martedì 21 ottobre 2025

Black Phone 2: la nostra recensione del nuovo capitolo della saga horror di Scott Derrickson, con protagonisti Mason Thames, Madeleine McGraw e Ethan Hawke, basato su un racconto di Joe Hill

Premessa 

C’era una volta un rapitore di bambini che la stampa locale aveva soprannominato “il Rapace” (in originale “The Grabber”, impersonato da Ethan Hawk). Operava in una America dei primi anni '70, depressa e carica dei fantasmi del Vietnam, dalle parti di una piccola e sonnacchiosa Denver di periferia, dove da poco era arrivato nelle sale Non aprite quella porta

Il Rapace aveva già fatto scomparire alcuni ragazzini i cui volti ormai capeggiavano in bianco e nero ovunque, dai manifesti ai bordi delle strade ai cartoni del latte, oppure sulle prime pagine dei giornali locali consegnati a domicilio la mattina presto da un ragazzino in bici. 

Mentre la polizia brancolava ancora nel buio, la piccola Gwen (Madeleine McGraw) giurava di vedere il Rapace nei suoi sogni, aiutata dalle preghiere. Una facoltà ereditata dalla madre, che forse stava rovinando anche la sua vita, ma che la polizia locale riteneva molto utile per le sue indagini. Gwen nelle visioni vedeva il Rapace vestito di nero, con un mantello e un cilindro da prestigiatore, il volto coperto di bianco da una maschera strana o dal cerone. Lo sognava portare i ragazzini in un luogo oscuro pieno di palloncini neri e gas anestetico. Da lì non tornavano più. Aveva già riconosciuto tra le sue prede anche dei compagni di scuola del suo timido e introverso fratello Finney (Mason Thames). Uno di loro era Robin (Miguel Mora), il suo migliore amico. Non avrebbe mai immaginato che presto proprio Finney, che lei ogni giorno difendeva dai bulli come una leonessa, si sarebbe trovato da solo, nelle mani di quel mostro, rinchiuso in uno scantinato spoglio di cemento, insonorizzato. Con solo un materasso logoro per giaciglio e un piccolo finestrino sbarrato per far entrare la luce del giorno. La porta blindata sarebbe stata sempre aperta, ma come “trappola”: solo perché al piano di sopra il Rapace restava in attesa che il ragazzo tentasse la fuga, facesse il “bambino cattivo”. Solo così, secondo le sue “regole”, avrebbe potuto punirlo fino a ucciderlo. Come gli altri. Ma Finney era davvero un “bambino troppo bravo”, forse nemmeno in grado di tentare di scappare. Essere stato per tutta la vita “una vittima”, dei bulli e di recente di un padre violento e perennemente ubriaco (Jeremy Davies), poteva forse ironicamente allungare la sua sopravvivenza in quel buco. Certo non all’infinito. 

Ma proprio al fianco del materasso di Finney, c’era un telefono nero. A muro, con cavo arricciato estendibile, trillo metallico, “vintage”: un cimelio rimasto forse dimenticato dalla precedente proprietà, ma prontamente silenziato dal Rapace con un netto taglio del cavo. Mutato per sempre, come chi entrava in quel sottoscala. Tuttavia ogni tanto, forse per uno scherzo dell’elettromagnetismo, paranoia o per colpa di terribili poteri ereditati dalla madre, quel telefono Finney lo sentiva suonare. All’altro lato della cornetta, le voci ovattate delle precedenti vittime del Rapace. Sussurrate o urlate, spesso confuse, arrabbiate come si conviene alle voci dei fantasmi. Ma più spesso intenzionate a spronare il ragazzino a non fare la loro fine, fuggire da quella cantina. Pronte a  suggerirgli vie di fuga, strategie e fallimenti che loro stessi avevano tentato. Come a poche miglia di distanza Gwen stava suggerendo alla polizia nuovi posti in cui cercare il fratello, guidata dai sogni e forse dalla fede. 

Ma tutto questo non sarebbe bastato, se  Finney non fosse riuscito ad affrontare quel demone seduto al piano di sopra. Rinunciando all’etichetta di “vittima”, che la società gli aveva cucito addosso e lui troppo spesso aveva indossato. 


Sinossi

Finney (Mason Thames) ha affrontato il Rapace e vinto, ma la terribile esperienza lo ha segnato. Siamo nel 1982, vanno di moda i Duran Duran e presto saranno a Denver con i biglietti già esauriti. Sono passati quattro anni e il ragazzino timido che doveva costantemente essere difeso dai bulli si è trasformato in uno che li picchia per primo, una specie di giustiziere, stimato ma più spesso temuto. Una trasformazione che Robin, che sempre lo spronava a reagire, avrebbe comunque apprezzato. Ma Finney non ha più voluto avere niente a che fare con il paranormale. Quando si trova davanti a strani telefoni che squillano tira dritto o risponde “avete sbagliato persona”. Sua sorella Gwen (Madeleine McGraw) crescendo non è più un “maschiaccio”, si è ingentilita e ha forse trovato il ragazzo ideale: il fratello di Robin e amante dei Duran Duran, Ernesto (Miguel Mora in questo film torna interpretando Ernesto, dal carattere opposto rispetto a Robin). Continua però ad avere strani sogni, durante i quali ha iniziato a spostarsi anche molto lontano da casa, in stato di trance. Durante l’ultimo sogno si è spinta fino allo scantinato che era del Rapace, attirata dal trillo del telefono nero. Aveva sollevato la cornetta e parlato con Hope, sua madre, scomparsa in circostanze tragiche 7 anni prima. Solo che la voce al telefono era più giovane di come la ricordava. Era la voce di una ragazzina che chiamava sotto la neve da un telefono pubblico nero del 1957, davanti a un lago ghiacciato, a pochi metri da un campo invernale per ragazzini cattolici tra le Montagne Rocciose. Per trovare risposte e forse un lavoro temporaneo, Gwen, Finney ed Ernesto faranno domanda come educatori per quella colonia invernale.

Dopo un lungo viaggio tra le zone più impervie e isolate del Colorado, tra fitti boschi e tornanti di montagna stile Shining, arriveranno in una struttura ancora deserta, in allestimento, sorvegliata solo da alcuni guardiani e riscaldata da piccoli vecchi generatori elettrici a fianco delle brande di legno. 

Una struttura che davanti al lago ghiacciato ha ancora una cabina telefonica con un telefono nero, ma che i custodi dicono non funzionare più  dai tempi in cui è arrivata la disco music. O almeno non funziona per contattare “chi è ancora vivo”.  

Questa volta sarà Finney a proteggere Gwen, a costo di tornare a rispondere alle chiamate di spettrali telefoni neri. Ma questa volta, dall’altro capo della cornetta, Finney sarà costretto a parlare solo con un fantasma: il Rapace. Un Rapace che ogni volta gli ricorda di come all’inferno non ci siano tizzoni ardenti, lapilli, fuoco. All’inferno si gela e presto porterà Finney a fargli compagnia. 



Sinister e Black Phone : storie di bambini fantasma e adulti assenti 

Nel 2012 usciva per Blumhouse nelle sale Sinister, un film horror scritto e diretto da Scott Derrickson e da C.Robert Cargill, “piccolo ma cattivissimo”, intelligente quanto geniale, che presto sarebbe stato considerato da molti come un cult movie. Nato a Denver in Colorado come i personaggi di Black Phone, Scott Derrickson, classe 1966, dopo gli studi in comunicazione, cinema e teologia aveva esordito alla regia nel 2000, con il piccolo, interessante e un po’ “acerbo” Hellraiser. Si era poi fatto notare dalla critica nel 2005 per il bellissimo, misurato e sfaccettato  horror a sfondo religioso (forse ispirato dai suoi studi teologici) L’esorcismo di Emily Rose, scritto come Hellraiser 5 insieme a Paul Harris Boardman, con cui avrebbe realizzato in seguito un altro ottimo film sugli esorcismi, Liberaci dal Male, nel 2014. Nel 2008, con un enorme apparato produttivo alle spalle (che forse lo ha un po’ condizionato…), portava nelle sale un remake un po’ sbiadito, ma pieno di spunti visivi e narrativi interessanti:  Ultimatum alla terra con protagonista Keanu Reeves. 

Nasceva invece a Austin California C.Robert Cargill, classe 1975, che come figlio di militari aveva passato gran parte della sua infanzia spostandosi continuamente, di base in base e di scuola in scuola. Da adulto era stato commesso viaggiatore finché trovò impiego come commesso in un negozio di videocassette, seguì una breve carriera d’attore e poi l’esordito come sceneggiatore, proprio nel 2012 con Sinister

Cargill si racconta che incontrò Derrickson una sera in un bar di Las Vegas, grazie a un amico comune. Si avvicinò al tavolo con coraggio presentando al regista di Emily Rose proprio la bozza di Sinister, che disse essergli stato ispirato dalla visione di The Ring

Si dice che ricevette in pochi minuti l’approvazione del regista e poi telefonicamente pure quella del produttore Jason Blum. 

La sua sceneggiatura era davvero speciale e Derrickson e Cargill fin dai primi scambi in quel bar scoprirono di avere molto in comune: dalla passione per le letture al cinema horror, dalla musica “vintage” a un'adolescenza vissuta nel cuore degli anni '70, per lo più ai margini di “difficili” cittadine di provincia che all’epoca vivevano in un clima di grande tensione, tra Vietnam e crisi economica. Una adolescenza tra bulli, ubriachi, reduci e famiglie distrutte, per molti versi simile a quella di molti giovani protagonisti dei libri di Stephen King come It e Stand by me. Un'adolescenza  che avrebbero voluto approfondire nei loro lavori insieme, proprio a partire da Sinister

Sarebbero tornati a lavorare con lo stesso spirito nel 2015 per Sinister 2, per poi nel 2016 fare qualcosa di completamente opposto (e forse “meno personale”, come nel caso di Ultimatum alla Terra) per il colossal Marvel Doctor Strange, per in seguito ritornare a temi a loro più vicini, “Kinghiani”, nel 2021 per Black Phone e ora nel 2025 per Black Phone 2

Ma restiamo un attimo al 2012 e ai motivi del grande successo del primo Sinister: perché in fondo sono molto simili a quelli del successo del primo Black Phone. 

A fianco di attori esordienti giovani e già bravissimi come Clare Foley e Michael Hall D’addario, protagonista assoluto della vicenda era Ethan Hakwe, che sarebbe stato di nuovo protagonista in Black Phone. Ethan Hakwe aveva esordito giovane e già bravissimo nel fantasy cult per ragazzi Explorer del 1985, per poi prendere parte ad alcune delle più importanti pellicole degli ultimi anni: il drammatico L’attimo fuggente del 1989, il thriller basato su una storia vera Alive nel 1993, la trilogia romantica di Before Sunshine, il fantascientifico Gattaca di Andrew Niccol. Era stato un sex symbol, ma anche un attore generoso ed eclettico, spesso legato a progetti indipendenti a volte molto “arditi” (come Boyhood di Linklater, iniziato nel 2002 e conclusisi nel 2014), che arrivato alla soglia del quarant’anni stava iniziando a flirtare sempre di più con il genere horror (con il “vampirico” Daybreakers) e che un anno dopo Sinister, nel 2013, sempre per Blumhouse, avrebbe inaugurato la grande saga di The Purge dell’esordiente James De Monaco, come primo protagonista. 


In Sinister, Ethan Hawke impersonava un pessimo giornalista di inchiesta e pessimo padre di famiglia, che per scrivere un controverso libro/inchiesta si trasferiva, con la moglie ignara e prole al seguito, in una casa maledetta dove erano avvenuti terribili fatti di sangue. Ossessionato dalle vicende di quel luogo, l’uomo si calava insieme ai suoi cari in una realtà da incubo con al centro una demone per certi versi simile a uno “strano Peter Pan”, con al seguito tanti “bambini perduti” fantasma: arrivati a lui in quanto “delusi” da dei genitori incapaci. Piccoli fantasmi intenzionati e diventare amici dei suoi figli. Bambini fantasma che sarebbero “tornati”, seppur con intenzioni diverse, anche in Black Phone. Come sarebbe tornato in Black Phone il tema-cardine della difficile comunicazione tra genitori e figli. Un argomento probabilmente per Derrickson e Cargill molto importante, che tornerà in seguito, spesso sviluppato con una complessità tale da rendere imprevedibile, ma pur sempre “credibile”,  l’esito di una storia. 

Le influenze da King erano tantissime, il lavoro finale era brillante, originale e soprattutto faceva davvero paura: a partire dalla scelta “ispirata da The Ring” di mettere al centro della narrazione alcune sequenze terrificanti girate in formato super 8, super sgranate, quasi mute, con in sottofondo solo il rumore della pellicola che gira meccanicamente sui rulli di un proiettore. 

Si parlò subito di trilogia, ma il secondo Sinister, ancora più complesso e forse più  filosofico che spaventoso, fallì la prova con il pubblico. Forse fallì anche perché nei suoi confronti Cargill e Derrickson si comportarono per lo più solo come produttori, quasi come i “genitori distratti” che venivano “puniti” in Sinister. Affidarono la regia e quasi tutto il resto all’irlandese Ciaran Foy, in quando occupati sui set di Doctor Strange e Liberaci dal male. Il film che uscì fu sfortunato e “non capito”, ma i temi e i personaggi di Sinister erano ancora molto importanti e “vivi” per i suoi autori; solo in attesa di trovare una “nuova forma”. 

A sei anni di distanza dal 2015 di Sinister 2, Derrickson e Cargill decidevano così di portare in sala personalmente un racconto di Joe Hill, contenuto nell’antologico Ghosts del 2004 e scritto con toni felicemente vicini alla “poetica” del padre di Hill e mito di Derrichson e Cargill: Stephen King. Ne fecero un adattamento così  “personalizzato”, realizzato in solo cinque settimane, che lo avrebbero portato a essere quasi una “variante di Sinister”, forse più matura e “meno cattiva”. Forse con poche modifiche avrebbe pure essere quel Sinister 3 più volte invocato dai fan ma mai realizzato dopo il flop del 2, o quantomeno una “versione speculare del primo Sinister”, in cui ruoli e ambienti risultavano “nell’ecosistema/scena opposti”. A partire scenograficamente da quel setting centrale della “soffitta” di Sinister, che diventava/si trasformava nel “sottoscala” di Black Phone

Erano di nuovo al centro della vicenda dei bambini, interpretati dai bravissimi Mason Thames e Madeleine McGraw, ma non erano certo del “bambini cattivi” o quando meno dei “bambini ribelli”, anche perché lo scenario temporale era diverso, come i “ricordi personali” che gli autori volevano infondere nell’opera erano diversi. Ethan Hawke, che interpretava il “genitore assente” di Sinister, qui assumeva il ruolo di carnefice/demone. Se vogliamo l’immagine distorta di un genitore iperpossessivo, “carceriere” e instabile, che non vedeva l’ora di “punire per sfogarsi”. Un ruolo che sarebbe risultato al pubblico tanto, “troppo simile” a quello del personaggio del padre dei due ragazzini, interpretato dall’ottimo Jeremy Davies, generando un vero e proprio “cortocircuito narrativo”, davvero intrigante quanto amaramente “plausibile”.  Per diventare il Rapace, Hawke si era spinto a cambiare più volte voce e postura del corpo, farsi a tratti muscoloso e a tratti esile, usare una gestualità estrema quanto eclettica, ora teatrale ora contenuta. Doveva essere un mostro tragico. Doveva saper esprimere e condensare in un singolo personaggio, che restava per la maggior parte del tempo con il volto coperto, come il V per Vendetta di Hugo Weaving, almeno cinque personalità e caratteri diversi. Un po’ “stremato”, ma contento di aver rivestito per la prima volta il ruolo di “cattivo”, Hawke diede vita con una performance  semplicemente incredibile al suo personale Freddy Krueger: uno dei suoi personaggi più cattivi, divertiti e iconici degli ultimi anni. 

Un demone che, tornando al “gioco degli specchi” con Sinister, era espressivamente l’esatto opposto del muto, monolitico e giudicante “Peter Pan” di Sinister

Tornava in Black Phone da Sinister, insieme a una messa in scena curata sul piano visivo e sonoro, un montaggio quasi “chirurgico” nel ricercare la massima chiarezza e leggibilità dell’azione e degli spazi. Tornava una rappresentazione della violenza cruda quarto realistica: consapevole dell’impatto visivo ed emotivo del mostrare la sofferenza umana, senza che questa apparisse “gratuita”. Tornavano le scene che spaventavano con un semplice cambio di inquadratura veloce e innalzamento del volume (i cosiddetti “bus”), improvvise “ma necessarie”. Tornavano “specularmente” scene realizzate tecnicamente come immagini di una telecamera da 8mm: che in Sinister venivano usate per riprodurre la bassa qualità di documenti filmati reali, mentre in Black Phone descrivono la percezione visiva durante i sogni. 

Tornava soprattutto una storia con dialoghi dal forte impianto drammaturgico, in grado di valorizzare la bravura degli interpreti, anche attraverso citazioni colte prese dal teatro greco: ne è un esempio la bellissima maschera dalle “parti umorali intercambiabili” del Rapace, realizzata dall’artista Jason Baker, che richiama proprio le maschere di scena del teatro classico. 

Soprattutto, tornavano protagonisti centrali della vicenda bambini fantasma e gli adulti assenti. 

Bambini “fantasma” in quanto defunti, ma pure invisibili a chi dovrebbe prendersene cura, costretti a “parlare da soli” (Gwen) o annullarsi (Finney). Specchio di una infanzia tradita in scuola dove regnava il bullismo, su strade dove da mesi imperversava un maniaco, in case dove c’era ovunque violenza domestica, a meno che il genitore non fosse morto in Vietnam. Nelle interviste, Cargill e Derrickson ricordano da piccoli di aver visto centinaia di foto in bianco e nero di bambini scomparsi nel nulla. 

Gli adulti invece erano “assenti” in quanto troppo concentrati sui rispettivi drammi personali, da quasi non accettare la presenza di una voce (e di un dolore) che non fosse esclusivamente loro. Adulti di conseguenza “assenti per alcol” (il padre), assenti “per indifferenza” (gli insegnanti), “pazzi” (il fratello del Rapace), se non ovviamente “assenti per cause di Stato” (come il padre di Robin partito per il Vietnam senza fare ritorno). 

Bambini fantasma e adulti assenti che convivono/si scontrano, in Sinister come in Black Phone, all’ombra di una rispettiva “entità maligna”, che si fa forse metafora del mondo stesso che stavano vivendo. 

Un’entità che però forse, a opinione dello scrivente, può funzionare in quanto rimane un misterioso deus ex machina, quando in realtà il seguito di un film horror va troppo spesso (e spesso con incoscienza) a indagare proprio sulle origini di un male che deve restare senza nome, in quanto spesso simbolo di qualcosa di diverso da un semplice “personaggio”.

La realtà è che il primo Black Phone funzionava proprio in quanto specchio di Sinister: era quasi lo stesso film da punti di vista opposti e come Sinister era diventato un piccolo cult.

Il grande dubbio, prima della visione in sala, era che si fossero fatti per Black Phone 2 gli stessi errori di Sinister 2



In sala

Black Phone 2 sceglie fin da subito di portare la narrazione al di fuori di uno stretto “ecosistema familiare/trappola”, come lo erano la soffitta di Sinister e lo scantinato del primo Black Phone

L’azione qui si svolge in una colonia invernale per ragazzi davanti a un piccolo laghetto: un luogo in grado “con una sola mossa” di rievocare, per i fan dell’horror più accaniti, tanto il lago e il campus Crystal Lake (Venerdì 13), quanto l’isolamento invernale “feroce” dell’Overlook Hotel (Shining). Un setting davvero ben realizzato, “sospeso” tra passato e presente in un istituzionale “immobilismo forzato”, che sulla scena appare davvero molto evocativo. Un luogo ghiacciato anche emotivamente, ammantato di bianca neve che spesso si tinge di rosso sangue, in cui un Rapace sempre più vicino a Freddie Krueger e “nuovi” bambini fantasma possono sguazzare come dei matti, tra realtà e piano onirico. 

Un “luogo nuovo”, che permette a Derrickson e Cargill di raccontarci quanto potessero essere spaventose (e “omertose”) le colonie per ragazzini negli anni '70 (non è certo il campus estivo di Polpette, film del '79 con Bill Murray..), che porta anche i due protagonisti, Gwen e Finney, ad assumere un “ruolo nuovo”. Un ruolo che li vede più adulti e quasi nei panni di “detective del soprannaturale”. In questi ruoli Mason Thames e Madeleine McGraw ci sono piaciuti moltissimo, dimostrando un grande talento nella “ri-costruzione emotiva” dei rispettivi personaggi dopo gli eventi trascorsi. Come ci è piaciuto rivedere in un “nuovo ruolo” il bravo Miguel Mora, come ritrovare Jeremy Davies alle prese con un personaggio, quello del padre, che effettivamente nel corso del tempo dimostra anche lui di essere cambiato, cercando di rimettersi in gioco. 

Black Phone 2 ha meravigliose scene horror e liberatorie, scene prettamente splatter, un setting pieno di suggestione e ottimi attori che sanno proseguire emotivamente bene la storia iniziata nel primo film. 

Anche sul lato visivo, l’uso del “formato onirico” degli 8mm funziona molto bene, giocando in modo interessante con le peculiari scelte del direttore della fotografia Par M.Ekberg. È più facile confondere la realtà con il sogno, a meno di non stare a ricercare in modo analitico le “sgranature della risoluzione” sui bordi e ai margini della scena. A volte con la stessa ossessione con cui veniva analizzata l’immagine in bassa risoluzione delle telecamere digitali della saga Paranormal Activity, non a caso un’altra serie-simbolo della casa di produzione Blumhouse.

Tuttavia qualcosa di importante si è perso sul lato della scrittura: non si è data la “giusta voce” alle “nuove” vittime del Rapace e il tema del difficile dialogo tra giovani e adulti è stato messo un po’ da parte. 

Forse per non ripetersi e non trasformare di nuovo il tutto in una specie di Sinister 3

Forse per esplorare di più il lato investigativo della storia e di fatto fornire un gancio a pellicole future, ma c’è da dire che anche la “struttura delle investigazioni”, tra i sogni di Gwen e le telefonate di Finney, ogni tanto appare un po’ schematica. 

Ad ogni modo si avverte a livello narrativo una maggiore distanza emotiva, che rende il tutto più prevedibile e meno sfaccettato sul piano umano, pur all’interno di una pellicola in larga parte ben riuscita e divertente.


Finale 


Con Black Phone 2 Derrickson e Cargill riportano in sala personaggi e atmosfere di uno degli horror più intelligenti, originali e interessanti degli ultimi anni. La formula rimane accattivante: bravi gli interpreti, riuscite le scene oniriche quanto le scene “splatter”, il nuovo scenario si dimostra ricco di atmosfera, Ethan Hawke sempre più cattivo e sopra le righe. Ci si spaventa e diverte come prima, anche se nella storia avvertiamo una maggiore “freddezza”, forse anche in onore della nuova ambientazione. 

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mercoledì 1 ottobre 2025

Le città di pianura: la nostra recensione del tragicomico “western crepuscolare postmoderno e molto etilico” di Francesco Sossai


Ci troviamo nel Veneto quando ancora non era diventato lo “Zaiastan”, dalle parti di inizio duemila, prima della grande crisi.

Ai tempi Cavalieri e megadirettori si spostavano in elicottero, con orgoglio sopra i loro operai e impianti/ruderi “ma ancora validi” dell’era industriale, dispersi per i campi e i sassi come vecchi accampamenti indiani. Un elicottero scende a terra per alzare in modo spettacolare un piccolo tornado di sabbia e per riconoscere il valore vero di un operaio, prossimo alla pensione ma che lavora per loro instancabile dall’inizio, “il primo”, di nome guarda caso Primo. Il premio, un orologio con dedica, oro, abbinato a grandi sorrisi, pacche sulle spalle e forse una rivelazione importante, solo per le sue orecchie, tipo il senso della vita. Ma la rivelazione viene “dispersa” dal rumore di fondo assordante delle pale dell’elicottero che iniziano già a girare. Di sicuro girano già da molto pure le “pale” di Eugenio, detto “il genio” (Andrea Pennacchi). Operaio della stessa ditta leader nella produzione di occhiali, ma a tempo sempre più pieno contrabbandiere a giro internazionale dei medesimi. La crisi si avvicina quanto il suono delle manette e l’Argentina diviene per il Genio la meta tra sogno e realtà da inseguire. Debitamente “viaggiando leggero”, dopo aver lasciato il frutto del contrabbando sepolto in un luogo segreto come un tesoro dei pirati, in attesa che le acque si calmino. 

Gli anni passano e le acque si sono così calmate da essersi svuotate: si parla ora solo di vino, birre e superalcolici. Due amici di sempre, complici/colleghi di lavoro del Genio hanno già bevuto tutto l’inimmaginabile nelle ore d’attesa che li separano dall’arrivo all’aeroporto con il vecchio amico. Per un attimo hanno pure scoperto il senso della vita forse sussurrato a Primo anni prima. Ma il tempo di attesa di un volo dall’Argentina è ancora tantissimo e tantissimi sono pure i bar, bettole, Night club et similia lungo il cammino al terminal, a patto di ricordarsi se l’aeroporto giusto è Treviso o Venezia. Dopo essersi autoinvitati a un paio di feste e addii al nubilato, la coppia, al secolo il baffuto Carlobianchi detto “Charlie” (Sergio Romano) e l’intraprendente Doriano detto “Doriano” (Pierpaolo Capovilla), decidono di imbucarsi pure a una festa di laurea. La ragazza con corona d’alloro in testa è bellissima, ma il ragazzo che più spasima per lei, lo studente di architettura Giulio (Filippo Scotti), è tristissimo, un uomo devastato dalla timidezza, dalla imbranataggine e un po’ dalla sfiga. Quando la serata passerà per lui dalla tragedia allo psicodramma, Doriano e Carlobianchi decideranno di “adottarlo” come un cagnolino raccolto dalla strada sotto l’acqua, per innaffiarlo con loro on the road, nel resto del giro etilico programmato a caso in attesa del “Genio”. Giulio è così devastato a livello esistenziale che accetta al volo qualunque cosa, pure Doriano e Carlobianchi. I tre sperimentano effluvi alcolici in luoghi e posti assurdi ma verissimi per almeno un paio di giorni. Alla ricerca di un “Genio” , di un “Tesoro sepolto”, di un amore che forse è già perduto a vantaggio di spasimanti meno timido. Alla ricerca di un futuro, di se stessi e forse di una spalla a cui appoggiarsi e continuare fiduciosamente, insieme e insonni, a camminare lungo una lunga notte. Tra vecchie osterie, castelli che forse diventano autostrade, monumenti funebri post-moderni meta turistica di giapponesi e lungo così tante strade e bar desolati e desolanti che pare di stare nel Texas. O altri luoghi che forse non esistono se non nell‘immaginazione. Come Rovigo. 

Esiste sempre più, grazie al coraggio di alcuni amabili pazzi contemporanei, un cinema che va a esplorare il nord est dell’Italia per quello che è sempre stato anche se poco ci è stato raccontato: è il nostro personale Far West, pieno di miti e leggende ancora troppo poco raccontate. Si è innamorato pochi anni fa dei suoi spazi sterminati, rigogliosi di verde ma quasi sinistri, il regista e cantante Zampaglione, raccontandoli come “casa nel bosco” di un Freddie Kruger tutto nostrano nell’ottimo e mai abbastanza celebrato Shadow, nel 2009. È da sempre cantore degli infiniti silenzi delle sue città “abbandonate e abbandonabili” arrancate sui monti, da frontiera quasi metafisica, l’ottimo Lorenzo Bianchini, che nel 2013 firma il suo capolavoro, Oltre il Guado. Autori come Silvio Soldini (con La lingua del Santo, del 2000), Matteo Oleotto (Zoran, il mio nipote scemo, nel 2013, la serie tv Volevo fare la rockstar) come Emilia Mazzacurati (Billy, del 2023) hanno cercato di incanalare l’animo vivace, sognatore, romantico e sarcastico proprio del nord Est e su questo stesso solco va a collocarsi oggi Francesco Sossai per la sua irresistibile commedia on the road ad altissimo tasso etilico. Un film, che Sossai scrive insieme a Adriano Candiago, che è più Paura e deliro a Las Vegas di Terry Gilliam che Via da Las Vegas di Mike Figgis. Un film generoso e ondivago che insegue un’infinita “ora dello spritz” come momento massimo, quasi sciamanico, per mettere a nudo i sentimenti umani migliori, come l’amicizia e la comprensione, senza tutti i legacci delle inibizioni. Non però uno stordimento da super alcolico costante, cosa che forse ci porta in territori più bonari e meno autodistruttivi del film di Gilliam, quanto una “giustificazione liquida bassa gradazione”, per prolungare la voglia di stare insieme a tirare tardi, allontanando la testa e il cuore dai drammi di tutti i giorni quanto più si riesce. Sossai dietro il giallo paglierino delle pinte i drammi non li nasconde per niente, anzi dà voce con la sua macchina da presa a scenari fatiscenti, ristoranti con la serranda abbassata, sui personaggi tutti i segni di una vita che tira avanti con pochi lussi e tanti sacrifici. Scenari e vite che parlano da soli di un tempo di crisi ormai diventato troppo lungo, in cui persino i campi e gli stabilimenti chiusi in breve sono diventati non lontanissimi dall’Australia di Mad Max. Scenari sui quali i nostri protagonisti, tutti perdenti, un po’ codardi e un po’ truffatori, ma molto romantici, non hanno la forza di camminare dritto. Preferendo “barcollare” tra sogni, alcol e realtà, ma sostenendosi a vicenda, amici e complici, senza perdere quello stato mentale collettivo, quasi fanciullesco, che forse rende meno gravoso il loro incedere. 


Anche se la meta è fosca e il tragitto pieno di deviazioni, è quindi un “naufragare dolce” perdersi con Doriano, Carlobianchi e Giulio nel loro on the road a zonzo tra Venezia e la realtà, senza capo né coda pieno di strade aride ma pure di meravigliosi bar con musica dal vivo, sempre perfettamente azzeccata alla descrizione di stato d’animo generale e disgrazie varie. 

Grazie a un’ottima scrittura e ottimi interpreti, il viaggio si fa presto anche per il pubblico, chilometro dopo chilometro, birra dopo birra, l’immagine cristallina del solo, primordiale bisogno di “state insieme”. Uno “stare insieme” che riesce a filare bene nello stomaco dello spettatore come un buon digestivo: appagante, dolce ma anche debitamente amarognolo. Al netto di qualche “flashback narrativo” che forse non convince in pieno, la storia dei nostri eroi sa sempre trascinarci nel loro mondo in modo cristallino, generoso e stralunato.

Un piccolo grande film. 

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