domenica 23 gennaio 2022

Diabolik - la nostra recensione del film dei Manetti Bros sul personaggio creato nel ‘62 dalle sorelle Giussani


 

(sinossi fatta male) Siamo negli anni ‘60, in un luogo di fantasia collocabile idealmente sulla Costa Azzurra. Nella repubblica parlamentare di Clerville, tra la capitale e Ghenf, nessuno è più al sicuro, specie chi nasconde in cassaforte gioielli preziosi. Di notte una creatura maligna armata di coltello, un autentico “uomo nero” come quello delle fiabe del terrore, può farsi largo tra le ombre, penetrare in ogni struttura eludendo ogni allarme e sorveglianza, abbattere muri, impossessarsi del bottino e dileguarsi. Nessuno può fermarlo ed è disposto a uccidere chiunque si frapponga tra lui e il suo l’obiettivo. Lo chiamiamo Diabolik (e lo interpreta Luca Marinelli). Ormai le vittime non si contano più e i giornali hanno dovuto svelare al mondo l’esistenza di questo mostro. Il commissario Ginko (Valerio Mastrandrea) è sul piede di guerra. Ha perso già molti uomini in questa sanguinaria caccia al ladro e anche se il suo rivale non è stato ancora identificato, sente di essergli molto vicino. Presto Diabolik farà qualche sbaglio. 

La algida e bellissima lady Eva Kant (Miriam Leone), da poco vedova di un facoltoso uomo d’affari scomparso durante una battuta di caccia e già corteggiatissima da uomini eminenti della politica come il vice ministro della giustizia Caron (Alessandro Roja), è ora in città insieme al prezioso diamante Rosa. Potrebbe essere la prossima vittima di Diabolik, ma la donna non sembra affatto spaventata dal mostro, quanto piuttosto attratta. Come scorgesse a livello inconscio una sorta di legame magnetico con lui. La dama e l’uomo nero infine si incontrano e pure negli occhi glaciali dell’assassino sembra trasparire qualcosa di strano, una chimica inattesa. Potrà essere Eva Kant il “passo falso” che permetterà a Ginko di catturare Diabolik? 

 


(Diabolik è un fumetto famoso) Diabolik è un fumetto popolare nato nel 1962 dalle sorelle Giussani, che si firmavano con l’iniziale del nome perché era strano che delle donne all’epoca realizzassero un’opera tanto trasgressiva quanto moderna, spiccatamente “cattiva”. Il personaggio è accreditato come il primo grande antieroe del fumetto italiano ed è stato apripista di una stagione molto fortunata per il genere noir. Ci sono fumetti che hanno omaggiato l’opera delle Giussani fin nella “K” finale di Diabolik nel proprio titolo (Kriminal, Satanik). Ci sono fumetti che ne hanno ripreso il peculiare formato di impaginazione “pocket” (gli Alan Ford), con la suddivisione a due vignette per pagina. Ne sono state tratte parodie (Dorellik, Cattivik), si sono fatti paralleli con l’iconografia di altri personaggi di fantasia come Bond o Batman, ha ispirato e si è ispirato a sua volta con la moda milanese. Dall’opera delle Giussani sono stati poi generati molti saggi, libri e graphic novel con al centro approfondimenti sulla psicologia criminale di Diabolik (Come Fenomenologia di Diabolik di Andrea Carlo Cappi) quanto sulla relazione di coppia tra lui e Eva Kant (da cui la versione a fumetti anche di Silvia Ziche, da poco raccolta nell’ironico Diabolik sottosopra). Esiste anche una versione per “un pubblico più piccolo” (il recente Kid : il ragazzo che voleva essere Diabolik”). Il personaggio naturalmente ha già generato un film, amabilmente imperfetto ma comunque ultra-cult per gli amanti dei poliziotteschi, per la regia di Mario Bava, nel 1968, quando il fumetto era all’apice del successo. Ma il mito non si è ridotto agli anni '60 e anzi ha sedotto più generazioni, con i giornaletti che spesso passavano di mano in mano anche attraverso il pubblico femminile (aspetto originale), di madre in figlia e rimanendo tutt’oggi, tra nuove e vecchie produzioni e generazioni, risultando tutt’oggi il terzo fumetto più venduto in Italia. Una coproduzione internazionale ha dato vita a una serie animata negli anni 2000, perché il personaggio è molto famoso anche all’estero. Nel 2012 doveva uscire una serie dal vivo anche per Sky, che non si è concretizzata, ma ora che Rai e 01 distribution hanno preso i diritti cinematografici si parla già di due pellicole sequel le cui riprese sono già iniziate. Un mio amico era venuto a conoscenza di alcune riprese con Miriam Leone vicino a dove abita ed è quasi svenuto: storia vera. C’era quindi molto interesse, oggi che i fumetti vanno particolarmente bene al cinema, nel fare le cose al meglio anche per questo orgoglio italico. Magari evitando le esperienze come il Dylan Dog con Brandon Routh. Certo il successo di Diabolik è un dato di fatto, anche se il fumetto non è magari così conosciuto e compreso dalle nuove generazioni, un po’ come accade ai primi due fumetti più venduti in Italia, Tex e Dylan Dog, magari ritenuti da molti ormai “roba da anziani”. Se Dylan Dog ha cercato negli anni di aggiornarsi, Diabolik come Tex ha sempre tirato dritto e forse c’è da riflettere su cosa può rappresentare davvero Diabolik oggi per il pubblico, anche in riferimento all’immagine che del personaggio delle Giussani si vorrebbe far arrivare attraverso questa pellicola dei Manetti.

 


(Che cos’è per me il fumetto di Diabolik e perché funziona). Seguono opinioni personali. Diabolik lo percepisco come un fumetto piuttosto preciso nelle regole e nella forma. È strutturato come una perfetta lettura “da tram” per tre elementi: a) parole scritte non  troppo in piccolo (per non far tirare la vista); b) narrazione corposa sul singolo foglio che non ti obbliga a giare le pagine ogni 10 secondi (cosa che sarebbe scomoda se sul tram sei appiccicato ad altra gente con poche possibilità di movimento); c) molte ricapitolazioni e pure un retro di copertina che “ricorda” chi è il co-protagonista della storia (perché metti che perdi passaggi della storia tra una fermata e l’altra). Per rendere possibile quanto sopra, tutto è super codificato in modo chiaro quanto immediato. Chiunque prende in mano un fumetto sa che Diabolik è un ladro che fa uso di maschere, possiede un’auto che gli permette di fuggire e accedere a un sistema di nascondigli segreti, ha sempre con sé un coltello per combattere, deve accedere a un bottino superando una serie di prove di abilità facendo uso di “trucchi ben spiegati e spiegabili” che il lettore deve essere in grado di comprendere al volo come i giochi della settimana enigmistica. Con queste limitazioni strutturali, unite alla necessità che i personaggi si muovano sempre con schemi riconoscibili (ma ci torniamo dopo), creare storie per Diabolik è un’arte estremamente complessa quando sottovalutata, proprio perché l’esito finale è creare una storia sempre subito intellegibile quando sempre nuova. Ed ecco che arrivano espedienti come “le scarpe a molla” o “i trampolini stradali”. Mi spiego. C’è una storia in cui, per far evadere di galera Diabolik, Eva gli spedisce in carcere delle scarpe a molla, con cui lui salta sopra le mura di recinzione durante l’ora d’aria. Sono cose “fanciullesche” o se vogliamo da “umorismo dadaista” (per dirla con più nobiltà) che possono funzionare solo su un fumetto come Diabolik e che accadono a fianco di pagine, dello stesso volume, in cui il nostro eroe prende a coltellate delle guardie (pur nel modo più asettico possibile). E si deve vedere con chiarezza sulla vignetta che ci sono delle molle sotto le scarpe!! Christopher Nolan ci farebbe un film sulla possibilità di evadere da una prigione con delle scarpe, dalla creazione delle stesse a livello progettuale ai test, i fallimenti, i nuovi test, il sistema di regolatore del balzo in ragione alla metratura da raggiungere fino all’atterraggio sicuro. Naturalmente poi parlerebbe a parte delle modalità per far entrare fisicamente le scarpe nella prigione in modo sicuro, magari reclutando guardie compiacenti, dividendole in pezzi riassemblabili, utilizzando le tubature dei bagni per farle arrivare in aree inaccessibili. A Clerville Diaboik apre in pacco e due scene dopo è saltato fuori dalla prigione, nell’ora d’aria, e lo stesso discorso di praticità e rapidità vale per le maschere facciali. 



In Mission Impossible ti creano una tecnologia a base di stampanti laser e scansione termo-ottica, in Face Off ti dicono che è più pratico e realistico se cerchi di “staccare e riattaccare la faccia” chirurgicamente e sempre a patto che la persona in cui vuoi trasformarti sia molto simile a te. In Diabolik il nostro eroe “c’ha la colla speciale” ed è un dato di fatto: il gioco, come per la storia dei trampoli, è capire quando il trucco potrà entrare in azione, molto più che capire come è stato fatto il trucco stesso. L’Idea è far scaturire la domanda: “Quale persona sulla scena può in realtà essere adesso Diabolik?” oppure “con quale trucco, caro lettore, per te Diabolik riuscirebbe a scappare dai poliziotti in questa situazione?”. Per questo i trucchi devono funzionare come il gioco “trova le 5 differenze” della settimana enigmistica, nel più esiguo e funzionale numero di pagine possibili. Tutto deve essere sintetico, anche le scene d’azione non possono rubare troppo spazio. Sul tram in una mezz’ora/quaranta minuti (qualcuno direbbe anche “al bagno”), il fumetto deve poter essere letto e compreso, dalla premessa all’epilogo, dai trucchi alla strategia per il furto e la fuga. Sto facendo delle semplificazioni, ma neanche poi troppo, perché il Diabolik letto in meno di quaranta minuti, idealmente “fuori dal tram”, ha un gusto molto diverso, come prendere un cappuccino al bar al tavolo o un caffè alla macchinetta. La formula vincente di Diabolik è per me al 70% in questa struttura con quel particolare ritmo e soluzioni narrative (che ha solo questo fumetto). Poi c’è il personaggio, che ha un indubbio fascino ma che può divergere anche per come ogni lettore lo “interpreta”. Piace moltissimo alle lettrici che vedono in lui un uomo forte ma anche una perenne anima in cerca di una redenzione (im)possibile grazie all’amore di Eva. Piace a chi lo vede come colui che spoglia dei “simboli di potere” persone che si sentono parte di una classe privilegiata, superiori solo perché ricche o corrotte. Piace a chi per una volta vuole “tifare per il cattivo”, anche perché può essere liberatorio, come “ora d’aria”, immaginare di fuggire dai mille recinti della morale comune saltando con dei trampoli. Diabolik sa essere un personaggio complesso e se vogliamo “tragico”. È psicologicamente una specie di “guscio vuoto” (un po’ come l’agente 47 di Hitman, che di fatto ha moltissimo in comune con lui anche sul piano della non/espressività e sul modo di apparire “rigido”), una macchia nera con le fattezze di un manichino di cui scorgiamo spesso come unico segno umano solo gli occhi.  La vita lo mette spesso alla ricerca continua di tesori più per l’ebbrezza della sfida che per l’accumulo. È una sorta di drogato di emozioni forti ed Eva Kant in qualche modo è il suo doppio, una che ha messo le ricchezze sopra le persone. Se sono diventate persone così fredde ci sono stati dei traumi precisi nel loro passato, alcuni dei quali hanno trovato risposta nella serie, ma sono traumi che in qualche modo li hanno uniti. Per me il cuore narrativo del fumetto risiede nel dubbio che queste due persone “infrante” sappiano amare davvero qualcuno, più che ambire alla collana o al pugnale coperto di lapislazzuli oggetto del “furto del mese”. Una tensione emotiva che crea un balletto infinito che è partito nel 1962, con la censura e il mondo del 1962, in cui faceva già scandalo che un uomo e una donna come Diabolik ed Eva stessero insieme pur non essendo sposati e le scene di nudo e violenza dovevano essere solo accennate pure nei fumetti “da adulti”. Diabolik ha superato la prova del tempo più di molte altre opere analoghe e continua anche oggi a imperversare, ma tutto quel mondo da “lettura sul tram” può essere tradotto efficacemente ancora oggi sullo schermo, con personaggio in carne ed ossa? Chi non ha mai letto Diabolik e si è fatto un’idea del personaggio “tutta sua”, magari immaginandosi da un costume nero e un trailer suggestivo un revival dei poliziotteschi (che ricordiamo avevano come marchio anche inseguimenti in auto veloci quanto difficile da rendere tali, se non molto “stilizzati” nella narrazione su carta) magari in salsa Argento che non guasta (che e oggi ispira anche James Wan), magari con Miriam Leone che fa le docce come la Fenech? Questi “non-lettori auto-suggestionati” (categoria a cui appartengono “grandissimi esperti di cine-fumetto” che mai hanno letto in vita loro un fumetto) potranno trovare comunque in sala qualcosa di interessante? 

 


(Come tradurre al cinema Diabolik) I Manetti Bros non hanno messo Miriam Leone sotto una doccia come la Fenech ed è un peccato, ma del resto una scena del genere anche nel fumetto poteva esserci solo se super accennata, di spalle e poco più. L’ho detto subito così via il dente e via il dolore… però la Miriam nazionale sfoggia in una scena già cult una vestaglia trasparente da sogno e per questo motivo la ameremo per sempre. Ma questo punto, ossia la “mancata scena Fenech” è comunque significativo dell’altissimo grado di aderenza alla materia originale che i due registi romani hanno deciso di esprimere con questa loro nuova opera, un po’ dalle parti di quello che ha fatto Robert Rodriguez per il Sin City di Frank Miller, anche se le premesse erano forse un po’ diverse. Quando Rodriguez prese di peso il fumetto Sin City di Miller come fosse uno storyboard e lo girò scena per scena, vignetta per vignetta, pari pari, ibridando le tecniche di ripresa ed effetti speciali fino a creare un “film bidimensionale in bianco e nero come il fumetto”, il mondo ebbe un sussulto. I fan del fumetto e i fan del film si unirono abbracciandosi. Miller aveva di base creato un noir dal forte linguaggio cinematografico e l’opera si prestava a una simile tradizione estrema al meglio. Come dicevo, “il mondo esultò, i fan si abbracciarono ecc.“ ma ora aggiungo “poi tre minuti dopo tutti si erano già rotti le palle di questa nuova formula”, soprattutto per le alterazioni visive più estreme che “appiattivano l’immagine”. Il grande pubblico non volle più saperne delle opere successive costruite con il “metodo visivo estremo by Sin City” (come The Spirit o Immortals o Sky Captain). Era come se fosse stata scardinata di colpo la grammatica cinematografia invisibile a cui erano abituati e questo distraesse dalla fruizione. Forse il grande pubblico non era ancora pronto a quel linguaggio visivo, anche se Miller lo aveva sedotto con una grammatica cinematografica. Ora immaginate la particolarissima grammatica del fumetto di Diabolik come espressa sopra nella metafora “del tram”, che è quanto di più lontano da un impianto facilmente addomesticabile al cinema. Immaginate quindi scene che rimangono pressoché statiche nell’inquadratura fino a quando i personaggi non hanno finito di dire la loro battuta. Immaginate sequenze d’azione “lente e quasi sospese” come apparivano su carta quando eravate in tram e non potevate girare pagina più velocemente perché eravate bloccati nei movimenti dagli altri passeggeri, con la cinetica delle tavole che diventa più un atto subliminale che visivo. Immaginate le ripetizioni dei concetti funzionali su carta al cinema, dove dovreste essere più attenti (anche se a dirla tutta oggi con i cellulari sempre accesi pure l’attenzione al cinema non è troppo diversa da quella che si può avere su un tram). Immaginate il tempo di lettura di quaranta minuti che forse al cinema può gonfiarsi un pochino, ma a patto di rendere la narrazione ancora più lenta. Ora però, da fan del fumetto Diabolik, immaginatevi il numero 3 della collana classica, che come storia è una maledetta bomba atomica. Il numero 3 è a mani basse una delle storie più belle, con alcune delle trovate più matte e per una volta con una trama che sposta emotivamente i nostri personaggi in modo differente dal precedente schema-ripetizione, creando anzi di fatto la situazione “archetipica” futura del fumetto. Il numero 3 offre una autentica miniera di suggestioni e anche scene come i trampolini o gli ingressi segreti ai covi, che ad alcuni faranno tornare alla memoria il Batman con Adam West, funzionano nel contesto surreale di insieme. Pensate inoltre che ci ha detto benissimo sugli attori, con un Luca Marinelli che ha trovato in una voce assente di tono (che nel fumetto ricordo è assente) una chiave per renderci Diabolik un personaggio più completo e sfaccettato, particolarmente sul fronte della vulnerabilità emotiva. Con una Miriam Leone che quando è in scena illumina a giorno anche una autostrada alle tre di notte, con tutta la sensualità, la carnalità e gli occhi sbriluccicanti che la Eva Kant su carta non poteva esprimere. Con l’ispettore Ginko di Mastrandrea che sa essere aggressivo nella caccia ma anche umano, qualche volta pure “confuso”. Purtroppo la trasposizione cinematografica del numero 3 a un certo punto “finisce” e il film decide per una quarantina di minuti extra di trama di trasporre un altro fumetto, più recente e scritto da Tito Faraci, che idealmente è proprio un seguito del “3”, che ha pure un buon finale, ma che per il novanta per cento del tempo “è un marone”. Passiamo dalle 300 idee matte del numero 3 a una surreale situazione in cui Diabolik è come congelato in una singola scena. La narrazione si avverte terminata da un pezzo e si ha quasi la sensazione di essere in ostaggio di un qualcosa che sembra un riempitivo poco ispirato. Mi dispiace per Faraci, autore che seguo molto e di cui amavo alla follia Brad Baron, ma la parte del film ispirata al suo fumetto per me non gira proprio e probabilmente la taglierò in toto ad una futura visione  in home video della pellicola . Solo che, se vogliamo, questa situazione è scaturita proprio dall’ossessione di offrire su schermo una copia 1/1 del fumetto, quando magari si poteva essere meno fiscali e magari aggiungere, al posto di questi 40 minuti extra, tre belle scene della doccia con protagonista Miriam Leone. 


Mi prendo qui un paio di righe anche per rispondere a quelli che nelle recensioni e nei commenti scrivono più o meno: “il cinema e il fumetto sono Media diversi e intraducibili: non operare adattamenti per passare da un media all’altro è un errore”. Ecco, per me tutti quelli che insistono sul calare sull’arte categorie rigide come “l’oggettività” o “l’aderenza necessaria a delle regole formali”, dovrebbero provare a lasciarsi un po’ distrarre dalla continua ricerca di “oggettività” e cercare di vivere espressioni come il cinema come una esperienza “in cui non hanno il controllo”. Perdere il controllo sulle proprie aspettative e farsi trascinare in mondi creati da altri, è l’unico modo per innamorarsi dell’arte e della vita, ma riconosco che sia alle volte difficile e che a qualcuno ogni tanto metta quasi paura. Bisognerebbe indagare su questa paura di lasciarsi andare, che spesso ha radici nell’infanzia e nel non poter più dedicare tempo all’immaginazione “"“da adulti”””. È utile che il cinema riesca a smascherare questo meccanismo emotivo fino a creare reazioni “di controllo formale”. Si può discutere della traduzione di un fumetto in un film sul lato del coinvolgimento emotivo, non sulla adesione o meno a regole formali su come girare, che peraltro sono state migliaia di volte già infrante nella “cinematografia sperimentale” (che parte per alcuni proprio con un italiano futurista, Bragaglia e il suo Thais) che da sempre si esprime sul connubio tra arte figurativa e cinema e si produce ancora oggi (vedi Amer di Cattet e Forzani, che potete trovare pure in blu ray e non in un museo), ma che certa gente che ha visto giusto due Kubrick e tre Nolan non conosce o magari non può concepire “estesa ai fumetti” o non è interessata a volerla vedere in toto. Scusate lo sfogo, ma quando leggo critiche sull’arte e sull’estetica corretta per rappresentarla, da gente che non ha nemmeno sfogliato le prime sei pagine di un qualsiasi libro d’arte e crede che tutto il mondo sia riconducibile alle 3 idee che hanno loro su come debbano andare le cose, confondendo “gusto personale” con “dogma universale” come i migliori inquisitori… mi sale lo sconforto. Tiriamo innanzi. 

Complessivamente comunque devo dire di sentirmi soddisfatto dalla messa in scena di Diabolik. Il fumetto vive all’interno di una sontuosa cornice ispirata al cinabitsliano degli anni ‘70 e risulta affascinante dall’oggettistica e dal trucco come dall’uso dei colori, dalle musiche malinconiche composte di Manuel Agnelli alle scelta delle location, dalla fotografia vintage ad alcuni dettagli camp gustoso come le scene del lancio del coltello accompagnate da un sibilo. Mi è piaciuta molto anche la filosofia dietro al costume di Diabolik scelto, che ne sottolinea la prestanza fisica e offre sulla maschera una resa “rigida”, quasi da “manichino” quanto vicino al “volto corazzato” e lucido di alcune armature da samurai. Anche se questa scelta ho notato che è stata un po’ divisiva nel pubblico, si sposa bene con l’interpretazione di Marinelli di un personaggio che non vuole far trapelare emozioni (ma che riesce a farlo invece quando si traveste, come nella scena in cui prova la voce del cameriere). 

 


(Come un “boomer” può reagire a Diabolik al cinema) Ho incontrato per la prima volta Diabolik che ero piccolissimo, a Milano, nel ‘81. Era il fumetto preferito di mia cugina e credo che qualche volta lei lo legga ancora, in tedesco. Il film dei Manetti è stato girato anche a Milano e una delle primissime scene mi ha ricordato (ma è più una “sensazione” perché quella sequenza specifica mi pare invece che abbiano detto essere girata a Bologna) una strada interna, proprio vicino all’ingresso dello scomparso cinema Astra di Corso Vittorio Emanuele. È un po’ come se Diabolik, con la sua Jaguar E, sbuchi da “quel cinema”, che è un po’ il simbolo di “quel mondo” che non c’è più e quel “cinema di genere” che non c’è più. Ma si può ancora tradurre questo mondo per le nuove generazioni? Non è un caso per me che i Manetti abbiano fatto un’opera quasi filologica, rivolta a chi il fumetto lo conosce o lo vorrebbe conoscere, stando sulle fonti e permettendo al personaggio di essere apprezzato così come è sempre stato, duro e puro, senza seguire a tutti i costi le mode. Chi saprà  apprezzare il film potrà così fiondarsi diritto sul fumetto, trovando al suo interno lo stesso mondo di gioielli, belle donne, trampoli e coltelli, magari da gustare sul prossimo tram mentre torna a casa (o “al bagno”, come dicevo sopra). Certo l’opera potrà non piacere a chi si aspetta un poliziottesco perché Diabolik, sorpresa, non è un poliziottesco. Potrà non piacere chi si aspetta un giallo alla Dario Argento perché, sorpresa, Diabolik non è un giallo alla Dario Argento. Non è assolutamente un film e un fumetto nato per derivazione per compiacere le mode: Diabolik le trascende le mode, come i generi, perché è un archetipo, qualcosa di “unico”. 

 


(Finale) Io mi sono tipo commosso nei primi minuti, mi sono innamorato di Miriam Leone ancora di più, ho adorato la scena in cui Diabolik “prova il timbro della voce” (altro “extra” interessante non producibile su carta), la scena del covo con le Maschere (che fa un po’ Profondo Rosso), la “parte fiale del numero 3”. Gli ultimi quaranta minuti li avrei invece saltati, il film poteva essere più corto e non ne avrei avuto troppo a male. Magari consiglierei per il futuro di trasporre una storia “più lunga di un numero classico”, ma la scelta di partire con il 3 è stata davvero ganza. Al netto di qualche difetto, l’esperienza del nuovo film dei Manetti è stata per me positiva e la testimonianza che per una volta il cinema italiano può provare a pensare un po’ più in grande, tornando a fare “con i soldi” quello che ai tempi d’oro è stato l’intrattenimento di genere, magari proprio partendo da Diabolik, che è un personaggio davvero in grado di “fare genere a sé“. Forse i cinema del passato come l’Astra non torneranno più, ma Diabolik potrà ancora guidare la sua Jaguar E in una distopia degli anni ‘60 grazie a pellicole come queste. 

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