mercoledì 1 giugno 2016

The hateful height (ma si scriverà così? Tutte queste "t" e "h" mi mandano ai pazzi... Ma non manca poi una "l"?... Vabbeh): la nostra recensione! Ovvero "Se c'è del giallo nella neve, è meglio non mangiarla" (Will Ferrell cit.) - da oggi in dvd e blu ray disc!!



Wyoming (Sicuri non ci vada anche qui quache "h"? Sicuri sicuri? Vabbeh, vado avanti.) post guerra civile, quella vera, non la Marvel. Tempo da lupi. Una maxi tormenta ricopre ogni cosa con molta più neve di quella che la buonanima di Vincent Vega potrebbe spararsi in sei vite. Una carrozza ultra-cool appena lucidata e guidata da un cocchiere trasandato, ma con occhialini hipster e cappello steampunk, incede alla cieca tra vento, stradine montagno-fangose che vanno su e giù e visibilità zero, finché si imbatte in Samuel L. Jackson. Sempre cazzutissimo, sempre vestito in modo fighissimo, seduto in mezzo alla strada su una pila di cadaveri congelati e messi uno sopra l'altro come i merluzzi findus. Li ha "pescati" lui, col piombo rovente delle sue pistole scintillanti, sono "roba di lavoro". Sam è un ex pezzo grosso dell'esercito, ora molto attivo pezzo grosso tra i cacciatori di taglie, e ha appena  fatto incetta di brutti ceffi. Il suo cavallo però è disgraziatamente morto, lasciandolo a piedi in mezzo al niente, con il problema concreto di come intascare le taglie e secondariamente sopravvivere alla tormenta di neve.  Di abbandonare le taglie non se ne parla, ovviamente. Un passaggio da quella carrozza con il cocchiere hipster gli farebbe comodo, magari pagherebbe pure bene per il disturbo, si potrebbe anche dividere la taglia in modo abbastanza ragionevole. Il cocchiere Hipster non ha obiezioni, ma vuole prima essere autorizzato dal passeggero pagante che trasporta, niente meno che Kurt - Jena Plissken - Russell. Anche lui cacciatore di taglie, anche lui ugualmente leggendario, anche lui affaccendato con una consegna, ma viva. Una specie di strega indemoniata, isterica e orribile, dritta impacchettata per il patibolo. La città, Red Rock, è la meta di entrambi i cacciatori di taglie ed è lontana. Un po' di compagnia non dispiace e i merluzzi sotto la neve, legati sul tetto della carrozza, si conservano meglio che nel freezer. Una storiella tira l'altra e i due bounty hunter scoprono di conoscersi, di aver addirittura condiviso insieme una bistecca a Chattanuga, quindi il viaggio sarà più dolce, non fosse per la strega urlante che si portano dietro. Non aggiungo altro perché da quando questi tizi si incontrano e Sam e le sue colt salgono sulla diligenza passano già quaranta minuti... vi riduco la presentazione del film all'essenziale. 


Come saprete dal trailer, che avrete già visto duecento volte, otto tizi (virgola qualcosa) si ritroveranno in una locanda a metà strada sulla via per la città, con un muro di vento e neve che non fa andare oltre nessuno. Staranno lì, ad aspettare che passi il tempaccio. Ma qualcuno tra gli otto non è chi dice di essere. Qualcosa di brutto sta per succedere. Come succedeva ne La Cosa di Carpenter, citata da Tarantino nell'ambientazione e nelle dinamiche di relazione e auto-citata dallo score di Morricone, con brani che (dicono) il maestro abbia ripreso e rielaborato per sonorità da quella sua indimenticabile colonna sonora. Questo film è un bel mix  tarantiniano. Il classico tarantino burger da gustare con frullato da cinque dollari (o se siete in serata con un bel cocktail Cadillac Kabo Wabo Margarita) con una busta di tabacco Red Apple servita come sorpresa nell'happy meal (e ovviamente non parliamo di Mc Donalds ma si Big Kahuna burger). Una pietanza di carne unica. Riconoscibile, gustosa, con la salsa speciale piccante (stand-off) messicana, cotta rigorosamente "grondante sangue". Un piatto da paninoteca cinematografica che vale come dieci da ristorante, il film di genere che si veste da film d'autore. La ricetta è quella consueta, quella "della casa". Anche questo film è un thriller, anche qui c'è uno spruzzo di giallo da risolvere e qualcuno che fa finta di essere chi non è, anche qui c'è una situazione che si prolunga tirandosi come una corda di violino, fino allo sfinimento, fino a che si spezzerà in modo liberatorio, quando cederanno i nervi a tutti e canteranno pistole e coltelli. Anche qui si avverte un senso forte di claustrofobia e si viene travolti da un fiume di parole incessante e inarrestabile, anche qui si riconosce la nota malinconica propria dello yakuza movie, che  negli anni ha sempre più avvicinato la sensibilità di Tarantino a quella di Kitano. Tornano i  tipacci anti-non-eroi, declinati e digeriti dalla affettuosa grammatica tarantiniana a "uomini comuni", bastardi sì ma col cuore, col codice morale, che un secondo prima sfogano la loro natura bestiale, da "iene" pronte a uccidere, ma un secondo dopo ci fanno empatizzare con loro, raccontandoci intimità e amabili difetti, al punto che ci diventano quasi familiari, se non amici, se non addirittura, in un breve istante, migliori di noi, cavalieri senza macchia, eroi pronti quasi a sacrificarsi per cose assurde ma "grandi" come onore e amore. I "soliti" amabili psicopatici dal cuore d'oro che si muovono come sempre immersi nel sangue, qui con una nota emoglobinica extra-strong, addirittura mistica, che rimanda per magia nelle scene più riuscite alla migliore rappresentazione dell'horror splatter, se non proprio a diavoli e streghe. Perché c'è al centro della scena, più sporca di sangue di tutti e quindi per regola matematica più pericolosa, proprio una donna. 


Jennifer Jason Leigh, struccata e spettinata, ridotta a informe sacco da pugni sgualcito da un fin troppo crudele Kurt Russell, spiritata, spaventosa e repellente, ma forse in fondo innocente-vittima, almeno ai nostri occhi di spettatori esterni,  come la versione adulta della Linda Blair de L'esorcista e della povera Sissy Spacek di Carrie lo sguardo di Satana. 

SPOILER 

Come il contenuto della valigetta di Marcellus Wallace, noi non sapremo mai cosa abbia fatto per meritarsi il cappio e tanta violenza e riusciamo al contempo a capire l'amore per lei del suo gruppo, qualcosa che non si può offrire in modo così totale per quello che dovrebbe essere un mostro. Ma anche se fosse un mostro, ora che è catturata, può giustificarsi tutta la violenza che subisce, come essere umano? Tarantino non ci dà una risposta (o forse ce la dà senza dircelo, tra le righe) come  del resto spesso noi non proviamo pietà per un assassino sbattuto in prima pagina. Sappiamo che deve essere punito e basta. 

FINE SPOILER 

La presenza "diabolica" della Leight va a nozze con la vena horror-splatter tarantiniana, la suggestiona ed espande, la rende più gustosa e attesa, per il deflagrante finale, anche perché arrivarci  è lunga ed è tutto un crescendo seduttivo tra noi è la pellicola. 
La storia parte lenta-lentissima, puro western dagli spazi immensi, con una apertura che è tutto un paesaggio fordiano fotografato in modo splendido e crepuscolare. Nella seconda parte si avverte "il mostro che sta arrivando", strisciante come nel miglior Carpenter. Il ritmo cambia. E' Tarantino stesso a dircelo con la voce fuori campo, in un momento di puro genio meta-cinematografico. Siamo passati dal giallo al thriller, a 10 piccoli indiani e ci siamo distratti nel mente. Qualcosa è successo sulla scena, sullo sfondo, noi non ce ne siamo accorti ed è il regista a farcelo notare. Tarantino "piega la trama a suo volere", cambia le dinamiche dei personaggi, ci "mente" sulle nostre percezioni e lo farà almeno due volte, prendendosi amabilmente gioco della nostra tardiva esigenza di diventare piccoli detective per sbrogliare enigmisticamente, decifrare una scena vista di sfuggita. Poi arriva liberatoria la terza parte del film, che inizia con un bel twist e accelera come sulla rampa di un Rollercoaster che ora all'apice emozionale prende la prima discesa a rotta di collo. Una folle e godibilmente insensata corsa che accompagna, esalta e sorprende lo spettatore fino alla fine della pellicola. Una corsa esagerata che spaventa, fa ridere, fa incazzare e fa riflettere pure, per un istante dell'epilogo, in modo cinico e grottesco, sul senso della vita. 


Certo che per salire sulla giostra bisogna aspettare una coda-attesa infinita, ma in fondo è una coda che si fa a "Disneyland", non in coda alle poste. Il modello di riferimento dichiarato è Le Iene, ma idealmente immaginate di più la scena della taverna di Inglorious Basterds, solo espansa della durata di tre ore, con un'ora intera, una cacchio di ora dannatamente intera, dedicata alla "mattanza" più assurda immaginabile. Quell'ultima ora se amate il cinema più sanguigno e turbolento è da prendere e incorniciare come uno dei momenti più Fighi degli ultimi dieci anni. Il top del tamarro, del gratuito, dell'insensato, del sadico, dell'auto ironico, del cool. Una dannata bomba audio visiva da diecimila chilotoni. Insomma, la situazione tipo per cui quando incontrerò Tarantino non potrò esimermi dall'offrirgli almeno una camionata di birra dopo averlo abbracciato come il fratello che non ho mai avuto. Wow. Quindi funziona tutto alla perfezione in questa giostra? Mica troppo. Tagliamo la testa al toro subito sul "comparto tecnico". I 70 mm sono una strana, curiosa anomalia feticistica ma anche uno sballo, perché aumentano l'immersività dello spettatore sulla scena e fanno risaltare i dettagli della certosina scenografia e dei sontuosi costumi. Che ci sia una sedia in un punto della sala o un candelabro sul tavolo, un'insegna o una brocca sul fuoco, tutto è pianificato, ci si imprime nella retina e ci tornerà alla memoria più avanti. La rappresentazione scenica è perfettamente funzionale alla trama. La musica è da horror più che da western e funziona davvero bene, diventando ancillare quando serve e prendendo alla bisogna il polso della situazione. I costumi sono fantastici, Morricone è gigantesco e infatti ha vinto l'oscar, le scenografie sono da urlo, gli effetti visivi sono assurdi, grottesci e "viscosi", analogicamente amabili. Visivamente e all'ascolto il film è impeccabile. Gli attori, chiamati a uno sforzo non da poco, cercano di esprimersi al meglio e ci riescono per lo più. La Leigh è la dea che mi ricordavo dai tempi di Inserzione pericolosa (e incidentalmente assomigliava lì a una mia grossa cotta adolescenziale). Riesce incredibile pensare a come il personaggio che interpreta non fosse scritto per lei, che fosse in realtà un uomo, un ciccione attempato e arrogante stile John Goodman o Boss Hogg di Hazzard. La Leigh domina la scena, è l'unica donna ed è "potente" come la Furiosa di Charlize Theron. Rabbiosa e indistruttibile come una strega di Raimi, Patricia Tallman ne L'armata delle tenebre. Dietro la scorza di creatura satanica nasconde qualcosa di più e mi fa quasi male la determinazione assoluta che hanno nel farla fuori. Oltre alla Leigh mi sono piaciuti molto Russell e Jackson, Goggins e Bichir. 


Russell si muove come un gigante arrabbiato, imponente e maestoso. In un attimo è in grado di sparare lampi dagli occhi e uccidere chiunque a mani nude. Ma subito dopo riesce ad assumere i tratti di un bambinone ingenuo, un puro di cuore che crede nell'onore e nella bandiera. Jackson è puro "zen", potrebbe morire in qualsiasi momento senza avere nemmeno un rimpianto e per questo sta sempre al limite. Sembra troppo duro e troppo crudele, ma anche lui nasconde qualcosa di più nel suo atteggiamento. E Samuel Jackson (opinione personale, del resto come tutte qui espresse) in ogni parte che fa non riesce che a essere troppo cool. Granitico. Goggins interpreta al quadrato il suo Shane di The Shield. Tarantino è qui più clemente con lui di quanto lo sia stato in Django, perché è un attore che veste a pennello i suoi personaggi. Il suo "sceriffo" è un amabile e incoerente "fesso", uno sbruffone innocuo, odioso solo a parole, che spara come una mitraglia. Goggins ha una vera faccia da canaglia e dona molta umanità al personaggio. Gli altri personaggi non funzionano altrettanto bene. Troppo bolso Dern, troppo addormentato Madsen, troppo inconsistente e incoerente Roth (ed è un peccato quasi mortale), chissà perché relegato a imitatore di Christop Waltz quasi come un sagomato di cartone. La regia, pur nella "scelta di discontinuità" di cambiare genere a ogni capitolo, in pieno stile Kill Bill, è la consueta, lenta (ma in accelerazione costante) e appagante cifra stilistica di Tarantino. Il regista gioca con i generi, dilata i tempi a suo piacere, cita e omaggia a spron battuto, firma con la sicurezza propria dei grandi ogni singola inquadratura. Quello che per me funziona di meno è purtroppo la sceneggiatura, nello specifico la scelta, ripresa da Le Iene, di utilizzare un registro narrativo di impostazione eccessivamente teatrale. ,"Ma anche questo è un marchio tatantiniano!", sento già dire qualcuno. Ed è vero, solo che guardando Le iene avevamo più occasioni di "uscire dallo scantinato" e "correre all'aperto a giocare", a guardie e ladri. Ogni personaggio aveva un suo bel flashback, anche se velocissimo, che descriveva cosa era successo durante l'infausta rapina e andava a sparigliare la finta staticità di una scena che faceva ribollire gli animi più che in una pentola a pressione. Un contrappunto alla narrazione perfettamente ritmato nello svolgersi narrativo. In Hateful 8 salvo uno specifico punto, questa magia manca. Non supportati da "immagini" che ci portino per un istante in luoghi "diversi", fissi nella splendida messa in scena teatrale, i personaggi si raccontano solo a parole. In un numero infinito di parole. Sarebbe stato davvero bello vedere dei flashback sui personaggi di Samuel Jackson e Kurt Russell ma Tarantino sceglie consciamente di non farlo e la prima parte della pellicola ci soffoca di parole. E' tutto un: "Ma tu sei il grande Tizio, quello che bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla!!" a cui segue: "Sono io, lo giuro! E se non mi sbaglio tu sei Caio, quello che bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla!!". Poi entra in scena Sempronio e dice: "Tizio, ma tu lo conosci davvero bene Caio? Tu lo sai che lui bla bla bla bla bla bla bak bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla!". E Tizio: "Ma dai! Non è possibile! Tu menti e sei uno sfigato, ti conosco di fama perché conosco la storia della tua famiglia e si sa per certo che bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla!". Poi entrano nella baita, i nostri anti eroi vedono un altro tizio seduto e ovviamente qualcuno lo riconosce e vai di dieci minuti di dialogo. Insomma, nel Waihoming (o come cavolo si scrive)  tutti conoscono tutti e hanno almeno dieci minuti buoni per confrontarsi le informazioni. Certo, è il trionfo della semplice parola sulle immagini, la dimostrazione che Tarantino conserva il superpotere di farci amare i suoi personaggi anche per le storie che raccontano. Tra storie di massaggi ai piedi fatti alla donna sbagliata e leggende metropolitane di squadroni della morte americani che fanno scalpi di soldati nazisti. Personaggi che prendono forma quasi più per quello che ci viene detto di loro che quanto ci viene mostrato in scena. E ci può stare, il parlare a raffica dei personaggi tarantinati, anche in un "western non western" come questo. Perché probabilmente nel farwest, lontano dalle balere, ci si faceva due palle così e per ammazzare il tempo erano tutti delle mezze comari di paese che si informavano sui cacchi degli altri. Ma a fronte di questo sapere enciclopedico "della qualunque", noto anche all'ultimo uomo della strada con particolari che saprebbe solo Alfonso Signorini, in questo caso ci sono delle magagne. Nella specie, come è possibile che si verifichino almeno due situazioni che contraddicono questa regola del "tutti sanno tutto", se non davvero il buonsenso in genere? 


SPOILER 

Perché lo sceriffo di Goggins, che è (all'apparenza) un compiaciuto razzista, che conosce e sa che Samuel Jackson è un ammazzarazzisti (così spettacolare da aver dato fuoco, secondo un racconto riportato dallo stesso sceriffo, a una quarantina di razzisti suoi commilitoni!!!!) e che è pure fan del mega generale ultra razzista interpretato da Dern (non lo chiama "papà" ma ci manca poco) non fa niente di niente quando Samuel Jackson, platealmente e lungamente, provoca l'ufficiale suddetto fino a spingerlo a duellare con lui? E ammettendo che lo sceriffo non sia un fulmine, non sia in fondo così razzista e forse è solo un bonaccione, possibile che lo stracazzuto cacciatore di taglie Samuel Jackson, in una società in cui le informazioni viaggiano più veloci di Twitter, sveli al primo sconosciuto il segreto della sua particolare "lettera di referenze", quella che gli ha permesso di vivere fino ad allora in un mondo che non ama ancora troppo la gente di colore? Ed è possibile che sempre lo stesso Jackson (che fa qui il "detective", cacchio!!!) non si ricordi, forse per una improvvisa carenza di fosforo, di persone che già dovrebbe conoscere per volto, nome, soprannome e gusti di vestiario (anche perché "con taglia")? Persone che ha davanti per ore e ore, verso le quali nutre pure parecchi sospetti e che solo infine riconosce, in un improvviso ritorno di fosforo, quasi al punto da ricordare il numero di scarpe che portano e piatto preferito? Ma come diavolo è possibile???


FINE SPOILER

Certo poi si arriva alla terza parte e tra sangue, splatter e colpi fortuiti diventa tutto un orgiastico hellzapoppin. Un po' ci scordiamo di queste "manipolazioni logiche - registiche da gran burattinaio meta-testuale" (come direbbero i Tarantiniani duri e puri) se non proprio "svarioni del cacchio" (come direbbero tutti gli altri). Ma queste incongruenze, volute o meno, permangono e buttano (forse) un'ombra sinistra sulla credibilità dei personaggi se non proprio sulla loro caratterizzazione. 

SPOILER

Allora ci accorgiamo che la questione della fantomatica lettera di Samuel Jackson "giocata male" serve, malamente, per prendersi gioco dell'animo un po' da boy-scout del comunque bastardissimo Kurt Russell. Aspetto che affettuosamente nobilita il suo personaggio. Pur di schernirlo - elevarlo - farcelo amare, Tarantino accetta che Jackson distrugga la sua carta "migliore", la lettera di Lincoln, sprecata nell'ottica meta-cinematografica che "questa non è davvero la vita ma un film, stiamo tutti giocando e il personaggio di Jackson non vivrà oltre i minuti della pellicola, la lettera non gli servirà più". Ugualmente lo sceriffo, che dovrebbe essere razzista, ma il regista vede come eroe "positivo" di punto in bianco si allea senza problemi con Jackson per un finale inutilmente autodistruttivo, assurdo, grottesco e strampalato, ma anche in qualche modo "moralista", con un suo senso dell'onore (un po' gioiosamente distorto dalla bromance che "Russell aveva dei principi e va così onorato").  

FINE SPOILER

Che fine ha fatto la logica? Per affrontare al meglio una prospettiva così strana, dobbiamo per me immaginare Tarantino come una mamma preoccupata per i suoi bambini, innamorato come è (alla follia) dei personaggi che ha creato, a cui non vuole che capiti niente di male. Tarantino lascia "giocare i suoi bambini", lascia che si dicano tra loro le parolacce e si alzino addosso le mani, che trasmettano appassionatamente le loro emozioni, ma non vuole mai (o quasi mai) che si facciano davvero male prima del tempo. Sa che finiranno quasi tutti male, perché nei suoi film è questo che succede, ma vuole che compiano un percorso, che se ne vadano via tutti almeno con una buona azione, con una riflessione sulla loro vita, con qualcosa di onorevole, positivo se non grandioso. 

SPOILER 

perfino il generale di Dern, che se ne va cercano di "vendicare la memoria per il figlio", perfino Roth e Madsen, che accettano di essere "intascati da morti come taglie", al posto di voi sapete chi 

FINE SPOILER


Con questo obiettivo per lui si può manipolare anche la realtà e la logica, perché la "storia del film" non deve comprimere troppo le "singole storie personali". In genere io apprezzo questa impostazione, la trovo una delle cifre stilistiche più interessanti di Tarantino. Per fare un altro esempio, l'uscita di scena di Christoph Waltz in Django Unchained è qualcosa di totalmente insensato. C'erano mille modi per uscire da quella situazione in modo pulito, ragionare a mente fredda, dopo, se si voleva risolvere diversamente ma con lo stesso risultato finale. Solo che a livello filmico, di puro ritmo narrativo, il modo scelto da Tarantino per quanto il più illogico, era per me il migliore possibile in quel momento, il "messaggio" dietro a quel gesto sconsiderato era giusto e potente e perfetto per realizzarsi in quel modo, senza curarsi delle conseguenze. Per realizzare questa "magia cinematografica" addirittura in Bastardi senza gloria - Inglorious Basterds non si limitava a piegare la "storia del film" alla "storia dei personaggi", ma andava addirittura a cambiare la Storia, quella con la "S" maiuscola, nella più titanica delle rappresentazioni possibili: il cinema che vince sulla Storia. Forse questa "magia" non si realizza così bene per me in Hateful Eight e pure da ultra-fan di Tarantino (sì, io mi schierò incondizionatamente tra i fan) ho avvertito delle forti stonature il questo eccessivo amore dei personaggi. Questa mia lunga e contorta riflessione sulla sceneggiatura significa che alla fine io non ho apprezzato quindi, nel complesso, l'ottavo film di Tarantino? Direi di no. Dovreste in fondo averlo già capito dopo questo incessante fiume in piena di parole. Certo incide e non mi fa elogiare questo come il miglior film in assoluto di Tarantino. Anche il ritmo narrativo, almeno nella prima parte, è per me troppo blando, sia pur volutamente, dilatato. C'è da dire però che è un film che "cresce" ogni volta che si ripensa a lui, diventa sempre più Figo "nella testa" di chi lo vede e ora che è uscito in dvd, se lo avete già amato al cinema, lo vorrete vedere altre settemila volte, per scovare tutti i particolari visivi, i rimandi citazionisti. Rimane un film di Tarantino e solo per questo per me, da fan, superiore di diverse asticelle a gran parte di quello che oggi si vede nelle sale. Anche se forse tra gli otto è per me il meno riuscito o più imperfetto, sullo stesso piano di A Prova di Morte almeno nella sua versione "gonfiata nel minutaggio"). Poi ovviamente questo è un mio gusto personale. Ma avercene, di film "brutti" come questi. Parimenti per i detrattori di Tarantino non è assolutamente il film che gli farà cambiare idea sul regista. 

Quella home video purtroppo non è la Roadshow edition, la versione allungata di un bel po' di minuti destinata a sale in 70 mm. La Roadshow è per volontà del regista rimasta un ricordo prezioso di cui ha potuto goderne nelle poche e fortunate sale selezionate. Ma l'home video, confezionato dalla Leone Film Group e 01 Rai rimane davvero ottimo, di pura classe, con una definizione dell'immagine poderosa. Non tantissimi gli extra, ma questo è in pieno "stile Tarantino", il regista non vuole che ci trastulliamo troppo con roba che non è "il film". Rimane un home video assolutamente imperdibile, per tutti, fan e detrattori. 
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