martedì 12 ottobre 2021

The last duel: la nostra recensione del nuovo film di Ridley Scott



La storia è ispirata a fatti realmente accaduti intorno al 1300. Siamo in un medioevo europeo fangoso, opulento ma poco eroico, dall’aria autunnale, (fotografato a tinte oscure dal grande Dariusz Wolski, che con Scott abbiamo apprezzato particolarmente in Prometheus) pieno di cavalieri in armatura e in cui i combattimenti sono all’ordine del giorno. Siamo lontani anni luce dal sogno arturiano e dall’amore cortese, è tutta una questione di tasse e terreni. È in una terra francese difesa e onorata col sangue, tra sontuosi castelli e (tanti) brulli campi di battaglia (ma resi magnifici dalle scenografie di Arthur Max, che Scott si porta dietro da Le Crociate) che nasce, germoglia ed esplode l’odio tra due uomini che “un tempo si dicevano amici”, Jean de Carrouges (un  massiccio Matt Damon) e Jacques Le Gris (uno sfuggente Adam Driver). Prima sodali scudieri del re di Francia Carlo VI (un giovane Alex Lawther che conferisce al personaggio in parti uguali ingenuità e sadismo), con il tempo sempre più distanti e invidiosi delle rispettive fortune, infine nemici, uno contro l’altro, “duellanti” fino alla morte, in una giostra in cui è in gioco l’“onore”. Un onore calpestato e vilipeso da anni, tra infiniti rancori su “chi è più nobile” tra i due, ma che esplode in guerra per una donna, la bella Marguerite (resa complessa e sfaccettata da una straordinaria Jodie Comer). Non una guerra “per poterla amare” purtroppo, quanto una guerra “per averla e basta”. Per il rude Jean de Carrouges (Matt Damon), indomabile guerriero sui campi di battaglia, Marguerite è una “sposa comprata”. Poco più di un cavallo da monta per darsi un erede e un castello, riabilitando un nome e fama decaduti “per fortune avverse”. Non gli interessa conoscere il mondo interiore della ragazza, non gli interessa nemmeno badare al castello e alla corte: De Carrouges vive per stare su un campo di battaglia a spaccare teste per la sua gloria, anche se l’irruenza ne fa spesso un perdente. Marguerite per lui deve essere fedele incondizionatamente, ne va della sua discendenza di sangue. Per il subdolo Jacques Le Gris (Adam Driver), combattente diventato presto uomo di fiducia dell’ingiusto e vizioso cugino del re, Pierre d’Alencon (che Ben Affleck rende particolarmente dionisiaco), i privilegi di corte superano di gran lunga il fascino dei campi di battaglia. Lui ha studiato, lui è altolocato, lui ha la Chiesa dalla sua parte. Marguerite diventa il suo sogno proibito: una donna bella e forse intelligente “quasi quanto lui”, amante dei libri “quasi quanto lui” e delle lingue straniere “quasi quanto lui”. Una donna con cui poter enunciare in tedesco le storie di Sigfrido e rimembrare il dramma di Lancillotto e Ginevra. Marguerite è per lui un sogno e pertanto, narcisisticamente, pretende di stuprarla a piacimento mentre il marito di lei è in una delle sue mille battaglie, senza che Marguerite si ribelli o che il marito si ribelli, in quanto lui più nobile d’animo, più acculturato, più vicino alla chiesa e potente nella gerarchia del regno. Da quell’atto di violenza che è più una “concessione di reciproco affetto”, Le Gris ne è convinto, la donna dovrebbe diventare con il tempo sua amante senza battere ciglio, accettandolo magari anche solo per abitudine, nel silenzio, fino ad amarlo incondizionatamente. 


Le Carrouges e Le Gris si contendono così a modo loro una Marguerite che li “completa”, dal punto di vista patrimoniale ed emotivo, ma che per loro non arriva mai ad essere oltre che un oggetto di potere. Che sia una dote o un trofeo d’amore, Marguerite per loro “non ha voce”. Pur avendo tutto da perdere, in un periodo storico in cui le donne accettavano senza battere ciglio ogni genere di abusi “per quieto vivere”, Marguerite denuncia però con coraggio lo stupro. Ma rimane nonostante questo solo “spettatrice” del secolare odio tra i due uomini. Marguerite vuole che Le Gris vada davanti a un tribunale, Jean de Carrouges sceglie di sfidarlo a duello “con bolla reale”, per “ammazzarlo con le sue mani”. Solo che scegliendo il duello De Carrouges, se perderà, dimostrerà che Le Gris non ha mai fatto alcuna violenza sulla moglie, perché “Dio è con chi vince”. Di conseguenza Marguerite dovrà essere arsa viva, in quanto “contraria al giudizio Dio” e quindi strega. 

Ridley Scott nasce come il regista dei Duellanti, del 1977, una ballata action sull’amore e odio infinito tra due uomini, che si perpetua attraverso il tempo e i confini geografici. Oggi in qualche modo Scott torna a quel concetto di guerra infinita, a tratti simile all’amore, con questo “Ultimo duello” che cita i “suoi” duellanti, ma porta su di sé anche quanto Scott ha raccolto nei 44 anni di carriera.


Dopo i Duellanti, Ridley Scott è stato il regista degli uomini artificiali che contano le pecorelle artificiali per addormentarsi (Blade Runner). È diventato il cantore oscuro dello spazio, ossia la prossima “casa dell’uomo” ma anche il un luogo oscuro dove nessuno può sentirci urlare (Alien, The Martian). Ha raccontato le guerre di ieri (Le crociate) e di oggi (Black Hawk Down), ha raccontato il “progresso” (1492, Black Rain), la “religione” (Exodus, Prometheus), la vita di uomini di potere persi nelle loro ossessioni (Tutti i soldi del mondo, American Gangster, House of Gucci), ha voluto dare voce all’indipendenza delle donne (Thelma & Louise, G.I.Jane… e naturalmente ha creato la massima icona dell’eroina femminile, la Ripley di Alien di Sigurney Weaver) quanto ha voluto rincorrere e reimmaginare l’epica (Il Gladiatore, Robin Hood, Hannibal, Legend). Se lo chiedete a me, Ridley Scott è però soprattutto il massimo regista delle armature scintillanti. Un uomo che ha fatto dell’estetica più avanguardista una chiave importante e ulteriore con cui guardare oggi il cinema. Scott ha chiesto e ottenuto dallo scultore svizzero Hans Ruedi Giger, per il suo Alien, la corazza esoscheletrica di uno xenomorpho che fondesse organico e meccanico, per dare vita a un lucente drago moderno. Ha chiesto al costumista Charles Knode la “body Art sgargiante”, tra metallo e nude-look, che da forma, ricopre e “confeziona” i corpi-armatura dei cyborg di Blade Runner. Ha sempre a Knode chiesto, per Legend, di produrre una dorata e scintillante armatura da eroe delle favole, rugginosi elmi da orco, falliche corna per il più terribile dei diavoli cinematografici, interpretato da Tim Curry. Dagli anni 2000 Scott ha poi trovato un sodalizio artistico di lunghissimo corso con un nuovo “costruttore di armi e armature”, portando in scena le molte e varie realizzazioni della costumista britannica Janty Yates. Corazze rugginose e sporche per soldati romani intenti nelle campagne invernali contro i Galli, scintillanti ed eccentrici accessori luccicanti per i gladiatori dell’arena (Il Gladiatore). Corazze a maglie d’acciaio intrecciate e maschere ornamentali di metallo per nascondere volti sfigurati dalla peste (I crociati e lo straordinario make-Up di Edward Norton). Armature da donna (per la divina Cate Balchett) e armature “contenitive”, poco eroiche ma possenti, per un sovrano e un eroe sovrappeso (Robin Hood). Armature futuristiche enormi e percorse di tubi cromati per gli ingegneri di Prometheus, che tanto assomigliano nell’estetica alle tute dei fremen di un Dune che nel 1982 poteva essere per un soffio (e con un produttore diverso) un film diretto proprio da Ridley Scott. Scott con Janty Yates rinnova il sodalizio anche per questo The Last Duel e la costumista affronta la sfida con la sua solita cura maniacale, tanto per i dettagli che per la resa spettacolare di ognuna delle sue creazioni. Le armature dei duellanti della giostra, il picco della nuova produzione della Yates per il film, sono quasi al 100% repliche di autentiche armature medioevali, adattate “alla giostra” con gli elmi in parte divelti per permettere maggiore visibilità laterale ai cavalieri. Se i due protagonisti hanno una bardatura che li rende più mobili e gli consente di guardarsi negli oggi, anche Marguerite indossa per l’occasione un abito simile a una corazza. Ma la sua rigida postura ne immobilizza il collo e lo sguardo, appare costringente sul busto, blocca le articolazioni e la condanna quasi a essere una statua, quasi fosse una moderna vergine di Norimberga. Bastano i primi tre minuti della pellicola e le armature della Yates che in questo lasso di tempo vengono “indossate” per definire in modo preciso il tono del film di Scott a livello simbolico. Vorremmo quasi vederla subito, questa giostra medioevale tanto agognata fin dal primo trailer e subito promossa dai critici internazionali come la più perfetta e accurata rappresentazione di un duello in armatura dai tempi di quanto raccontato dall’Ivanhoe di un “altro Scott”, Walter Scott. Dopo averci portato a vedere il circo dei gladiatori, aspettiamo solo che Scott ci porti, 22 anni dopo, anche ad assistere a una giostra medioevale. Sarà uno spettacolo crudele quanto esaltante, primordiale quanto elegante, realisticamente e drammaticamente interpretato al meglio da due grandi attori. Ma sarà solo il climax. 



Ogni tanto Scott ci porta su un campo di battaglia, spesso seguendo le catastrofiche imprese di De Carrouges, ricordandoci le frecce infuocate del suo Robin Hood, gli scontri corpo a corpo violenti, scomposti e “pesanti” del Gladiatore, le file degli eserciti schierati sotto il sole e il sudore delle sue Crociate. Ma l’azione dura poco, perché Scott vuole qui  volare altrove e raccontarci una storia diversa, quasi di matrice giudiziaria, seguendo una trama che va a comporsi come un puzzle. Prima della giostra finale, divisi in capitoli, assistiamo agli antefatti, raccontatici da un montaggio che segue il punto di vista dei vari personaggi. Prima Jean de Carrouges, poi Jacques Le Gris, infine la prospettiva di Marguerite. Scott cerca di costruire e incastrare progressivamente le tre prospettive, costruendo tassello per tassello la completa storia finale, mente noi, come spettatori, diventiamo così gli unici depositari della tragica realtà nel suo complesso. È attraverso il montaggio ardito e questo gioco di specchi e prospettive che The Last Duel assume il fascino quasi di una tragedia shakespeariana e Scott riconferma di nuovo di essere uno straordinario narratore per immagini.

L’ardita struttura narrativa a puzzle riesce a tenere desta l’attenzione dall’inizio alla fine. Gli attori danno voce e volto a personaggi sfaccettati, tragici in quanto imprigionati in ossessioni che ne castrano ogni sentimento. L’azione, quando infine emerge, deflagra con tutto il suo realismo e violenza, andando a costruire sulla scena straordinari quadri medioevali in movimento. The Last Duel è uno spettacolo affascinante e raffinato, sontuoso quanto brutale, in grado di porsi come un’opera senza tempo. Un nuovo grande regalo di Ridley Scott per i suoi numerosissimi fans e un’opera che ancora una volta dimostra l’infinita bellezza del cinema. 

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