venerdì 13 settembre 2024

L’ultima settimana di settembre: la nostra recensione del malinconico road movie diretto da Gianni de Blasi, con protagonisti Diego Abatantuono e Biagio Venditti, presentato al Giffoni Film Festival

 


Siamo in una torrida giornata di settembre del 2017. Lo scrittore ottantenne Pietro (Diego Abatantuono) ha deciso di farla finita, proprio nel giorno del suo compleanno. 

Per lui è come se ci dovesse essere almeno una “punta di gioia”, per farla finita. 

Sono ormai passati due anni da quando sua moglie pittrice Sara non c’è più. Da allora la vita gli appare inevitabilmente “storta”: storta come i tanti quadri di Sara nello studio, che sembrano essere appesi effettivamente storti, nonostante lui cerchi sempre di raddrizzarli. Come scrittore ha già da dieci anni suggellato il suo cinico testamento artistico con il libro “Andate tutti affanculo” e ora non resta che aggiungere a quanto già scritto una piccola appendice: la sua lettera da suicida. Dopo ”averci mandato tutti”, meticolosamente, catalogando su una agendine nera tutte le tipologie umane “meritevoli”, affanculo decide di andarci lui, spontaneamente, seguendo una pista di pastiglie accompagnate da whisky, seduto alla sua scrivania, ascoltando musica a tutto volume. Un po’ da rockstar.

Dalla segreteria telefonica arrivano gli auguri da parte della figlia e del genero, si parla di una torta e della possibile presenza del nipote Mattia (Biagio Venditti). Tutto in sospeso, forse c’è dietro una sorpresa. Dipende “chi fa a chi”, la sorpresa.

Non si può morire in pace che bussano alla porta, quasi la sradicano. È la polizia e ha brutte sorprese. La figlia di Pietro e il genero, disposti su due lettini di ferro. Corpi da riconoscere. Forse una buca, magari un piccolo incidente. La macchina ha girato su se stessa. Pure i quadri appesi all’obitorio, sono storti. Mattia ora è solo e già abbastanza triste, reduce da un pomeriggio brutto di suo, dove è stato scartato come batterista di una band di coetanei. 

Il ragazzo ha gettato per terra le bacchette poco prima di incontrare questo nonno strano, assente e distante, che lui chiama solo ed esclusivamente “Pietro”. Lo aspetta sulla porta, anche se poteva benissimo entrare, aveva le chiavi di casa. Ha una brutta faccia. In breve ha una brutta faccia pure Mattia. 

C’è il doppio funerale, rigorosamente in una giornata di pioggia. C’è il giorno dopo la pasta al sugo di Pietro che viene lasciata fredda nel piatto del nipote, che sembra aver smesso del tutto di mangiare e parlare. Ci sono gli assistenti sociali, che obbligano il minorenne Mattia a stare a vivere con un congiunto o finire in affidamento da qualche parte. 

C’è una telefonata inaspettata, da un tizio di nome Marcello, che dice di essere lo zio di Mattia, è ricco e disposto a prendersi cura del ragazzo. Solo che Marcello sta a Roma e gli altri a Milano. Tra tante cose storte, forse è l’unica dritta.

Pietro tira fuori dalla polvere del garage la sua Citroen Vs 23 metallizzata semi-oro, poi coinvolge il cane Syd e Mattia in un viaggio on the road che condurrà fino a un porticciolo di Roma, dove lo zio Marcello con yacht, famiglia e filippino sta per partire per una crociera. 

Voltare pagina con brezza marina extra. 

Il viaggio non può essere che eterno, nell’ordine delle decine di ore: perché nella agendine nera del nonno ci sono sia autostrade che camionisti. La gloriosa Vs 23 va a rilento sotto le note dei Ribelli e la loro “Pugni Chiusi”, combattendo la calura interna dell’abitacolo con un ventilatore da tre euro. 

Una piccola odissea di fine settembre, tra ricordi e forse nuovi amori  (con co-protagoniste le “ninfe/post-hippy” interpretate da Marit Nissen e Guendalina Losito) che cambierà giocoforza la vita di Pietro e Mattia: imponendogli di fare i conti con se stessi e mettendoli davanti, volenti o nolenti, alla necessità di “tornare a vivere”. Se non per se stessi, almeno per chi dobbiamo proteggere. In fondo, si può vivere storti per sempre. 


Gianni De Blasi arriva al lungometraggio adattando insieme a Antonella Gaeta e Pippo Mezzapesa (sceneggiatori di Ti mangio il cuore, il film con Elodie) un malinconico e affettuoso libro generazionale di Lorenzo Licalzi. Ne nasce un film il cui Diego Abatantuono e  Biagio Venditti con estrema naturalezza ci conducono in un racconto strano, carico di parole non dette e conflitti interiori irrisolti, vestendo i panni di due personaggi per lungo tempo pensosi e contratti, cordialmente “bofonchianti”, ostinatamente poco comunicanti. Il loro “autunnale” viaggio lungo l’Italia, assume subito e con rimorso i connotati di un malinconico lungo addio alla rispettiva “vita precedente”: un doloroso e non voluto percorso in linea retta, molto parco di risate e traboccante di dolore, dove anche i paesaggi più da cartolina sembrano qualcosa di intangibile, spesso crudele. “C’è della gioia”, nel mondo, ma è come se la coppia protagonista indossi un impermeabile abbastanza forte da non farsi intaccare dalla sua influenza positiva. Si procede inciampando più o meno negli stessi errori e malinconie, sordi alle emozioni fino a quando le emozioni diventano così travolgenti e oniriche da auto-imporsi, in una specifica “tappa del viaggio”. Un “non-luogo” di sosta forzata dal dolore, troppo bello e “felliniano” per essere realisticamente vero, iconico quanto purtroppo non condiviso dai due personaggi. Protagonisti pure qui pervicacemente vicini fisicamente, ma al contempo separati emotivamente. Soli lungo una strada predefinita giusto un po’ più colorata, viaggiatori autonomi, fino a un epilogo quasi contratto, dove arriva però salvifico un alleggerimento generale dei toni.

C’è tanto, tantissimo “thanatos”, malinconia e affini. C’è troppo poco “eros” e purtroppo in fondo poca condivisione, scarsa voglia di riuscire a ridere, stemperare in un sorriso il tragico. 

Abbiamo un Abatantuono lunare, quasi troppo crepuscolare, che ricorda in più punti il De Sica de I limoni di Inverno nel suo attendere inerme il decorso degli eventi. Anche in questo caso ci aspettiamo la zampata del grande comico, quella in grado di abbattere la malinconia, lo “sberleffo”: ma rimaniamo per lo più a bocca asciutta. Anche perché abbiamo un Venditti troppo “realisticamente adolescente”, e quindi pessimista quasi in modo cosmico. Non motivato nel cercare di risollevare il tono generale plumbeo del fluire degli eventi. 

Non aiuta all’economia del film un regista che si fissa, pervicacemente, nel voler sottolineare il “tono triste e introverso dell’opera”, con il pennarellone più grosso e monocolore di cui dispone, quasi temendo di maneggiare le altre sfumature. Consapevole della bellezza della fotografia e scenografia, dell’interessante contributo della colonna sonora e del buon feeling che Abatantuono e Venditti riescono a costruire sul set, De Blasi costruisce e consolida un continuo muro divisorio tra il piano visivo ed emotivo dei personaggi. Un muro formalmente perfetto, dove l’incomunicabilità è una cifra di stile precisa, quasi accostabile ai lavori più introspettivi di Makoto Shinkai. 

Ne esce un film decisamente e “riuscitamente” drammatico, in grado di evocare nello spettatore i peggiori spettri emotivi che si annidano anche sotto la più radiosa cornice da cartolina. La perfetta rappresentazione di un mondo dove la gioia è relegata a fugaci sogni da cui distogliersi con fretta all’alba (come nell’epilogo del capitolo del “casolare”), per tornare meticolosamente a redigere, nel quotidiano, un elenco preciso delle persone che detestiamo al mondo. 

Un mood tragico, disincantato quanto condivisibile, che come dimostra la visione dei Giffoni è stato in grado di incontrare la curiosità e il gusto di un pubblico anche giovane. Stiamo per assistere a una nuova corrente di film super-tragici? 

Talk0

sabato 7 settembre 2024

L’innocenza (Monster): la nostra recensione del bellissimo film di Kore’eda Hirokazu, con le struggenti musiche del maestro Ryuichi Sakamoto. Pellicola vincitrice a Cannes come migliore sceneggiatura

 


Siamo nel Giappone dei giorni nostri, tra i quartieri periferici e verdeggianti di una grande città. 

Minato (Soya Kurokawa) è un ragazzino intelligente e taciturno, ma che giorno dopo giorno sta diventando sempre più strano, assente. Questa spirale sembra cominciata la notte in cui ha preso misteriosamente fuoco un locale di intrattenimento per adulti, attirando tutti i pompieri e le ambulanze della zona, con la città che splendeva a giorno per via delle fiamme. Poco dopo Minato ha deciso di tagliarsi i capelli da solo con le forbici, senza dire nulla a nessuno e quasi facendosi male. 

Un giorno Minato è tornato a casa senza una scarpa. Una notte è uscito di casa all’improvviso per essere poi ritrovato nei pressi di uno spettrale tunnel, abbandonato tra i campi. Giungono voci da scuola sul fatto che Minato abbia compiuto violenze su piccoli animali. 

Infine accade una strana colluttazione in classe, durante le ore di lezione, nella quale sembra che il gentile e simpatico professor Hori (Eita Nagayama) sia stato costretto ad alzare le mani con la forza contro il ragazzino.

Saori (Sakura Ando), la madre di Minato, l’unica che si occupa di lui dalla scomparsa del marito, lavorando con i doppi turni, è incredula. Davanti a questi eventi cerca subito di parlare con la scuola, ma da Hori, dalla lunare preside Fushimi (Yuko Tanaka) e dall’intero corpo insegnanti, la madre non riesce a ottenere che plastici inchini di cordoglio, mezze-parole, scuse poco sentite o argomentate, un surreale clima di omertoso e imbarazzato silenzio. 

Forse Minato è davvero, come dice sottovoce qualcuno, “un mostro”. Forse il Mostro è però il professor Hori, che si sospetta condurre una seconda vita dissoluta insieme a delle accompagnatrici. 

Oppure c’è dietro un alto tipo di mostro: qualcosa che ha a che fare con un compagno di scuola di nome Yori (Hinata Hiiragi). 

Yori è minuto, aggraziato e non ha paura a rispondere a tono: motivi sufficienti per essere vittima dei bulli. Vive con un padre davvero mostruoso, alcolizzato e di fatto “bullo pure lui: percuote ogni giorno il figlio, lo maledice e si rivolge a lui in modi cinici e sprezzanti. Ai suoi occhi, la causa di tutte le sue sventure, compresa la morte della moglie, è unicamente del figlio: è Yori, apparentemente gentile ma malevolo, probabilmente  “manipolatore”, l’unico, vero, autentico “mostro”. 

Cosa sia successo davvero in quei giorni, come “chi” sia il vero mostro della vicenda, lo scopriremo dissolvendo un “mosaico alla Rashomon”: rivivremo, divisi in capitoli, gli eventi dal punto di vista di più personaggi. Punti di vista che daranno vita a storie dal sapore sempre diverso, unico quanto a tratti contraddittorio, irrisolto. 

Vedremo gli adulti intenti in una personale “caccia al mostro” e tormentati da un personale senso di colpa. Immersi in atmosfere plumbee, thriller, quasi horror. Vedremo i giovani invece protagonisti di una storia così diametralmente diversa e intima, da assumere quasi i tratti della favola. Un racconto solare di crescita e scoperta dei sentimenti, genuino quanto forse così “puro” da essere inconfessabile. 

Da che parte sta la realtà?

Chi ha “gli occhi giusti” per vederla?

Vincerà in questa vicenda l’anima sognante o quella tragica?


L’innocenza è l’ultima opera a cui ha regalato una colonna sonora il compianto, gigantesco e inarrivabile Ryuichi Sakamoto. Il tema musicale è struggente, carico di colori, complicato, austero quanto gentile. Assomiglia al discorso impacciato di un bambino, che cerca con poche speranze di confrontarsi con adulti troppo distanti, quasi alieni, incapaci o senza voglia di capire il suo punto di vista. Ricorda per certi aspetti il sussurro sbilenco di The Crisis di Morricone e allo stesso modo riesce, con le sue “corde emotive scoperte”, a commuovere per davvero. Ancora una volta Sakamoto, che ha lavorato con generosità a questo progetto come faceva con i film di Miyazaki, finché la forza glielo ha consentito, sa prendere le lacrime dalla ghiandola e non ti molla finché non le spremi tutte. 

Su questo tappeto sonoro unico e prezioso, Kore’eda Hirokazu confeziona una storia che in qualche modo amplifica il senso di difficoltà con cui oggi, troppo spesso, un po’ tutte le persone cercano con difficoltà di comunicare tra loro. 

Kore’eda Hirokazu ci racconta con i personaggi il “suo” Giappone, dipingendolo come una società così contratta emotivamente da sembrare ormai arida: così chiusa in se stessa e nei suoi “riti relazionali protocollati” da creare dal nulla equivoci e caos. Gli adulti di conseguenza si muovono in base a schemi che li pretendono  “neutri”, corporativamente compatti, con la conseguenza che qualcuno “implode”, come il professor Hori. 

Tutto può apparire per l’istituzione scolastica “disonorevole” e pertanto deve essere taciuto. Al punto che i singoli, impossibilitati nell’esprimere vicinanza e calore umano a parole, spesso cercano il dialogo attraverso “nuovi linguaggi”, come quello della musica (bellissima la sequenza di dialogo musicale tra Minato e la preside). 


In alternativa esistono solo gli scontri, fisici quanto distruttivi, come di contro si creano come muri di distanza sociale le “etichette”: strumenti veloci con cui bollare una persona come strana, matta o “mostro” (Monster è il titolo originale giapponese del film, pertanto) e cercare così per lo meno di “stare alla larga”. 

Se gli adulti sono ormai quasi condannati a un’esistenza di depressione, incomprensione, solitudine, etichette e infamie, forse il mondo innocente dei bambini, per Kore’eda Hirokazu si può salvare. 

I piccoli possono e devono vedere le cose da una prospettiva diversa, credere nel poter cambiare il loro destino, saper sognare a occhi aperti in una natura, a pochi passi dalla grande metropoli, che con la sua calma e i suoi ritmi può regalare scorci non dissimili ai mondi paralleli di Miyazaki. 

Ma la scuola, unita alla impellenza sociale di trasformare presto i bambini in adulti, sembra essere lì già per soffocare tutto, provvedendo prestissimo a omologare ed etichettare, complicare e istituzionalizzare ogni relazione umana. 

Forse per il regista la salvezza unica e amara da questo “gioco sporco” è non essere costretti più a crescere. È un messaggio che fa male, ma che porta anche il film a diventare per davvero un potente strumento di riflessione sociale.

L’innocenza è un film meraviglioso sotto ogni punto di vista. Molto bravi gli attori, con un plauso agli interpreti più piccoli. Geniale il mondo in cui la sceneggiatura riesce a cavalcare più generi cinematografici pur conservando una sua precisa, fortissima identità simbolica. Avvolgenti la fotografia e le scenografie di luoghi a metà tra la cruda realtà e il sogno. Incredibile e potente l’ultima colonna sonora di uno dei massimi compositori degli ultimi anni. 

L’innocenza è un film da non perdere. È un film che fa riflettere, commuovere, sognare e arrabbiare. Un caleidoscopio unico. 

Talk0

mercoledì 4 settembre 2024

Paradise is Burning: la nostra recensione dello struggente ma bellissimo film drammatico diretto dall’esordiente Mika Gustafson

 


Svezia dei giorni nostri, nel mezzo di un torrido periodo estivo. 

Ai margini di un quartiere operaio di Stoccolma, legate con tenacia e amore disperato l’una all’altra, vivono con spensierata imprudenza e mezzi di fortuna tre sorelle rimaste sole. 

La più grande è l’adolescente Laura (Bianca Delbravo), che di fatto si è sobbarcata lo status di madre provvisoria e cerca come può di far quadrare il bilancio con piccoli lavori e una, pur “complessa”, aura di severità e rigore verso le più piccole.  Mira (Dilvin Asaad) è la sorella intermedia e sta scoprendo i primi amori e le prime “voglie” di stare senza le altre due. Steffi è la più piccola e forse necessita di tante coccole (Safira Mossberg), ma non fa pesare troppo la questione. 

Dalla morte dei genitori vivono di espedienti, nascondendosi dove possono per evitare di essere divise, “barando” con la burocrazia e potendo contare su poche, fidate persone che possono supportarle. Si spostano di continuo, ma comunque riescono a frequentare le scuole, lavorare e nei ritagli di tempo pure far parte di un piccolo “branco” di giovani post-hippy: novelli millennials figli dei fiori che amano vivere tra i campi e i fiumi a contatto con la natura, ma saltuariamente cercano di occupare le ville con piscina di ricchi momentaneamente in vacanza, scavalcando recinzioni e serrature. 

Anche loro in fondo hanno bisogno di vacanze, recinzioni permettendo. 

Le tre sorelle “fanno la spesa” al supermercato in un modo abbastanza rodato: la più piccola attira l’attenzione simulando finte tragedie “al sangue di carne bovina” per spaventare i commessi, le altre due si muovono veloci tra i frigoriferi senza essere scoperte. Poi vanno a ricongiungersi all’uscita e all’auto per la fuga,  rocambolescamente. Il gioco tiene ormai “da anni” e la più grande delle tre, pur tra alti e bassi, riesce per un po’, grazie alla sua vitalità ribelle, a crescere la sua disastrata famiglia. 

Ma i sevizi incombono per colpa di uno sfortunato scherzo del destino e Laura è costretta a fare i conti con la necessità di dover sfoggiare, seppure per finta, una “madre provvisoria”. È così che la ragazza si avvicina alla affascinante e solitaria vicina di casa Hanna (Ida Engvoll), che sembra essere stata proiettata in quel luogo quasi da un altro pianeta. 

Il marito non è mai in casa, Hanna muore di noia e pare davvero affascinata dallo strano mondo “visto dagli occhi di Laura”. Un mondo dove si può entrare in università per scroccare un caffè caldo alla mattina. Un luogo dove giocare con la memoria di anziane signore, fingendosi parenti o corrieri, per entrare provvisoriamente in un appartamento sfitto dove stare indisturbate. Una “dimensione” che permette di vivere alla giornata, tra mille trucchi e assecondando una contagiosa, trascinante richiesta continua di libertà. 

Zero regole, solo affetto per i propri cari. Forse è questo, il vero paradiso. I mondi di Hanna e Laura si avvicinano, ma la situazione prenderà pieghe inaspettate e le tre ragazze saranno costrette a “crescere” ancora più in fretta.


Presentato a Venezia lo scorso anno, risultando vincitore nella categoria Orizzonti, la prima pellicola di Mika Gustafson ci travolge dal primo all’ultimo minuto, immergendoci in una realtà di confine complessa quanto vivida: così realistica/cruda che se vogliamo possiamo considerarla figlia di quello stesso cinema sociale dei fratelli Dardenne. Un cinema che comunque viene stemperato a tratti da una riuscita “piccola punta di sarcasmo”, vicina alle opere di Xavier Doland, che permette alla storia di prendersi ogni tanto una boccata d’aria, “per sognare e ridere” delle disgrazie.  

Il “paradiso” delle tre protagoniste appare come un posto precario e crudele anche in una Stoccolma ultra moderna, composta e pulita, ordinata e quasi da cartolina. All’ombra del lusso, una umanità giovane, dispersa e disparata, si accapiglia per scampoli di gioia provvisoria con la temerarietà e romanticismo dei pirati. 

Se le persone comuni, pur con le eccezioni, risultano ben disposte, accoglienti e generose verso questi “giovani di strada”, sono lo Stato e i suoi servizi a vivere in uno status quasi schizofrenico: tirando fuori, specie sui più deboli, rancori e comportamenti autoritari quasi inaccettabili. Assistenti sociali in pieno burn-out, coperti sarcasticamente di cerotti e lividi, sembrano essere in grado di fare più danni della “legge della strada”, sfoggiando codardie e una mancanza di empatia che sfocia quasi nel crudele. Non fosse per il fatto di essere “destinati alla sconfitta” e a sfoggiare nuovi cerotti, grazie alla magia del cinema, quasi come il Coyote dei cartoni Warner. 

Anche il sistema-famiglia tradizionale, visto attraverso gli occhi sognanti ma contradditori del personaggio di Hanna, sembra essere una istituzione/casa al bivio, “atomizzata”, votata all’auto distruzione o all’autoreferenziale, in grado di frantumarsi quanto ri-consolidarsi male in un attimo, quasi irrazionalmente, di fatto non riuscendo più a comunicare con il sociale e “con il resto del mondo” a nessun livello.    

Impossibile in questo scenario non provare affetto e complicità per le tre piccole, adorabili e disperare protagoniste, a cui danno corpo tre straordinarie giovani interpreti, delle quali probabilmente sentiremo ancora molto parlare. La loro libertà quanto l’ingegno per mantenerla sono contagiosi, a tratti folli, ma il loro legame, pur fatto di continui scontri, va sempre a disegnare una piccola o grande crescita interiore in ogni personaggio. 

Se Laura all’inizio della storia è a tutti gli  effetti la “madre vicaria”, in attesa della “madre di facciata” Hanna, il ruolo di “adulto del gruppo” riesce nel corso della storia  a passare sorprendentemente a Mira e qualche volta pure alla piccola Steffi!  In qualche modo, senza ricorrere a troppi voli pindarici o in adulti/ectoplasmatici, proprio la genuinità del loro legame consente a tutte e tre delle piccole pause: momenti per “tornare provvisoriamente bambine”, nutrire i propri sogni e speranze, “riappropriarsi” di spazi, amori e di una normalità da ragazzine. Tutto quello che il caso le ha negato, se lo sono ripreso. 

Gustafson è molto attento e accorto, quasi elegante, nel fare in modo che questo “balletto di ruoli” risulti sempre credibile, “onesto” quanto inclusivo dello specifico punto di vista di ognuno dei personaggi. È così che un film duro, con tutti i crismi e patimenti della storia reale, riesce nel miracolo di salvarsi dal cinismo proprio del mondo reale. Una favola vera, che crede nel potere delle nuove generazioni di salvare il mondo, a dispetto di un mondo che non ci crede più.

Se amate il cinema d’autore, quello che da masticare con gusto temi sociali e sentimenti, fatevi un regalo e andare a riscoprire, se non lo avete visto alla biennale, questo piccolo grande film svedese di un regista esordiente. 

Talk0

domenica 1 settembre 2024

Dario Voltolini - Invernale: la nostra recensione del romanzo edito da La nave di Teseo

Fine anni ‘70. 

Il “padre” lavora come macellaio in un banco specializzato in conigli, pollame e agnelli, presso il mercato di Torino. Il suo “ceppo” è sempre pulito, le vasche con le frattaglie ordinate. I clienti accalcati lo osservano, ipnotizzati, mentre disossa le bestie con la maestria e l’eleganza di un chirurgo o un prestigiatore. 

Con toni musicali concitati simili a tamburi, un’armonia unica di gesti e coltelli, il padre apre un animale spellato dal suo interno, come un sipario. Lo fissa ai ganci, lo divarica. Lo divide in parti geometriche, lo frammenta per lungo come un tappezziere curerebbe la sera. Scompone,  fino a che si trasforma il tutto in gemme compatte rubino o bistecche con l’osso: da animale a pietanza, riposta in pacchetti di carta candida, che si può già figurare a casa, in padella. Il sangue, le poltiglie delle lame e le parti rimaste fuori dal processo scompaiono all’occhio, nessuno le vede, tutto il bancone riflette una luce pulita come il cristallo. 

Il padre, per molte ore di lavoro infaticabile, vive al di là del vetro del suo banco da lavoro, insieme alle bestie. Quasi sul limbo tra la vita e la morte, anche se lui è solo un passaggio intermedio, tra il boia/cacciatore e l’acquirente. Alle spalle, grossi ganci a trenta centimetri dalla testa, più in basso coltelli enormi e pesanti in grado di spaccare per lungo con un solo colpo teste e colonne vertebrali. Davanti, la fretta dei clienti, la necessità di compiere un continuo “balletto” insieme ai suoi assistenti per non ostacolarsi al ceppo, alle vasche, alla cassa per prendere i soldi e dare il resto. 

Tutto deve svolgersi e si svolge in modo preciso, geometricamente previsto al millimetro, dall’esperienza meccanica del braccio e da un “occhio” in grado di soppesare ormai ogni pezzo, ancor prima della conferma di una bilancia elettronica.

Poi qualcosa si inceppa.

La danza di corpi vivi e sezionati si deforma per un istante dietro il bancone.

Arriva il taglio, l’urlo, l’inizio di un cambiamento.

Sotto la pelle vive qualcosa di nuovo, che prima cerca di fuoriuscire tra rigonfiamenti e striature lucide e poi sembra gradualmente scomparire.  

Sangue di agnello mischiato in sangue d’uomo, per gioco del destino, si sono fusi nel padre, attuando una metamorfosi lenta quanto profonda, che tocca il suo piano fisico ma anche psicologico.  

L’uomo si fa sempre più “misterioso”. 

Nel lavoro è ancora puntuale e infaticabile, ma inizia a vedere il suo mestiere in un modo diverso, quasi “sacrale”. Viaggia la sera con la mente e le sigarette in territori lontani e inesplorati, che crede di aver visto in altre vite. Vede la realtà stessa in modo diverso, con tempistiche diverse: anticipa le traiettorie degli eventi quasi acquisendo una specie di “preveggenza”, che si tratti di un cross in una partita di calcio o la struttura esterna di un palazzo mai visitato. 

Si rifugia, di giorno, nelle pause dal bancone, in luoghi della città che non ha mai battuto. Il corpo del padre nel tempo viene esaminato da più esperti, quasi mai sicuri del cambiamento che di sicuro è (forse) in atto, fino a che la sua cartella clinica si fa un libro, un “libro del mistero”. 

Cosa è cambiato o sta ancora cambiando, nella vita di quest’uomo?  


Qualche volta torniamo felicemente a parlare di libri. Lo facciamo oggi con questo libricino di 140 pagine, edito da La nave di Teseo, arrivato secondo al prestigioso premio Strega. 

Una copertina semplice ma impattante, un titolo ricercatamente “criptico”, un ritmo narrativo concitato unito a una flagranza delle parole che ci prendono al bavero dalle prime righe, non ci mollano almeno per una cinquantina di pagine. Capitoli brevi e intensi. 

Una rigogliosa terminologia tecnica, ricercata quanto affascinante, vivida quanto “cruda”, “elegantemente splatter” quanto un’opera di Cronenberg. 

In poche pagine si corre visceralmente, kafkianamente, dall’anatomia di un agnello a quella di un uomo, tra viscere e inconscio, brandelli e scampoli di memoria. 

Violtolini ci apre a tratti anche alla “mistica dell’anima”, raccontandoci di legami ancestrali tra uomo e terra, lo spazio e il tempo. Poi senza pietà ci scaglia nel più crudo e disperato “nichilismo dei lumi”, nel “meccanicismo medico” più spietato, legato a ferree dinamiche di causa/effetto. 

A tratti, da fan del cinema, ci pare di percorrere i territori horror del Black Sheep di Jonathan King o del Lamb di Valdimar Johannsson. Nell’infinito e elegante balletto di macellazione dei primi capitoli sembra di stare a guardare Il gusto delle cose di Tran Anh Hung. 

Più passiamo il tempo su queste pagine, più acquisiamo una visione diversa del testo. Qualcosa che lo avvicina al pirandelliano L’uomo dal fiore in bocca

Il “padre” è quasi sempre un personaggio silenzioso, a tratti indecifrabile. Un uomo osservato e raccontato, con molto affetto ma anche quasi con timore, da un figlio che lo vede perennemente “grande”, “forte e invincibile”, “eroico anche nel dolore”. Quasi  fosse per il nostro narratore un modello tristemente irraggiungibile. 

Il padre forse potrebbe “salvarsi da solo”, e forse questa sua metamorfosi lo ha già reso qualcosa di ancora più grande e affascinante. Ma il figlio in caso contrario non sarebbe certo in grado di salvarlo, sembra dirci con dolore fra le righe. 

Allora, dopo un incipit fatto di sangue, interiora, fuoco e carne pulsante, in cui è il padre è solo lui il protagonista epico sulla scena, iniziamo a sentire tra le pagine il freddo, l’inadeguatezza del figlio. Il nuovo protagonista, anti-eroe controvoglia, della vicenda. Una piccola vicenda banale rispetto alla lotta/fusione del padre con l’agnello. Un eroe inadeguato davanti alla magia di un Minotauro. Un “narratore in disparte” che quasi non sa raccontarsi, dopo aver dimostrato benissimo di saper raccontare con gioia e tantissima attenzione suo padre . Sentiamo davvero nel figlio “l’inverno che avanza”. Lo svanire del mito dell’invincibilità paterna pesa più a lui che al genitore, che ormai viaggia in un altro livello di conoscenza del senso della vita. 

Il figlio si aggrappa alla debolissima speranza di sbagliarsi, non cadere nella depressione, provando a essere simile al padre. Ma non è facile. Nella disperata ricerca di un senso più profondo delle cose, solo immagini sfuggenti. 

Invernale si legge veloce. Le pagine sono scritte anche in grande, basta un pomeriggio. Poche pagine e che sanno però scavare dentro il lettore, anche a tratti facendolo incazzare, costringendolo a maneggiare uno dei sentimenti più difficili da apprezzare nella immedesimazione in un racconto: il senso di impotenza. 

La forma è colorata di epica, a tratti persino di horror, ma l’intreccio rimane fortemente innaffiato dalla tragica e brutale realtà. Una realtà, titanica quanto avvilente, che viene condivisa ogni giorno dalle persone e i parenti che sono costrette dalla sorte a entrare e uscire da un ospedale, sentire medici, sperando come respirando. Ogni tanto “l’inverno” arriva prima per qualche persone e anche solo la possibilità di avvicinarsi a questa umana tragedia può a molti risultare insopportabile. 

Anche per questo il libro di Voltolini è duro, qualcuno di abbastanza superficiale direbbe “banalmente duro”. Se non fosse per la straordinaria forma con cui il nostro autore sa avvolgere ogni parola, donandole la possibilità di volare in aria, leggera come i sogni e l’epica. Un’illusione di forma, come un ricchissimo affresco gotico nascosto in un monolocale in periferia. Un’illusione  amara, qualche volte dolce, ma che per me è comunque interessante leggere. 

Talk0