sabato 1 ottobre 2022

Smile: la nostra recensione dell’horror scritto e diretto da Parker Finn con Sosie Bacon

 


Siamo a Newark, New Jersey, in una notte di autunno dei giorni nostri, in un ospedale del centro. La psicoterapeuta Rose (Sosie Bacon, figlia di Kevin Bacon) a causa di uno sfortunatissimo cambio turni con il collega Joel (Kyle Gallner), che collabora abitualmente con le forze dell’ordine per i crimini violenti, si trova davanti alla giovane Laura (Caitlin Stasey). La ragazza, reduce da quello che sembra un forte shock post traumatico e al momento in preda ad allucinazioni, decide di suicidarsi davanti a lei, aprendosi il mento con i cocci di una tazza da the. Lo fa guardando Rose negli occhi, sorridendole sinistramente. La terapeuta da quel momento cade anch’essa in un vortice di angoscia, vuoti di memoria e allucinazioni, iniziando a sentirsi costantemente perseguitata dallo stesso “mostro che sorride” che diceva di vedere Laura. Scoprendo infine di essere anche lei  vittima di una vera e propria maledizione, la cui origine è sconosciuta ma risalente molto indietro nel tempo, Rose decide per sopravvivere di affrontare il “mostro sorridente” quanto i suoi personali demoni, superando in questa lotta tutti i confini tra mondo razionale e interiore. 


Prendete una atmosfera alla The Ring USA version by Gore Verbinski, innaffiate con un high-concept visivo semplice e diretto (possibilmente a basso costo) sullo stile Obbligo o Verità di Blumhouse o It follows di Mitchell, aggiungete gustose suggestioni psicoanalitiche da Nightmare 3: i guerrieri del sogno e condite il tutto con infamissimi “bubu-settete” sonori e visivi direttamente da Le verità nascoste di Zemeckis. Potrebbe uscire un brutto mostro di Frankenstein e invece, se saprete prenderlo bene, il film scritto e diretto da Parker Finn è una piccola mina. Un piccolo horror certamente e dichiaratamente derivativo, ma in grado di cavalcare con gusto le sue già ben codificate influenze narrative, regalare qualche sano e tremendo brivido “a sorpresa” e magari aprire la strada a un possibilissimo franchise “box Office piacendo”. Parker Finn, regista e sceneggiatore alla sua opera prima cinematografica dopo un paio di illuminati corti horror, sceglie di affidarsi a un mostro che vive nella mente delle sue vittime e grazie a questo, lavorando tra piano reale e suggestioni come il buon Freddy Krueger insegna, costruisce una pellicola in cui per fare paura “vale tutto”, perché lo spavento può nascere in ogni circostanza e momento. Parker Finn è consapevole di questo stato di “onnipotenza creativa” e decide gioiosamente di scatenare contro gli spettatori tutto l’arsenale narrativo, visivo e sonoro di cui il cinema horror enciclopedicamente dispone da sempre. Finn applica lo “spavento leggero”, quello da “bu bu settete” delle casa delle streghe del luna Park e di molti slasher: le porte che sbattono all’improvviso, una presenza inquietante che appare per un istante al buio in un veloce cambio di inquadratura e poi riappare dietro alla protagonista, vari rumori disturbanti che ci stordiscono nel silenzio come il miagolio improvviso di un gatto, una macchina che frena o il suono di un clacson. Lo spavento leggero è quello che “dopo essere stato subito” fa più ridere e al contempo incazzare il pubblico, che in qualche modo si sente “truffato emotivamente”. 


Non contento di giocare con porte che sbattono, fantasmi dietro lo specchio e gattini urlanti, Finn nell’uso specifico della macchina da presa e del comparto audio cerca di aggiungere il “senso di angoscia” degli horror di Ari Aster e Polanski, Kubrick e Friedkn. Guardiamo spesso il mondo direttamente dagli occhi della protagonista, muovendoci lungo corridoi bui dove il mostro infine appare e ci guarda dritto negli occhi. Ogni tanto una innocente inquadratura che ritrae una macchia che percorre una strada piano piano si rovescia a 180 gradi, dando la prospettiva di un mondo ribaltato, una realtà “specchiata” che ci fa letteralmente girare la testa vertiginosamente nel cercare di leggerla. Qualche volta Finn ci spara dritte al nostro cervello delle immagini subliminali, naturalmente così veloci che nemmeno ce ne accorgiamo. Spesso la protagonista non riesce a distinguere distintamente le parole di chi la circonda, che risultavano al sonoro anche per noi ovattate, oppure è circondata da persone che non la ascoltano nonostante lei parli con loro. Tutte strategie basate sulla nostra percezione del film che amplificando il senso di solitudine ed isolamento, che alzano nello spettatore il tasso di paranoia. 

L’horror è poi anche una faccenda di carne, per lo più recisa o disarticolata in forme raccapricciati a ricordaci della fragilità e caducità umana. Finn di certo non manca di scontentare gli amanti dell’horror più “fisico ed estetico”, riempiendo appena può la pellicola di truculenti scene splatter, cadaveri trovati in condizioni orribili (che ricordano da vicino il lavoro fatto da Rick Baker per The Ring), mostruosità oniriche mutanti e deformazioni diaboliche assortite, in un gioioso crescendo “emoglobinico e artistico” da incubo, che ci porta sul finale quasi dalle parti “più dantesche” dove finiva lo spagnolo Rec

Come ciliegina sulla torta, non ancora contento di spaventarelli e angoscia, sangue e mostri, Finn sceglie di mettere in campo fin dall’inizio la cosiddetta “liturgia della paura”: quella magnificamente descritta da David Lynch nella scena della tavola calda di Mulholland Drive, presente nei dialoghi tra madre e figlio in Nightmare il nuovo incubo di Craven e presente come struttura interna in molti horror orientali. Prima delle forza delle immagini truculente in Smile è quindi la pura narrazione a farsi strada nello spettatore, nel senso della suggestione scaturita dai “racconti di paura intorno al fuoco” (omaggiati nel cinema recente da Scary Story to tell in the dark di André Overdal). Secondo la liturgia ogni storia dell’orrore che inizia deve giungere alla fine secondo un preciso schema a tappe, già note e conosciute, che inesorabilmente dovranno ripetersi dalla prima all’ultima in una sorta di infinto e immutabile destino. L’orrore diventa così attesa di tappe inevitabili, scandite dal linguaggio del cinema di Finn con precisi codici visivi e sonori, dal quale non è possibile sfuggire: l’arrivo a una “nuova tappa” viene sottolineato con una precisa distorsione audio, simile al rumore di una stazione radio fuori sincrono, dopo la quale da spettatori sappiano sempre che accadrà qualcosa di spaventoso. Finiamo per spaventarci quasi ”pavlovianamente”. Finn inoltre per tutta la visione alimenta la mitologia dietro al “mostro che ride”, in un continuo racconto del terrore che si carica di testimonianze, scritti, pitture che ce lo fanno percepire come qualcosa di eterno, ineluttabile come Thanos. 


Parker Finn ha studiato bene l’horror e il suo Smile e si è messo nella condizione ideale per creare un esaustivo saggio sulle conoscenze tecniche e stilistiche da lui apprese sul tema. Chi ama l’horror a 360 gradi si divertirà un mondo nell’assistere e decodificare questa pioggia incessante di trucchetti visivi, rumori improvvisi, splatter e suggestioni varie atte a spaventare, trovando inoltre (e non è mai scontato!!!) in Sosie Bacon una meravigliosa interprete, in grado di esprimere al meglio e con credibilità il continuo turbinio degli stati emotivi in cui cade il suo personaggio. Rose è affascinante ma dimessa, gentile ma spaventata, si tiene sempre con un timoroso “passo indietro” da una realtà che sa di non poter gestire ma che nonostante tutto dovrà affrontare, trovando una forza interiore che non crede di possedere. Ricorda nello spirito il personaggio della bravissima Lily Taylor nel sottovalutato e un po’ bistrattato Haunting di Jan de Bont. Forse anche tutto questo Smile però ricorda un po’, proprio per similari aspetti legati alla messa in scena, all’apparato psicologico e al linguaggio scelto per spaventare, il sottovalutato Haunting. Sono opere che pescano entrambe a piene mani tra le molte anime del genere horror, tra il luna Park dell’horror e l’angoscia esistenziale, scegliendo “di non scegliere” di seguire uno specifico filone. Ed eccoci dunque alla domanda che può mettere in luce il più grande, possibile, limite della comunque gustosa e ben confezionata opere di Parker Finn: cosa cercate voi, da spettatori, in un film horror? Siete disposti a farvi spaventare da tutto questo arsenale visivo, sonoro e narrativo “insieme”? C’è chi ha odiato Le verità nascoste di Zemeckis (ma anche i Final Destination) perché c’erano troppi “spaventarelli”, da porte che si aprono di botto e gattini che strillano, che “avrebbero ridotto il fascino” del “vero horror” alla base del film. C’è chi non ha apprezzato Hereditary di Aster perché era troppo angoscioso e non si rideva mai, come anche in Rosemay’s Baby di Polanski, perché mancavano gli spaventarelli. C’è chi ha voluto bocciare Rec di Plaza e Balaguerò, o pure Haunting, perché il momento finale “non è compatibile con l’atmosfera generale del film” (secondo loro) e “non mi piacciono gli effetti speciali”. Si possono mettere insieme in Smile tanti elementi narrativi diversi, senza scontentare nessuno? Quali sono i vostri “gusti” in merito alla paura e dove invece la paura cinematografica vi fa “reagire male” alla visione? È possibile poi, in qualche caso, che qualcuno esca scontento dalla visione di un film horror (pur bello), e si aggrappi di conseguenza a qualsiasi cosa per criticarlo ferocemente, magari proprio perché il film horror è riuscito a spaventarlo per davvero (e quindi fosse una sorta di lesione d’onore)? Qualunque sia la vostra risposta, da amante in modo olistico di tutte le espressioni cinematografiche della paura, dalle montagne russe emotive degli slasher ai corridoi silenziosi e tutti uguali dell’Overlook Hotel, passando per le creature che si insidiano per rancore nel buio del mondo interiore dei J-horror, vi invito ad abbandonarvi alle mille facce della paura di Smile, sfoggiando anche voi un bel sorriso. Qualcosa nel film di Parker Finn vi farà sicuramente incazzare, qualcosa vi farà tremare di brutto, qualcosa vi lascerà magari indifferenti ma siete in un all you can eat e alla fine qualcosa che vi sarà davvero piaciuto in questa pellicola lo troverete e magari attenderete un bis. La formula c’è, il mostro c’è, le premesse per raccontare almeno un’altra storia che possa effettivamente arricchire l’immaginario di Smile senza battere le stesse strade ci sono. Certo non è facile “abbandonarsi alla paura”, soprattutto quando si è sotto un attacco incrociato che procede spedito su più fronti. Non è  facile per qualcuno guardare all’horror senza poterlo vedere come quella prova di forza iniziatica di “dimostrazione di coraggio” per vivere la vita adulta. Non è facile per qualcuno guardare all’horror senza aspettarsi per forza di trovarci una finestra sul proprio mondo metafisico e interiore e certo non è per qualcuno facile accettare di essere stati “spaventati a tradimento” da un gatto che miagola. Smile ci interroga sui nostri limiti nell’affrontare la paura nella finzione cinematografica e in questo è provocatorio non meno di Midsommar di Ari Aster.  


A sorpresa, operando un approccio olistico al genere “della paura” e senza nascondere i molti omaggi al genere che l’opera prima di Parker Finn sceglie di compiere, Smile è una pellicola divertente, carica di suspence e suggestioni interessanti, molto ben recitata e confezionata, che un fan dell’horror non dovrebbe lasciarsi scappare. Un buon motivo per andare al cinema se si è giovani, magari portandoci la ragazza e tenendosi per mano nelle scene che fanno più paura… in pratica per tutto il film. Un bel modo per uscire dalla sala con il sorriso stampato dopo un horror.  

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