La storia è nota e riprende molto da vicino le pagine di Stoker, ripercorrendo una visione estetica/simbolica vicina a quella di Francis Ford Coppola e lontana dalle produzioni vampiriche Hammer. L’occhio e il cuore di Besson però vanno altrove e scelgono di rileggere la materia nella chiave estetica e crepuscolare del fumetto europeo: attingendo a piene mani dalle atmosfere satiriche, barocche e sovraccariche delle opere di Jodorowsky e Moebius, ma soprattutto dalla “favola medioevale amara”, Thorgal di Jean Van Hamme (lo stesso autore di Valerian).
Su una scena sfavillante ma polverosa (una “polvere nobile” che ricorda le prime scene del Gattopardo), il mito del vampiro torna “fantasma” del potere aristocratico nel medioevo passato alle prese con l’epoca dei lumi dell’età moderna. Un Dracula autentico iconoclasta (in senso “molto più che figurato”, già dalle prime scene) che mette da parte armature lucenti e abiti polverosi di un potere secolare/morale ormai fuori moda e accoglie qui, come sua nuova casa, una Parigi “rinnovata e illuminata” da una “nuova cattedrale” edificata proprio per l’esposizione internazionale: la torre Eiffel.
Un’opera simbolo di una Parigi moderna, sfavillante e inclusiva, per un Dracula ugualmente moderno.
Un “succhiatore di sangue” per necessità, pragmatico e concreto: uccide di mala voglia per questioni di sopravvivenza genetica e senza particolari vanti. Una creatura che predilige nella caccia usare le arti di seduzione e consenso (come un profumo che porta all’euforia dionisiaca/cannibale, che pare uscire da un romanzo di Suskind) più che sguainare denti aguzzi. Un uomo che sa mettersi in gioco sul piano emotivo, che con lucidità vuole indagare su se stesso e sul significato più profondo della sua esistenza/condanna di non morto. Un Dracula che combatte Van Helsing (Christoph Waltz) non con le trasformazioni e canini sguaiati ma impostando un dialogo intellettuale, quasi psicanalitico, sul senso della fede e sul valore delle relazioni umane. E in questa pellicola Van Helsing non è più “solo” il classico “uomo di scienza”, ma anche un “sacerdote” che si affaccia al pensiero freudiano.
Dracula ammette di essere stato un giovane “sanguinario per motivi di stato”, è consapevole della sua forza ancora devastante, ma ora agisce quasi solo per difesa. È pure un ottimo datore di lavoro per gli inservienti del castello tra i Carpazi e quasi una sorta di “padre” (aspetto originale e molto interessante) per un piccolo esercito personale di buffi bambini sperduti / gargoyles che sembrano usciti dall’Isola che non c’è.
È un Dracula che ha a cuore i “freak” e gli emarginati, che teme solo l’ipocrisia. Soprattutto, a differenza del Nosferatu di Murnau e poi di Eggers, è un “principe delle tenebre” che non fugge come Kriptonite dall’amore. Un innamorato che esprime nel senso più moderno, quasi “femminista”, un sentimento sincero e non possessivo per la sua eterna compagna (Zoe Bleu): comprendendone intimamente paure e dubbi, riconoscendone sempre il punto di vista, lasciando libertà e autonoma sottraendosi da qualsiasi vecchia manipolazione narcisistico/vampirica.
Un Jones, già protagonista per Besson nel bellissimo Dogman, che ormai è diventato per il regista francese la sua “massima ispirazione”, come lo fu per Kevin Smith il compianto Michael Parks (Red State, Tusk). Besson cuce tutto Dracula intorno al talento di Jones e lui sa ripagarlo indossando il ruolo con enorme disinvoltura, esprimendo in modo teatralmente grandioso quanto umanamente sincero la complessità d’animo e la fisicità, affascinanti e al contempo distorte, di un Dracula che ancora non avevamo incontrato.
Il film diventa subito per Jones un “one-Man show” come lo era stato Dogman, con lui che da autentico vampiro sa divorare letteralmente ogni scena: ammaliando e commuovendo.
A parte un serafico Christoph Waltz che a tratti sembra un disilluso Django di Franco Nero e a tratti sfoggia un sorriso da Terrence Hill, gli altri uomini sulla scena sono quasi macchiette, a partire da un Jonathan Harker con l’aria buffa da venditore di pentole che gli dona l’attore Ewens Adib: forse felicemente vicino al modello del Fracchia contro Dracula. Sul lato femminile della pellicola la Elizabeth/Mina di Zoe Bleu “convince”, ma è soprattutto la vampira Maria de Montebello della nostra brava Matilde De Angelis a “conquistare la scena”. Una De Angelis che fissa voluttuosa chiunque come un gatto sornione, mentre sorride e gioca con i suoi canini da vampira in modo sensuale, facendoci ballare intorno la lingua come fossero pali da lap dance. Un puro concentrato di passione, solare e autoironica. Una donna dall’animo indipendente e sarcastico: tutto fuorché ripercorrere il ruolo della “vittima designata” già vista in troppi adattamenti di Dracula.
Suo lato dello spettacolo Besson guarda invece molto al cinema per ragazzi del passato.
L’azione è sempre concitata, ma mai centrale o troppo sanguigna. Il passo narrativo e visivo scelgono di cavalcare il romanticismo, proprio citando i fumetti europei, ma anche il fantasy anni ‘80 di pellicole come Legend, Lady Hawk (e se vogliamo Fantaghirò). Le scene di cappa e spada con protagonista l’armatura del giovane Dracula Dragone appaiono invece lucenti e scintillanti come quelle dell’Excalibur di Boorman.
C’è una colonna sonora firmata da Danny Elfman potente, gioiosamente pomposa e altisonante, come quella che il compositore aveva confezionato per L’armata delle tenebre di Raimi.
C’è l’horror, lo splatter, ma solo nelle parti ineludibili dal racconto originale. Come solo in parte alla fine si confermano similitudini e simmetrie visive e narrative con il Dracula di Coppola.
È un Dracula decisamente diverso dal solito, che può anche per questo lasciare parte del pubblico spiazzato, ma che sentiamo di amare anche al di là dei suoi difetti. Difetti come un ritmo a tratti blando, scenografie a volte fin troppo “polverose”, personaggi a tratti poco a fuoco come il gruppetto degli “Ammazzavampiri” e un conflitto finale, quasi dalle parti della fotografia fredda del Dottor Zivago, che funziona forse di più sul piano simbolico che su quello dello “spettacolo”.
Ma quando il Dracula di Caleb Jones fissa la camera e per questo tramite arriva ai nostri occhi, sa davvero ipnotizzarci.
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