giovedì 23 novembre 2017

Andarevia di Claudio Di Biagio: La nostra recensione





Trama: cinque pazienti di lungo corso di uno psicologo vengono da questo invitati a una particolare terapia di gruppo, a bordo della barca "Andarevia". Marco (Matteo Quinzi) ha trent'anni e soffre di attacchi d'ira improvvisi,  Eva (Sara Lazzaro) una ragazzina che soffre di amnesie, Stefania (Patrizia Volpe) una donna affetta da rupofobia, Valerio (Alessandro Calabrese) è un ragazzo con delle turbe psichiche e infine c'è Pablo (Andrea Vergoni), un anziano che non parla più da diverso tempo. Ad aiutare lo psicologo c'è uno skipper. Non si fa in tempo a partire per il largo che subito arrivano i problemi. Le due "guide" vengono in qualche modo "eliminate" da una combinazione di caso/mistero/rimosso che viene subito accettato senza troppi patemi dal resto dell'equipaggio. Insomma, non se ne parla e punto. Quindi i cinque sono in grado di "liberarsi dai vincoli del mondo per dedicarsi a se stessi", come appunto gli aveva suggerito il loro psicologo... probabilmente ucciso da uno o più di loro, ma appunto non se ne parla. Così complice il bellissimo mare della Sardegna (regione che ha pure investito soldi in questo progetto) i nostri cinque personaggi in cerca di guarigione iniziano a guardarsi intorno e vedere che in fondo qualcosa sanno fare, possono magari pure pensare di affrontare qualcuno dei loro demoni personali. La barca andrà alla deriva come in un horror di serie b o qualcuno di loro prenderà in mano il timone?



Un regista da prendere a sberle: Claudio di Biagio, regista della web serie "Freaks!", con fondi Rai (leggi: "nostri") e fondi regionali (ri-leggi: "nostri") mette insieme questo suo progetto sul "disagio mentale". Siccome è giovane e anche figo, lui non ama i lieto fine, non apprezza la scrittura canonica di una sceneggiatura, non è incline a offrire spiegazioni anche solo visive agli spettatori circa quello che sta succedendo. Ammaliato dalla possibilità di esprimere al meglio con una pellicola l'incomunicabilità e solitudine del "disagio mentale", ci getta tutti in una nebulosa linea narrativa dominata dal caos, credendo nella possibilità che le patologie mentali si svelino come dei bubboni sulla pelle e inizino a relazionarsi tra loro creando delle sequenze e magari delle soluzioni meta/ narrative. Una bella "terapia d'urto" per i nostri cinque eroi di cui sopra che dimostri magari pure, per critica sociale, come i percorsi di guarigione spesso siano inefficaci e gli operatori preposti dei simpatici e pericolosi incapaci. Wow. Questa è ambizione e non è sbagliato essere ambiziosi con il cinema, perché è un mezzo prende. Di Biagio peraltro si avvale di buone capacità tecniche e riesce a gestire bene la "nebbia emotiva" che anarchicamente muove la pellicola. Il film è potente, tra l'horror e il drammatico, è claustrofobico nonostante si svolga tutto in luoghi aperti, ti dà una voglia matta di sapere quello che succede dopo. Sono che non c'è un vero "dopo". Perché il nostro regista - eroe si è dimenticato di sviluppare i personaggi al pari delle loro patologie, al punto che questi si muovono quasi fossero degli zombie. Interessante ma al contempo troppo assurdo e "inumano". Inoltre, siccome Di Biagio è un seguace di Refn e dei "criptici" in genere, a un certo punto la pellicola finisce e... e basta. Di Biagio non fa una "restituzione" (in senso diagnostico... certo lui è chiaro che aborrisce una cosa del genere ) né tanto meno una chiusa narrativa di qualsiasi tipo, perché per lui è roba da sfigati. I personaggi non evolvono, il mondo se ne frega, questo è cinema - verità. E invece no, questo non lo è proprio. Questo prodotto è solo un arrogante agglomerato di pensierini di terza elementare che non vanno da nessuna parte. È una bozza pretenziosa e presuntuosa che non fa minimamente giustizia delle persone e dei disagi che vorrebbe raccontare. Non si può parlare di malati riducendoli unicamente alla loro malattia perché è il più capitale dei peccati, è una oggettificazione. Certo c'è del coraggio alla base di questo "Andarevia", la voglia potente di rompere gli schemi e la capacità di far arrabbiare il pubblico, di farlo reagire emotivamente. Nel suo rozzo incedere di continue omissioni narrative e di personaggi che si perdono nel percorso e nella logica c'è autentica e titanica potenza espressiva. Questo film sa provocare reazioni e le relazioni non sono merce di poco conto. E quindi alla fine non posso che fare un plauso a questo prodotto così imperfetto e così curioso nella forma. Pur nella completa, totale antipatia che questa pellicola mi suscita, riconosco che è una più che interessante opera prima. 
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