martedì 30 novembre 2021

Trafficante di virus: la nostra recensione

Film in concorso al 39simo Torino Film Festival

Al cinema il 29, 30 novembre e 01 dicembre e in seguito su Amazon Prime

 


Irene Colli (Anna Foglietta) affronta i virus con dei reagenti per poi osservarli dibattersi al microscopio. Lavora in un laboratorio tecnologico quanto asettico, coperta integralmente da una tuta di massima protezione, che la fa quasi apparire come una cosmonauta di un film di fantascienza anni ‘70. Finito il combattimento si spoglia di tutto e si decontamina, rimanendo nuda sotto la doccia antibatterica come una gladiatrice sopravvissuta all’arena, almeno fino al nuovo duello. Ma la notte è lunga, tormentata e insonne. Il giorno dopo ha luogo un processo penale che la riguarda personalmente e potrebbe distruggerle la vita. La donna, secondo le fumose carte di un procedimento in sospeso da anni, avrebbe inviato a una casa farmaceutica americana dei virus isolati in provetta. Lo scopo sarebbe quello di produrre un vaccino per la variante nigeriana della viaria, ma le modalità del trasferimento del materiale biologico sono fosche e si parla nella sfilza di imputazioni anche di “tentata strage”. Un giornalista (Paolo Calabresi) è riuscito a far scoppiare la bomba mediatica proprio mentre la Colli era parlamentare, spingendola alle dimissioni e ora, alcuni mesi dopo, l’affare è giunto davanti al giudice delle indagini preliminari. La notte sarà per la donna un’occasione per rileggere tutte le carte e ripensare alla propria vita e ambizioni. Ripenserà a quando  più volte si era scontrata infruttuosamente con il suo dirigente amministrativo (Roberto Citran), per ottenere maggiore un maggiore standard di sicurezza, alla luce dei finanziamenti europei ottenuti dal riconoscimento dalle sue ricerche. Penserà a quando si era inimicata il mondo scientifico, mettendo su una piattaforma open source dei risultati che avrebbero fruttato ben di più con una pubblicazione ufficiale, per la sua “smania di salvare vite” durante una grave emergenza per un paese del terzo mondo. La vita lavorativa di Irene è stata una lotta continua, piena di rinunce e sacrifici, con gravi ricadute anche nell’ambito privato. Più storie fallite, rapporti tesi con la famiglia è una vita da cambiare più volte dal giorno alla notte. Ora la Colli si trova davanti al massimo giudizio, quello di una legge che per una volta sta mettendo lei davanti al suo microscopio. Riuscirà a chiudere occhio?


Ispirata liberamente  al libro “Io, trafficante di virus”, scritto dalla virologa Ilaria Capua e relativo a una vicenda giudiziaria che l'ha direttamente coinvolta, Trafficante di Virus vuole essere un film di denuncia, un film sulla dura professione di chi combatte in prima linea per la ricerca scientifica e un film sui classici mali dei nostro Belpaese. La sceneggiatura di Francesca Archibugi e di Costanza Quatriglio, che qui è anche regista, costruisce una ragnatela di vicende, pubbliche e private che si sviluppano nell’arco di vent’anni, a partire dalla costituzione post 11 settembre di un ente governativo americano incaricato di occuparsi della guerra batteriologica. Sono anni di grandi scoperte scientifiche in ambito pandemico, a cominciare dagli studi sulla viaria, ma sono anche anni in cui si vengono a scontrare interessi economici ed elitari con questioni inerenti la salute pubblica. Scienza, burocrazia e orgoglio di casta non vanno mai troppo a braccetto e così, in una scena chiave della pellicola, uno scienziato luminare definisce “veri parassiti” i ricercatori internazionali che si approfittano liberamente dei risultati di ricerche scientifiche “altrui”, anche se inseriti volontariamente su dei canali divulgativi gratuiti. 

La protagonista della vicenda  è interpretata da  Anna Foglietta come una donna forte, determinata quanto dal carattere rigido, poco incline al venire a patti con gli interessi e tempi delle autorità politiche e burocratiche sotto cui deve operare. Una donna che ha sacrificato forse troppo nei rapporti umani e che forse viene percepita troppo ambiziosa e in vista: una “diva”, come D.I.V.A. è l’acronimo del marker per la viaria da lei sviluppato. È una donna scomoda, che qualcuno continuamente non vede l’ora di controllare o distruggere, che si tratti dell’ambito scientifico, universitario o politico. Questo “qualcuno” è rappresentato dal classico “nemico invisibile” di molta cinematografia italiana che si occupa di vicende “ispirate ad eventi realmente accaduti”. Non lo vedi ma lo percepisci, come il Drago di Excalibur di John Boorman. Anche se il film è di Costanza Quatriglio e viene dichiarato che la protagonista si chiama Irene Colli e ci si ispira solo molto liberamente alle vicende che hanno riguardato Ilaria Capua, si avverte il classico timore tutto italiano a dare una voce e uno scopo preciso al “male”, anche nei casi in cui ci muoviamo nella pura finzione cinematografica. Forse il male ha il volto rigido del grigio dirigente Ferrari interpretato da Citran: uno che prima definisce la protagonista “la nostra gallina dalle uova d’oro” quando completa una ricerca importante, per poi metodicamente affossarla, con lo stesso sguardo, quando assume lui il ruolo di decisore politico. Ma forse il male ha pure il volto vacuo del giornalista impersonato da Paolo Calabresi: uno che prima osserva il vuoto morale in cui vive e poi non ci mette molto a distruggere una persona anche senza delle prove chiare, giusto per sudditanza a una misteriosa guida politica che gli ha dato l’imbeccata, per poi vedere la vittima in pezzi, senza cambiare espressione facciale. Il nemico non si svela mai apertamente. Vive nelle retrovie, non esprime mai il suo punto di vista, si muove su schermo senza mutare intenzioni e carattere, come fosse “lì per caso”, trincerandosi dietro a quel muro di gomma di cui parlava un celebre film del 1991 di Marco Risi. Il nemico trascende le più basilari regole della drammaturgia, in un realtà narrativa di fantasia in cui non gli sarebbe concesso di rimanere inespresso. A meno che non parliamo più di un film “ispirato alla realtà”, ma di un “horror” kafkiano. E con questa cronica mancanza di empatia o volontà di anonimato che il film diventa un sempre più confuso accumulo di “non detti”, che fanno oscillare lo spettatore dalla visione di un racconto quasi documentaristico alla percezione di una spy story, fin quasi a confondendolo del tutto tra le pieghe del thriller psicologico: insinuando e facendo intendere in questa ultima sfumatura che pure la percezione dei fatti della nostra protagonista, può non essere sempre cristallina. Facendocela giudicare per il suo modo scostante di vivere e agire, più che mostrandoci direttamente i fatti, la cui cura è lasciata invece a una interpretazione labirintica della realtà, in una scansione temporale che salta e riavvolge il tempo di continuo. Tutto questo incedere e nascondere viene giustamente percepito dallo spettatore come opprimente e ingiusto e alla fine della visione permane un grande senso di amaro in bocca. È possibile che il nostro cinema italiano “di denuncia” abbia così spesso e così tanta paura del “male”, da non poterlo palesare nemmeno all’interno di una finzione scenica “molto liberamente ispirata alla realtà”? Oppure il personaggio di finzione di Citran ha degli avvocati che possono intimorire la produzione più del personaggio di finzione interpretato dalla Foglietta? Non avendo la capacità di sbrogliare la matassa, ripenso al modo in cui Tarantino è solito rileggere anche la Storia con il potere della fantasia, propria del Cinema, e derubrico questa deriva kafkiana a “tratto caratteriale” del nostro cinema italiano.



Trafficante di virus è un film duro su un mondo scientifico quantomai complesso, eroico, ambiguo, spesso dimenticato quanto “bloccato” a più livelli da un mondo troppo complesso per rispondere abbastanza velocemente alle sue esigenze. È un film sull’invidia e l’ossessione del controllo. È un film dove chi urla troppo, anche se ha ragione, viene preso per pazzo. L’ho già scritto tra le righe di questo pezzo e lo ribadisco, questo non dovrebbe essere inteso come un film di denuncia quanto come un horror kafkiano. Ma spero che pellicole come questa inspirino qualcuno a cambiare le cose in futuro, tanto nell’ambito della cinematografia italiana che oltre. Molto brava la Foglietta nel descrivere una donna complessa, affascinante quanto combattiva, fragile quanto pronta a riconsiderare la sua vita e il rapporto con gli altri. Mai visto un Paolo Calabresi più luciferino, peccato che il personaggio diventi troppo defilato nel finale. Sempre appropriato Citran nel suo ruolo, ormai classico, di oscuro burocrate. 

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