con
dei "ridolini isterici". Come era successo peraltro, in mia presenza,
al pubblico se primo Blair Witch Project o del primo Paranormal Activity:
diventava tutto una sfida a "non riuscire a essere spaventati",
combattuta con le armi spuntate del trovare cose umoristiche ovunque,
soprattutto dove non ci sono, per ancorarci sopra il coraggio. Per lo scrivente
è in assoluto il modo più cretino per approcciarsi all'horror, una mossa da
veri cacasotto incapaci di farsi travolgere dai sentimenti scaturiti dalla
magia del cinema, ma è comunque una reazione "umana". Seguire
Hereditary in sala era un supplizio a causa di questi "cacasotto
rompicoglioni" che infestavano ogni cinema a ogni orario. Aster
deve aver capito questo meccanismo dalle reazioni del pubblico al suo primo
film e in Midsommar, ha scientificamente cronometrato i "tempi dei
ridolini" e ha voluto "giocarci sopra" con stile e un pizzico di
genio. La sua idea è stata "prolungare i gridolini", con le armi del grottesco e dello splatter, elaborate (e rese grandi)
da Herschell Gordon Lewis. Tutto Midsommar è un grande omaggio ai folk-Horror e
nello specifico alla trilogia di Blood Feast di Lewis. Così quando il pubblico
ride per "esorcizzare la paura", Aster infila qualche esagerato
effetto splatter che fa esplodere i corpi stile cartone animato o
"qualcosa di greve" stile ciccione nude, tizi che suonano il piffero
o pecorelle che cagano. Aster "ride del pubblico con il pubblico",
facendogli un assist o due per certificare che a ridere in un Horror (per
quanto io la ritenga una cosa deprecabile) "non ci sia nulla di
male". Da questo meccanismo scaturisce un film che vive di una continua
sensazione di "ebbrezza emotiva" da parte di spettatori che, a fine
visione, continueranno a ridere senza sapere il motivo per cui gli tremano
ancora le mani per la paura. Midsommar è un film disperato e senza uscita, come
Hereditary.
Una autentica "esecuzione pubblica" in cui il pubblico si
sente sempre e inevitabilmente vittima di un contesto da cui non può sfuggire e
di cui non capisce davvero le regole. E fa "ridere angosciosamente".
Geniale. Per me l'ennesima dimostrazione del genio di un regista che già dopo
sole due pellicole si è imposto ai vertici dei migliori creatori di incubi del
nuovo millennio. Un esercizio di stile unico e difficilmente imitabile da
altri. Perché Midsommar è stile all'ennesima potenza. La dimostrazione del
"come" prevalga sul "cosa" in modo netto, soprattutto
quando parliamo di Horror, genere in cui la storia è da sempre un canovaccio
che si ripete in modo quasi liturgico. La sceneggiatura è semplice in
Midsommar. Quattro amici (i classici scemo, secchione, fidanzatino e
traumatizzata/Final girl, con un paio di variazioni sul tema) in vacanza
finiscono in un posto brutto, popolato da pazzi. Se vogliamo la trama reca un interessante spunto narrativo sul tema della scelta della vita o della
morte in ragione del "libero arbitrio" o della accettazione (naturalista) di stare in un "predestinato vincolo naturale" (tematiche interessanti per un corso di teologia magari), ma spunto
(gustosissimo) rimane. Se vogliamo il film può essere pure derivativo. Oltre
alla trilogia di Lewis, Midsommar ha delle suggestioni di Burning Man di Robin
Hardy, un tocco dello Shrooms di Paddy Breathnach, idee di body horror che
pescano da Tobe Hooper e arrivano a Rob Zombie, una mezza voglia del Martyrs di
Pascal Laugier. Senza dimenticare la deriva un po' scoreggiona dei cannibali di
Deodato riletti da Eli Roth in Green Inferno (giusto per far ridere il
pubblico). Senza dimenticare le scenografiche geometrie "argentiane"
(nonché l'uso narrativo dei disegni infantili, come in Profondo Rosso) che
Aster ha già dimostrato di amare e saper sfruttare facendole assurgere a
rituali visivi sempre niente male (durante i pranzi della congregazione,
inquadrati dall'altro, si realizza visivamente una sorta di "effetto
domino" in ragione dell'ordine con cui i commensali possono accedere al
cibo). È decisamente un mix succoso per descrivere le avventure
"tragicomiche" di questi poveri universitari che si calano
gradualmente in questo mondo nascosto nella natura, popolato da Hippy pazzi e
ultra religiosi di roba "strana", fino a partecipare alla loro sagra
della morte, tra balletti popolari (spesso apparentemente buffi nel loro
essere gioiosamente fuori dal tempo), droghe (in quanto la droga è tema
portante di tutta l'ebbrezza narrativa) e riti di sacrificio. Ma il succo è che
come film vuole e pretende di essere principalmente un "gioco". Un
gioco malato (che in realtà compie un autentico mind ficking nel
quale lo spettatore si perde negli appigli logici e anche se ride di questi
hippy "buffi perché quando sono felici festeggiano muovendo le manine e
sorridendo", questi ultimi lo fanno davvero cacare sotto!!!) davanti al
quale lo spettatore deve scegliere di assistere (magari sperando di incappare
nelle fesserie buffe che il regista ha messo dentro "per
alleggerire") o abbandonare la sala. Questo può irritare qualche
spettatore, ma io, ripeto, lo trovo geniale. Un modo geniale di spaventare chi
di solito ride per non spaventarsi. Aster si concede comunque una firma stilistica
che ci piace e rincuora, una attenzione amorevole ai ragazzini portatori di
handicap, vista in Hereditary e che qui ritorna, designando i "puri"
come gli unici depositari della ragione in un mondo che ne è del tutto privo.
Se avete amato Hereditary, correte a vedere questo Midsommar. Se con
conoscevate Hereditary, guardate Midsommar e poi recuperate. Se tutti questi
"tizi pazzi delle sette" trovate che siano personaggi interessanti per
un horror o un thriller, vi invito a fine visione a spulciare un paio di film,
The Master di P.T.Anderson e Red State di Kevin Smith (se vedere quest'ultimo
finirete per vie traverse a voler vedere pure Tush, che a qualche latitudine
può ricordare qualcosa della fase finale di Midsommar... ma questa è forse
un'altra storia). A tutti, buona visione.
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