venerdì 30 agosto 2024

La bicicletta di Bartali: la nostra recensione del film di animazione di Enrico Paolantonio, nato da un’idea di Israel Cesare Moscati, su come lo sport sia “l’arma migliore” per superare le differenze culturali, porre fine alle guerre e cambiare la storia

Secondo il libro del Talmud: Chi salva una vita, salva il mondo intero. 

Se è possibile cambiare la vita di qualcuno anche con piccolo gesti, a volte può essere facile diventare eroi. 

Certo, serve la volontà di impegnarsi in imprese che possono essere pericolose. Serve essere consapevoli che non si avranno medaglie, se non dopo molti anni. Occorre avere come unico fine l’aiutare gli altri a cambiare in positivo il mondo e nel rispetto di tutti. È complicato. 

Ma con la loro volontà e le loro azioni, grandi o piccole, anche gli eroi più osteggiati e isolati possono dare inizio a piccole e grandi rivoluzioni, diventare “esempio”.  Se è vero che “le persone non sono cattive per indole”, ma semplicemente quando hanno paura tendono a chiudersi in se stesse, un esempio di coraggio può “risvegliare le coscienze”.

Gino Bartali (con la voce di Tullio Solenghi), uno dei più grandi e riconosciuti “eroi dello sport, non è stato “solo” uno dei più straordinari ciclisti di sempre, ma anche, in assoluto segreto, un “eroe della Storia”: un uomo che con il suo coraggio ha salvato la vita a centinaia di ebrei. Lo ha fatto con lo stesso impegno con cui si sfidava con Coppi. Lo ha fatto con la sua bici a tre rapporti, facendo più volte la staffetta da Firenze ad Assisi, superando i posti di blocco con la più semplice delle motivazioni: “mi sto allenando per le mie gare, sono Gino Bartali, mi conoscete tutti”. 

Lo fermavano comunque, lo perquisivano, non gli trovavano nulla e non riuscivano a capire cosa stesse facendo di sospetto; anche se in effetti “era sospetto”. Ci doveva essere un trucco, che ben nascosto di fatto c’era. 

Era all’interno della bici che Gino trasportava dei documenti da falsificare, per permettere alle famiglie ebree di uscire dall’Italia e salvarsi presentando carte di identità con nomi diversi. I documenti erano arrotolati nella canna del veicolo, simili a piccoli salami, legati insieme a un sistema di ganci a uncino ideato da Alberto (Richard Benitez), un piccolo meccanico delle bici. Un trucco piccolo, semplice quanto efficace. Quasi invisibile, ma che senza il coraggio di Bartali di fare avanti e indietro, rischiando che lo scoprissero, non avrebbe funzionato.

La guerra era finita, la bici fu regalata dal campione al piccolo meccanico, che anni dopo è diventato “nonno Alberto” (Augusto di Bono) e oggi vive in Medio Oriente, a Gerusalemme, non troppo distante dalla striscia di Gaza. 

La tre rapporti di Bartali rispetto alle biciclette moderne è con il tempo diventata uno strumento estremamente “pesante”, non adatto a competere. Ma rimane ancora fieramente appesa sulla rastrelliera più bella di Alberto, come un cimelio inestimabile, lucidata e riverita ogni giorno, al centro del suo negozio di bici a gestione familiare. Un negozio che ora sta per “sfornare” un nuovo piccolo campione delle due ruote: il suo giovane nipote biondo David (voce di Sebastiano Tamburrini). 

David, membro di spicco della squadra israeliano palestinese, è impegnato anima e corpo nel torneo Juniores. È quasi ossessionato dal riuscire a migliorarsi in un tortuoso quanto complesso percorso di montagna, al punto da svegliarsi sempre all’alba per inforcare la bici e affrontarlo. 

Il ragazzo è teso per la necessità di stare concentrato sul percorso per tutto il giorno, mangia poco e rincasa tardi. Si addormenta in pochi secondi, senza nemmeno avere la forza di ascoltare le bellissime storie della piccola sorellina Sarah (Bianca Donati). Per Sarah, David è già a tutti gli effetti un eroe: con carta e pastelli ama ritrarlo mentre in bici combatte contro la strada di montagna, che si trasforma progressivamente in un terribile serpente. Come un supereroe, David riesce sempre a sconfiggerlo. 

Un giorno, nella sua lotta mattutina contro il grande serpente, David incontra Ibrahim (Jacopo Cioni): un ciclista come lui, dai capelli scuri, che corre per la squadra araba. Ibrahim è veloce e forte quanto David, al punto che i loro scontri quotidiani, tesi quanto carichi di sforzo agonistico, aiutano entrambi a diventare ciclisti più competitivi e resistenti.

Sono “rivali”, ma le rispettive squadre e famiglie li vorrebbero “nemici”. Figli di culture che non dovrebbero nemmeno comunicare tra loro. Non viene accettato di buon grado soprattutto il fatto che i due inizino ad avere un forte rispetto e stima reciproca, quasi un'amicizia. Piuttosto che fargli fare “comunella”, la squadra di Ibrahim gli toglie la bici. La squadra di David, parallelamente, lo butta fuori dalla rosa impedendogli di concorrere. 

Allora David e Ibrahim, il cui impegno ha contagiato entrambe le famiglie, decidono di correre insieme. Come terzo necessario componente della squadra Ibrahim riesce a ottenere che suo cugino, che vive nella striscia di Gaza, possa avere un permesso speciale per correre con loro, solo quel giorno. 

La situazione si fa ancora più difficile. 

La montagna-serpente sulla quale ogni giorno i due si allenano viene coperta di cocci e ostacoli per farli cadere dai rispettivi ex compagni. Arriva la gara e con lei i sassi, scagliati su di loro dal pubblico. Una bici della squadra si rompe, tutto appare finito.

Ma nonno Alberto ha con sè una bici tre rapporti che anni prima aveva cambiato la sua vita è quella di molte famiglie. La bicicletta di Bartali torna così a fare la Storia.


La bicicletta di Bartali è un film di animazione che nasce da un’idea del regista Israel Cesare Moscati, purtroppo scomparso nel 2019. Moscati era un esperto documentarista, che aveva dedicato gran parte della sua vita alle storie dall’Estremo Oriente e sopratutto del periodo della Shoah: alla ricerca di racconti di vita vissuta “di frontiera”, ma anche di possibili vie d’uscita da una realtà, quella del conflitto israeliano-palestinese, che negli anni è diventata sempre più complessa quanto tragica. 

Come ne I Bambini di Gaza, il romanzo di Nicoletta Bortolotti da cui è stato tratto di recente l’ottimo film di Loris Lai, anche per La Bicicletta di Bartali il futuro della martoriata terra di confine passa attraverso lo sguardo di nuove generazioni, a cui viene permesso di guardare il mondo come bambini, anziché come piccoli soldati. Ne I bambini di Gaza un ragazzino arabo e uno israeliano si incontrano, scoprono l’amore comune per il mare e il surf, diventavano sulla stessa spiaggia, entrambi, allievi di un surfista americano. Ne La bicicletta di Bartali è ancora lo sport a unire le due culture: attraverso un linguaggio più semplice e più umano, impastato di “fatica”, sudore e rispetto reciproco. 

Un linguaggio che porta i due a guardare il mondo circostante con uno sguardo diverso: un unico circuito di gara sul quale correre insieme con la bici, in cui i confini geopolitici non hanno più lo stesso peso e dove anche i muri, compreso il terribile e sovrastante muro che divide Gerusalemme dalla Striscia di Gaza, non sono altro che un provvisorio brutto paesaggio costruito dall’uomo. Confini che possono dissolversi e essere “sconfitti” come la montagna-serpente, (seppur qui ancora e solo con la fantasia, una “dirompente fantasia”) se ad affrontarla sono due piccoli eroi che si tendono la mano e non credono più nella necessità di quei muri. 

Due eroi armati di una bici-Excalibur, la cui storia/leggenda diventa sempre più grande e coinvolgente: laddove questo “oggetto magico”, con la sua livrea ben conservata, ci racconta che le guerre, anche le più terribili, possono finire.   


Sulla base del bellissimo soggetto (e prima bozza di sceneggiatura) di Moscati, Rai Kids raduna alcuni dei suoi attuali nomi di spicco nell’animazione. Il regista Enrico Paolantonio, il chara design Corrado Mastantuono, lo sceneggiatore Marco Beretta, il background design Andrea Pucci li abbiamo infatti già conosciti e apprezzati come  autori della serie tv dedicata al fumetto Bonelli Dragonero

La realizzazione delle animazioni, che mescolano lo stile classico a quello tridimensionale, adatte a rappresentare bene le gare di bici quanto momenti onirici decisamente riusciti, sono opera in partnership dell’italiana Lynx Multimedia Factory, del gruppo indiano Toonz e dello studio irlandese Telegael.

Le musiche, evocative nella loro scelta di mixare elettrico e sinfonico, sono opera di Marcello De Toffolo. La bella canzone dei titoli di coda è firmata da Noa e Gil Dor. 

Davvero molto convincente tutto il cast vocale. 

Semplice ma incisiva la storia, nel suo raccontarsi in modo chiaro e non stereotipato, pur considerando che il pubblico di riferimento sono i bambini più piccoli. Gradevoli e chiare le animazioni, molto brillanti e carichi di colore i disegni. 

La Bicicletta di Bartali è un film per ragazzi interessante e realizzato con molto cuore, che ha esordito da poco al Giffoni Film Festival e a cui auguriamo ancora un lungo periodo nelle sale, soprattutto in ottica didattica. 

È una pellicola intelligente, semplice ma incisiva, carica di spunti sulla attualità ma in grado di far leva anche sulla fantasia e su una non banale rappresentazione dello sport agonistico. Un film particolarmente adatto a essere visto dai bambini delle elementari come dai ragazzi delle medie, che a settembre ripartiranno con il loro ciclo di studi, mentre i ragazzi che vivono in Medio Oriente purtroppo si trovano ancora in una realtà da incubo, che nemmeno anni fa Moscati avrebbe mai voluto vedere. Una realtà dura quanto tragica che la scuola ha però il dovere di raccontare e studiare, anche con strumenti narrativi ideali come questa pellicola. 

La bicicletta di Bartali è un film che guarda con rispetto al passato e racconta con ottimismo e speranza. 

È uno di quei film di cui in questi tempi abbiamo maggiormente bisogno per immaginare il futuro. 

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lunedì 26 agosto 2024

Pericolosamente Vicini: la nostra recensione del documentario di Andreas Pichler sulla storia dell’ Orsa JJ4 e quanto è successo in Trentino al tempi della Pasqua del 2023. Evento speciale al cinema il 26, 27 e 28 agosto per I Wanted

 


La sfida massima dell’uomo: riportare in vita la natura, riparando ai “danni” da lui commessi con l’inquinamento e l’urbanizzazione. 

È con questo intento, con il supporto delle migliori tecnologie e specialisti, che si è cercato, in buonissima fede, di offrire una seconda occasione a una specie biologicamente estinta: l’orso selvatico.

25 anni fa tra i boschi del Trentino furono reintrodotti 10 esemplari. 

Orsetti piccoli e bellissimi portati da molto lontano che sono usciti dalle auto-blindate utilizzando piccoli scivoli rossi, come i bambini di un parco giochi. Teneri e tutti da coccolare. Telecamere termiche, strumenti di geolocalizzazione, tracciamento tramite archivio dna, un corpo forestale ad hoc, veterinari e studiosi preposti. Con all’occorrenza calmanti, unità di soccorso, gabbie/trappola contenitive per i più “vispi”. Venti persone per seguire dieci orsi. 

Tutto il necessario, anche se forse fin dall’origine non si è pensato o è mancato un modo idoneo, a livello “didattico”, per “insegnare a uomini e orsi” degli strumenti idonei a una pacifica convivenza. 

Certo l’uomo può essere un cattivo “studente”, ma l’orso selvatico è raccontato dagli stessi tecnici (quei venti di cui sopra, che parlano attivamente nel documentario) come una creatura senza limiti, né geografici né politici. Una creatura “ancestrale”, “troppo libera” forse, per confrontarsi quotidianamente con uomini abituati “per natura opposta” a erigere da sempre barriere, muri, recinti. 

Gli orsi in Trentino si sono trovati così bene da diventare in poco tempo un centinaio, con le risorse umane e tecniche per il loro controllo che hanno iniziato a scarseggiare. In Trentino poi si vive a stretto contatto con la montagna, per l’economia come per il turismo: con la conseguenza che orsi e uomini si sono trovati davvero troppo vicini tra loro. 

Vicini nei pic-pic tra i boschi e nelle camminate all’aria aperta. Vicini sulle strade asfaltate, con il pericolo di incidenti gravi. Qualche volta l’orso arrivava vicino alle case più isolate, per una visita come Winnie The Pooh in cerca di miele. Qualche volta trovavi un orsetto che come Spiderman cercava di stare appeso ai cornicioni di una ringhiera. 

Tutte cose documentate da centinaia di video buffi, qui presenti, che hanno riempito la rete e che fino a che gli orsi erano in 10 esemplari e poco più venivano tollerate. Scenette accolte anche con ilarità, ma che moltiplicate con 100 e più esemplari “con cui non si sapeva dialogare”, diventavano un guaio. 

I locali non ne potevano più degli orsi, che fossero maschi o femmine. Gli orsi maschi erano esploratori, andavano ovunque e qualche volta prendevano animali da allevamento come snack, facendosi largo tra i pollai e le stalle in alta quota. Diventava troppo spesso con loro un affare di “sopravvivenza economica del fatturato”. Una storiaccia da recinti elettrificati o fucili spianati, magari senza cercare la “conciliazione amichevole” con i forestali”. Anzi, quando si chiedeva l’intervento dei forestali si cercava in loro per lo più una specie di “periti dell’assicurazione”, in grado di risarcire presto del maltolto. 

Con le orse femmina  forse era peggio.

Le orse femmina dovevano badare alla salute della prole, essere territoriali e nel caso attaccare qualsiasi minaccia si presentasse a loro in modo troppo silenzioso e veloce. Potevano essere una minaccia, per una mamma orsa particolarmente apprensiva, anche inconsapevoli Runner con la cuffia nelle orecchie e scarpe da ginnastica ultrasilenziose, che senza saperlo varcavano il loro “recinto immaginario”. 

C’erano stati in passato degli incontri ravvicinati pericolosi, nella Pasqua del 2023 Andrea Papi di 26 anni, runner, fu trovato senza vita in zona Val di Sole, dilaniato da un’orsa che all’esame dna rispondeva al nome di JJ4. Un’orsa anziana, una di quei primi dieci orsacchiotti portati in Trentino. Da sempre “timidissima”, ma che in passato si era già avvicinata troppo all’uomo. 

Fu il caos. 

La popolazione non ne poteva più, invocava di riportare gli orsi lontani dal Trentino, reclamava la responsabilità dei “custodi degli orsi”, nuove regole. C’è chi tra i ranger aveva seguito alcune orse dalla nascita alla morte, come capitato per l’orsa Dalida, e non voleva il “linciaggio” anche di JJ4: la condanna standard all’abbattimento in quanto “animale pericoloso”. C’erano i movimenti animalisti, che anche con veemenza e toni forti hanno cercato di trovare una soluzione intermedia. 


Pichler, sulla base di un archivio video davvero straordinario, ricco di immagini spettacolari, cariche di empatia, dolcezza quando rabbia, dà voce a tutte le parti in scena in modo equidistante, pacato, nel rispetto di tutti i punti di vista. 

Colpisce il punto di vista quasi filosofico con cui i forestali vivono a contatto degli orsi. Affascinano i racconti dei “santuari naturalistici” gestiti all’estero da volontari, dove trovano ricovero animali pericolosi ed appartenenti del circo. 

Fa quasi male la constatazione della “impossibilità pratica” della convivenza tra uomini e orsi che qualcuno avanza sulla base di esperienze trentennali.

Ci sono documenti incredibili che danno speranza, come l’incontro ravvicinato di un bambino con un orso, che finisce senza danno alcuno perché il ragazzino segue le regole corrette di comportamento alla presenza di questi animali. Ci sono le strazianti immagini del corteo funebre di Papi, con le persone che si sentono quasi abbandonate al loro destino. Ci sono le “arringhe politiche” dei movimenti pro-orso e no-orso, a tratti purtroppo identiche per urla e mancanza di empatia nei confronti “dell’avversario umano”. 

Tutto cala in un unico caleidoscopio che non perde mai il Focus di descrivere la complessità di ogni elemento. 

Un film estremamente intelligente, crudo quanto bellissimo, imperdibile.

Un’altra Gemma di I Wonder.  

Talk0

martedì 20 agosto 2024

Deadpool & Wolverine: la nostra recensione del nuovo, esageratissimo, “sboccacciato”, nostalgico e divertente cinecomic Marvel Disney, con protagonisti Ryan Reynolds e Hugh Jackman, per la regia di Shawn “Una notte al museo” Levy.


Sinossi fatta male: Essere una persona migliore per la propria fidanzata Vanessa (Morena Baccarin). Fare qualcosa di grande, utile e senza fare casini, almeno per una volta. In sintesi: “diventare un Avenger”. 

È con questo proposito che Wade Wilson (Ryan Reynolds), alias il mercenario chiacchierone Deadpool, super killer con le pistole quanto all’arma bianca, mutante con fattore di guarigione e possessore di uno strumento per fare balzi dimensionali, si presenta nell’universo 616, alla porta di Happy (Jon Favreau), comandante in sostituzione momentanea del super gruppo. 

Nell’universo di origine di Deadpool le cose non sono andate benissimo con gli X-Men, troppe incomprensioni e giochi di potere, ma nel 616 può essere tutta un'altra vita: a partire da tutine da supereroe più “sgargianti” e “di classe”. 

Certo, il curriculum non aiuta. Wade ha un passato nelle forze speciali rimarchevole ma con svariate e brutte note disciplinari. Ha con spirito aziendalista fondato un  gruppo supereroistico tutto suo, X-Force, ma alla fine il team è rimasto sterminato male sul campo, per manifesta inadeguatezza, dopo la prima missione. Non ha mai giocato in serie A ed è sicuramente un casinista, anche se volenteroso. Forse.

Happy lo rincuora come farebbe con un giocatore di baseball: partire anche nel 616 dalle “serie minori”, aspettare qualche osservatore che ogni tanto verrà a dare un’occhiata, avere costanza. Magari la prima divisione dei supereroi non è così lontana e la pacca sulla spalla, con la quale lo accompagna all’uscita, è solo un arrivederci. 

Wade incassa. 

Passa un sacco di tempo.

Il mercenario Deadpool trova presto, insieme alla sua inseparabile spalla Peter (il sempre baffuto e simpaticissimo Rob Delanay), un lavoro nel suo mondo, come venditore di auto giapponesi familiari ultra-compatte. Un giorno come un altro spegne le candeline del suo ultimo compleanno. Insieme ai suoi 9 più cari amici, tra cui Vanessa, Colosso e la amorevolmente sboccata dirimpettaia Al (Leslie Uggames), esprime un desiderio: fare, ancora, quel “salto di carriera”. 

Un secondo dopo bussano alla porta uomini in divisa eccentrica, armati, che negano di essere spogliarellisti ingaggiati per la festa. La lotta è inevitabile quanto breve, Wade finisce contro un portale dimensionale apparso dal nulla, direttamente davanti a Mister Paradox (Matthew Macfadyen) , un dirigente di zona della fantomatica TVA: la “Time Variance Authority”.  Di che cavolo di realtà fanta/aziendale stiamo parlando? 

Ce lo specificherà presto Wade stesso, direttamente a noi spettatori, rompendo la fantomatica “quarta parete” tra film e platea, nel modo più ultra-nerd e super didascalico possibile. Ci dirà: “è come succede nella puntata 5 della prima stagione della serie tv Loki”. 

I TVA non sono lì per le cretinate che Wade ha combinato in passato col suo congegno incasina-tempo, lo vogliono invece ingaggiare per volare proprio nell’universo 616 a fare l’Avenger! Potrebbe diventare “il nuovo Gesù della Marvel”. È il destino a volerlo laggiù e ci sono dei video inequivocabili della TVA che ritraggono Deadpool a fianco di Thor che piange per lui, dopo una qualche azione eroica del futuro prossimo. 

Certo deve fare fagotto e partire subito, perché il suo universo sta collassando in modo lento e irreversibile, dopo che la creatura a cui più intimamente quella realtà era legata, la cosiddetta “ancora universale”, ha smesso di esistere. Recuperato Deadpool, è possibile per la TVA pure accelerare la distruzione di quell’universo morente, usando un congegno fantascientifico come il “Time Ripper”.  Smaltire presto un universo infruttuoso, comporta un significativo risparmio di costi burocratici per chi deve occuparsene e Paradox punta a vincere un bel bonus in busta paga, se l’operazione riesce.

Wade è allettato dal futuro da Avenger quanto dalla nuova tuta e possibili pistole dorate in abbinato, ma il fatto che la realtà da falcidiare sia la sua, compresi i suoi 9 unici amici, lo rende titubante. Come crede Impossible che sia morta per davvero “l’ancora universale” del suo mondo, che dai video della TVA scopre essere una persona che conoscere da sempre. Si parla del mutante noto come Wolverine (Hugh Jackman), il guerriero semi-immortale dalla pettinatura strana,  il potere della guarigione e lo scheletro in adamantio, l’unico, vero, grande mito di Wade, l’amico/fratello/amante da lui sempre bramato, il simbolo: “L’X-Man” per antonomasia.


Wade temporeggia, usa compulsivamente il congegno per i viaggi spazio/temporali e si trova in un attimo davanti alla bara di fango di Wolverine (esattamente dove lo avevamo lasciato dopo il film Logan - The Wolverine, di James Mangold, del 2017). “L’X-Man per antonomasia” è decisamene morto e i tizi della TVA lo tallonano stretto, armati pesantemente, perché smetta di intralciare i loro piani.

Wade prova in qualche modo a utilizzare il corpo marcito di Wolverine, cercando di “collaborare con lui”, sperando che magari “si ripigli” il fattore di guarigione. Lo usa come un pupazzo contro l’esercito della TVA che intanto crivella entrambi di colpi, lo abbraccia, lo coccola, lo sprona, arriva quasi “a smembrarlo” per utilizzare i suoi famosi artigli o le sue rotule come nunchaku. La tomba di Wolverine diventa sempre più un mattatoio carico di agenti TVA sbudellati nei modi più ridicoli e grotteschi, fino a che Wade decide di andare in un’altra realtà a trovare un nuovo Wolverine, magari uno non ancora marcio. Visita diversi mondi con tantissime citazioni dai fumetti originali, fino a che incontra un Wolverine, depressissimo ma ancora “integro”, forse “il peggiore Wolverine di sempre”, ma l’unico con il quale decide di presentarsi davanti a mister Paradox, per una resa dei conti. Ma Paradox è pronto a questa evenienza e spedisce Deadpool e Wolverine in una realtà alternativa dalla quale non è facile scappare. Un  specie di universo-discarica chiamato “Il Vuoto”, comandato dalla misteriosa super telepate Cassandra Nova (Emma Corrin), che in alcuni multiversi è la sorella malvagia del Professor Xavier, il fondatore stesso degli X-Men. A guardia dell’impero di Nova, in una “Cittadella ai confini del tempo” piena di mutanti che pare il mondo di Mad Max, c’è anche una creatura ancestrale simile a una nuvola minacciosa, di nome Alioth. Alioth può divorare ed estinguere per sempre chi finisce nelle sue fauci, esattamente come nella sopra ricordata puntata numero 5 della prima serie del telefilm Loki. 

Cercando di sopportarsi e collaborare, Deadpool e il Wolverine depresso dovranno farsi largo in questo strano mondo di frontiera, fino a trovare un modo di evadere e salvare l’universo di Wade. Ma non saranno soli. Paradox negli anni ha “inviato a forza” nel Vuoto centinaia di supereroi provenienti da altre dimensioni: qualcuno di molto forte può essere ancora sopravvissuto. E da quelle parti c’è pure un intero esercito costituto solo da Deadpool multidimensionali, tutti ficcati nel vuoto a forza perché sostanzialmente “ingestibili” in ogni realtà in cui sono comparsi. 

Riusciranno i nostri eroi a salvare tutti e far crescere tra loro un legame “molto Bromance”, di sincera “amicizia virile”, come nei classici Buddy Movie anni '80 stile Arma LetaleChi sono i supereroi misteriosi sopravvissi fino ad ora al vuoto? Qualcuno sarà per caso un possibile alleato del magico duo?


La trama, “metatestualmente”parlando: in un’opera qualsiasi che “riguarda Deadpool”, il lettore sa benissimo che il nostro protagonista non si limita a vivere le sue rocambolesche  avventure, ma spesso ama intrattenersi a “discuterne attivamente” con il pubblico. Deadpool non solo è sempre consapevole di essere all’interno del film, videogame o fumetto di cui è protagonista, ma è lui stesso “un fan”. Un fan che parla senza peli sulla lingua agli altri fan, dei film e fumetti che “gli piacciono” o “fanno cagare”, di come i produttori “hanno cannato” un casting, di come li gasi aspettare l’arrivo di una certa scena-clou o una certa frase: qualcosa come “vendicatori uniti”. Esattamente come farebbe un ragazzino di 12 anni “in fissa con i fumetti”, Deadpool salta, spara e sfodera pugnali contro eserciti di nemici da abbattere, costellando ogni narrazione di esagerazioni divertenti sul fatto di “essere fighi”, dando un peso specifico a peti e rutti assortiti, giocando con le parole zozze e tutto quell’immaginario dei “film proibititi per adulti”, un po’ come gli horror che lo Zio Tibia dava negli anni '80 in estate dopo i Festivalbar. 

Deadpool è al cento per cento pruriginoso come un dodicenne, al punto che quasi sentiamo che ha indosso i calzini odorosi mai cambiati in due settimane, sappiamo senza riscontri tecnici che adora la pizza come le tartarughe ninja (per il film hanno fatto non a caso una collaborazione con le pizze giganti da scaldare in forno), ci aspettiamo che inizi a ballare e saltare per la gioia. Noi adulti cinici “sappiamo” che non prenderà mai nulla sul serio “a quell’età”, salvo poi farci ricredere: perché ogni dodicenne che si rispetti, ha un mondo interiore molto più sfumato e malinconico di quanto l’apparenza inganni. Affronta sfide indicibili con il suo corpo e la sua testa. Vive le prime terribili “cotte” e “esami impossibili di matematica”. 

I film di Deadpool sanno sempre essere esagitati e folli, citazionisti dei fumetti in modo quasi enciclopedico, come compete esserlo ai “migliori nerd”, ma in fondo anche film di cuore, film in cui si riflette spesso sulla solitudine, sulla difficoltà di trovare un proprio posto nel mondo, sull’aver fatto la cosa giusta. Anche Ryan Reynolds per proprietà transitiva è un fan dei fumetti e del cinema, nello specifico un fan degli action hero, dei fumetti quanto di Jim Carrey, di cui con tanta buona volontà cerca di seguire le orme. Ma per essere “ancora più Deadpool” e “ancora più dodicenne”, si dice che Reynolds per il suo personaggio si sia ispirato al modo di parlare e di esprimersi di un ragazzino tanto malato quanto fan di Deadpool che ha seguito tutte le riprese del primo film dall’ospedale, con entusiasmo quanto il cinico e spiazzante senso critico del mercenario chiacchierone della Marvel. Reynolds, che come moltissimi di noi dentro si sente pure, ancora oggi, un dodicenne, vestito da Deadpool va ancora gratuitamente in ospedale, a trovare bambini malati. Per confortarli, ma anche per ritrovare lì “veri eroi”  a cui ispirarsi per il suo personaggio.  

Un po’ diverso è il percorso di Hugh Jackman, che invece di diventare sullo schermo il supereroe Wolverine ha sempre preferito recitare nei musical. Si può dire che sono stati i fan e i parenti, nella sua più totale incredulità iniziale, ad averlo accolto a braccia aperte, come uno dei più amati supereroi cinematografici di sempre. Una gratitudine che lui ha ripagato, con allenamenti estenuanti, che lo hanno portato ad avere un fisico scultoreo, nonché con una interpretazione sempre impeccabile, totalmente rispettosa delle mille sfumature, anche nobilmente “drammaturgiche”, dell’eroe cartaceo. 

Il satiro e il tragico, Deadpool e Wolverine, insieme, in un mondo post atomico costruito quasi esclusivamente sulla nostalgia delle vecchie storie a fumetti e vecchi film.

Guardarli sullo schermo, insieme è come guardare un fan che incontra il suo supereroe e non vede l’ora di parlare con lui, fargli mille domande, “combattere insieme”. Ed è esaltante. 

Poi “il gioco si estende”, perché tutta l’intera pellicola e di fatto un continuo incontro del Deadpool-fan con tantissimi eroi e “cattivi” dei film di supereroi dei passato, alcuni davvero amatissimi e noti, altri quasi misconosciuti ma presenti, sia pure come piccole mattonelle, nel “pantheon” di ogni fan dei film dei supereroi che si rispetti. Personaggi da idolatrare e sbeffeggiare secondo dopo secondo, in una continua girandola di battute sarcastiche, a volte cattivissime, proprio come amano i dodicenni. 

Il film è una continua giostra di rimandi e ha un cast davvero incredibile in grado di far sobbalzare sulla sedia, ogni tre minuti, ogni amante dei cinecomics. La trama è semplicissima e come ci viene detto più volte è ispirata all’episodio 5 della prima stagione di Loki, ma la fruizione del film è linearissima e non c’è alcun problema anche se non avete mai visto il suddetto episodio. Ma visto che Deadpool & Wolverine è anche un film metà-cinematografico, Deadpool ci tiene a ricordarci ogni minuto anche la curiosa passione dell’attore di Wolverine per i musical.


Così come il film ci tiene a raccontarci anche che la storia dietro a Deadpool & Wolverine è più che altro “una trollata”: qualcosa che sarcasticamente ha più a che fare con gli addetti ai lavori e la gestione delle licenze cinematografiche dei personaggi Marvel, piuttosto che parlarci della rilettura/riadattamento di una saga già nota ai lettori. In sostanza Disney ha negli anni raccolto la maggior parte delle licenze Marvel, sostanzialmente acquisendo 20th Century Fox, anche se permangono delle limitazioni all’utilizzo di alcuni personaggi come Hulk, legato a pellicole Universal, e al “mondo di Spider-Man”, legato a Sony. 

20th Century Fox è la compagnia che ha prodotto tutti i film degli X-Men e affini, come quello di Wolverine e Deadpool, oltre che i film sui Fantastici 4, Daredevil e The Punisher: un bagaglio di personaggi e film che però Marvel/Disney non ha ancora deciso di collocare all’interno del suo “Marvel Cinematic Universe”. 

Nonostante molti film e serie tv (il secondo film di Doctor Strange, VandaWision, Marvels, il terzo nuovo Spiderman) già “strizzino l’occhio” alla prospettiva che tale “innesto” sia già avvenuto, è recente la notizia di un nuovo film sui Fantastici 4 con un inedito Pedro Pascal. 

Il “Vuoto”, episodio 5, prima serie, del telefilm Loki, rappresenta “metaforicamente” benissimo il “luogo”, burocratico/produttivo/creativo, dove i Marvel Disney ora stanno tenendo le proprietà intellettuali acquisite ma non ancora sfruttate: un non-mondo che funziona alla luce di un “multiverso omnicomprensivo”, già ampiamente sdoganato, in ragione del quale ormai “tutto è possibile”, compreso il fatto che attori diversi impersonino lo stesso personaggio in un multiverso diverso. Deadpool tutte queste cose le sa, ha visto tutti i film e conosce i retroscena produttivi, ne parla apertamente per tutto il film con zero peli sulla lingua. 

Tutto questo porta a un gioco narrativo che, proprio per il continuo rimando a storie e film del passato, sa essere sfizioso in molti passaggi, senza dimenticare che la pellicola, come da tradizione di tutti i Deadpool cinematografici, è completamente imbottita di spettacolari scene d’azione. 

Deadpool & Wolverine è decisamente il territorio ideale per un regista capace e versatile come Shawn Levy. Un regista che ha già diretto Reynolds nel divertente e “complicato” Free Guy e nel nostalgico Adam Project, nonché diretto Hugh Jackman nel molto riuscito film per ragazzi Real Steel. Un regista che soprattutto ha dato vita a quella divertentissima serie meta/storica, comica ma anche action, che è Una notte al Museo. Dei film altrettanto densi di personaggi e azione, che riescono comunque ad apparire chiari e intellegibili nel loro svolgimento grazie a un'ottima gestione dell’azione e dei tempi comici. 

Tutto questo ci porta però a una domanda…

Abbiamo un “dodicenne interiore” abbastanza “fan” di tutto questo? 


Deadpool & Wolverine è una festa e una sfilata sgargiante per quanti sono cresciuti nel mito dei cinecomics. Una occasione per “contarsi” e “applaudire malinconicamente” al passato, non dissimile dagli Expendables di Stallone/Statham se vogliamo.

Il tutto imbottito di musica ultra pop, da Madonna a Britney Spears, passando per Miley Cyrus e tanti altri gruppi melodici che forse un “confondono”, considerando l’altissimo tasso di ultraviolenza della pellicola… ma visto che è Deadpool, è tutto ok. 

A tratti un film-contenitore più che un film-contenuto:  un gioiosissimo barattolo pieno di biglie, che risulteranno più colorate, lucenti e affascinanti soprattutto a chi saprà riconoscerle, e “riconoscersi”, pensando magari a quando le aveva viste da bambino.

Tenendo fermo un punto, ossia il fatto che il film può risultare molto divertente anche per “i non addetti ai lavori”, Deadpool & Wolverine è una pellicola profondamente dall’animo antologico, che a tratti può davvero apparire criptica. Non fosse per le mille “guide alla lettura” di cui in un lampo si è riempita tutta la rete, che permetteranno, a tutti coloro che volessero farlo, di orientarsi senza che io qui debba farvi alcuna anticipazione sulla trama. Magari qualche scena particolarmente evocativa porterà lo spettatore all’idea di leggere il bellissimo fumetto da cui “è tratta” e questo non può essere che un bene, per la cultura fumettistica in genere. 

Torniamo però al punto di partenza: Deadpool & Wolverine è un film per chi, parafrasando il Pascoli, ha un “fanciullino (dodicenne)” dentro di sè. È un film pieno di allusioni sessuali in modo compiaciutamente, infantilmente divertito (quindi a conti fatti comunque abbastanza innocuo). È un film ricchissimo di splatter e smembramenti continui degni del primo Peter Jackson. È un film che parla il linguaggio nerd quasi senza ritegno, quasi fosse una lingua in codice klingon. Si può essere affascinati o allontanati da tutto questo, specie se non ci si sente più abbastanza dodicenni in piena esplosione ormonale ed emotiva. Forse, se si è troppo adulti, la visione del film, comunque consigliata, può far riemergere qualche antico brufolo pre-adolescenziale.

A tratti le parolacce sono così creative ed eccessive che sembra di riascoltare i dialoghi italiani di inizio anni '80 di pellicole come Goonies di Donner (non a caso un tizio che ha diretto Superman, il cinecomics per eccellenza), così per un attimo si torna davvero dodicenni. 

Tutti gli attori sulla scena sembrano essersi divertiti un mondo da puri dodicenni, soprattutto  alcune “glorie del passato” che sono riuscite a tornare ancora in ottima forma nel loro costume di scena. Sorridenti e cool, come da “protocollo Deadpool”. 


I combattimenti, fiore all’occhiello a cui ci ha abituato la serie fin dal suo esordio, sono sempre originali quanto ricchi di stile e assurdità. Soprattutto non hanno subito alcun tipo delle temutissime “censure/ammorbidimenti” che si paventavano nel passaggio alla produzione Disney. Si passa da scontri mortali e dai vaghi risvolti etilici all’interno di micro auto giapponesi compatte, a lotte campali contro centinaia di Deadpool che risorgono in continuazione come zombie tra autobus e città devastate. Ci sono mostri giganti che evocativamente cancellano tutto come tornado e scene in cui Wolverine deve necessariamente girare “a torso nudo”, per le fan storiche. Di più, il film vuole ricreare alcuni “confronti storici” dei fumetti, ricreare sulla scena alcune copertine famose dei volumi, giocando anche sulle “variant” delle copertine originali. La villain, interpretata dalla brava Emma Corrin, è abbastanza funzionale alla trama ma nel divertimento generale non sfigura. 

La trama in sè, ispirata sempre e solo al summenzionato episodio di Loki, è più che altro una specie di “pista di biglie”, sulla quale far correre e scontare tra loro i personaggi-biglia, le loro battute e folli acrobazie di ogni genere.

Ci si diverte, scende una lacrimuccia, gran parte del pubblico in sala potrà sentirsi magari unito come un unico felice branco, chi ha dei dubbi può andare in rete e passa la paura e magari viene la voglia di leggere un fumetto che non si conosceva. 

Non c’è niente di meglio, specie in confronto ai film supereroistici dell’ultimo periodo: la pellicola è un puntuale omaggio alla mitologia di Wolverine come di Deadpool. Casinista, sanguigna, ma con un piccolo, significativo e ricercato, tratto malinconico.

In questa calda estate, se cercate un film divertente quanto supercitazionista, sapere quindi cosa fare. Tornare dodicenni non è mai una cosa troppo brutta, se è per un paio d’ore. 

Portate in sala fazzoletti per un paio di tattiche scene che vi anticipo saranno molto commoventi.

Non dimenticate la crema anti-brufoli.

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martedì 6 agosto 2024

Hit Man: la nostra recensione della commedia nera di Richard Linklater con Glenn Powell e Adria Arjona


America dei giorni nostri, stato di New Orleans. Gary Johnson (Glenn Powell) è un professore di filosofia e psicologia del liceo, sulla quarantina, dall’aria compassata e forse anonima. Poco appariscente e solitario, incatenato a una vita ordinata e routinaria senza prospettive, vive solo con due gatti, che freudianamente ha chiamato “Ego” e “Es”. Ordinario in tutto, Gary ha un secondo lavoro/hobby che ogni tanto gli regala qualche emozione: aiutare la polizia locale nelle intercettazioni ambientali. 

Cura che i microfoni funzionino e registrino, nella piccola sala operativa costruirà all’interno di un anonimo furgone bianco. In genere il furgone si posiziona davanti a una tavola calda, mentre un agente sotto copertura entra nel locale e prende i contatti con un particolare tipo di persona: qualcuno che vuole assoldare un killer. 

Tutta New Orleans pullula di persone disposte a ingaggiare un killer a pagamento per le ragioni più disparate. I più insicuri “chiedono in giro” e magari chiedono alle persone “sbagliate”, magari delle “talpe” che lavorano per la polizia, con la conseguenza che si trovano in queste tavole calde piene di microfoni. 

Il “cliente” concorda con l’agente che si finge killer un bersaglio da eliminare, avviene un trasferimento di denaro, a mano o su di un conto, un minuto dopo, all’uscita del locale, arriva l’arresto. Con intercettazioni e avvenuta prova di pagamento di un sicario, la polizia può incriminare il cliente come mandante di un omicidio che non si compirà mai. 

Qualche volta “la trappola” non funziona, per giudici troppo teneri che considerano i mandanti in fondo come vittime, tenendo conto di possibili “ripensamenti tardivi”, “stati di necessità, “insensibilità dei finti sicari” nell’estorcere un “contratto”.

Ma il gioco va avanti da anni. 

Gary fa la sua parte controllando che l’accordo economico si senta bene ai microfoni e questo è quanto; almeno fino a che il poliziotto sotto copertura Jasper (Austin Amelio) deve essere sostituito all’ultimo minuto. Gary accetta. È la cosa più fica che la vita gli ha regalato finora. Truccato pesantemente, con la bozza di una storiella dell’ultimo minuto da raccontare in testa e un microfono nascosto sotto la camicia, l’insegnate di filosofia va in scena nella tavola calda. 

Ha l’aria giusta, affabile e non giudicante: “professionalmente truce”. Elenca convincenti quando rodati modi di eliminazione e smaltimento del corpo, tramite ecosostenibili squali o coccodrilli. Esprime cura nel dettaglio, trasuda esperienza. 

Convince. 

Più di Jasper, che ora è ridotto controvoglia quasi in pre-pensionamento. Gary fa arrestare il cliente, passa con disinvolta al nuovo cliente. Frequenta “professionisti del ramo” per carpirne tutti i seguenti e fascino, colleziona un numero infinito di  barbe finte e parrucche, denti prostetici e lenti a contatto colorate, si crea personalità diverse e accenti diversi per ogni nuovo incarico. Ogni tanto come extra si pone come amico, confidente, in qualche caso pure un po’ psicologo. Fare il finto killer gli piace, anche perché è ogni volta una piccola vacanza da se stesso. 

Purtroppo un giorno trova qualcuno che gli piace più del suo nuovo lavoro: una bellissima donna maltrattata dal suo compagno, di nome Madison (Adria Arjona). Madison gli appare alla solita tavola calda, mentre “impersona” un killer molto sicuro di sé di nome Ron: un uomo dai modi sexy e quasi sfrontati, all’opposto di quello che l’insegnante di filosofia è stato nei suoi trent’anni di vita.

Gary/Ron prima si commuove e poi si innamora. Capita lo stesso a Madison, in pochi minuti. Il finto killer fa di tutto perché Madison ci ripensi e non lo assoldi, di fatto facendo saltare la “trappola” della polizia, ma al contempo inizia, “come Ron”, una pericolosa frequentazione con lei, all’oscuro di tutti e di tutto. Entrambi amano i giochi di ruolo, “travestirsi” sembrando altre persone, improvvisare vite alternative. Una coppia perfetta. 

Jasper, in cerca di riavere il suo posto, è però sempre con il fiato sul collo del professore, alla ricerca del suo primo errore. Anche il manesco marito di Madison è sempre dietro l’angolo: il fatto che Gary/Ron non lo abbia ucciso non ha aiutato molto. La vita di Gary, “come Ron” e al fianco della bellissima Madison, diventa sempre più pericolosa quanto eccitante. Fino a che le parti si scompiglieranno di nuovo e la coppia dovrà decidere, definitivamente, che “ruolo interpretare” nella propria vita. 


Torna al cinema Richard Linklater, il geniale autore di pellicole di culto come la “trilogia romantica” di Before Sunrise (Prima dell’alba), la fantascienza di Dick a cartoni animati per adulti A Scanner Darkly, il film “generazionale per antonomasia” Boyhood (girato con gli stessi attori nell’arco di 13 anni), la divertente commedia musicale (poi diventata a tutti gli effetti musical) School of Rock

Ogni film di Linklater costituisce una nuova “scommessa vinta”, su quanto possa scavare nei molti generi della settima settima arte, pur rimanendo sempre fedele a se stesso, con il suo umorismo e le sue ossessioni e sogni. Linklater ci racconta di amori eterni che nascono e finiscono nell’arco di una notte, di bambinoni che non hanno mai smesso di sognarsi rockstar, di uomini che si nascondono tra mille maschere pur di sopravvivere al mondo e darvi un senso. 

È un autore incredibilmente “leggero” nella costruzione di una trama, quasi “per tutti”, ma che sa essere al contempo molto dettagliato, quasi psicanalitico, nel tratteggiare i tanti piccoli dettagli con i quali sono costruiti i suoi anti-eroi. 

Dettagli piccoli messi lì sullo sfondo per chi ha voglia di coglierli, trasformando ogni visione di un suo film in una riscoperta, una prospettiva sempre diversa. 

Qui Linklater scrive a quattro mani con il protagonista del film, un Glenn Powell sempre più bravo, divertente quanto lanciatissimo nel ruolo di nuovo divo di Hollywood, nelle sale anche con il blockbuster estivo Twisters.  

Powell lo abbiamo spesso visto come un “mascellone” da action hero, perfetto nei ruoli da militare come da torvo villain dalla scarsa empatia, forse al massimo della forma giusto  la versione discount dell’Ice Man di Val Kilmer in Top Gun: Maverick.

Come Charlize Theron per essere “credibile” in Monster ha dovuto mettere da parte il suo fascino da eterna modella di Vogue, per impersonare il dramma umano di una persona comune, Linklater scava qui la mascella quadrata di Powell, smussandola quasi con foga. 

I primi “colpi di scalpello” sono quasi inquietanti: Powell, spogliato del sex appeal e inarcuato nella camminata, nei panni dimessi dell’insegnante di liceo Gary, sembra quasi il serial killer Jeffrey Dahmer. È naturalmente il regista stesso a giocare con questa somiglianza, che di colpo ci rende “invisibile” una delle star più sexy di Hollywood, ce lo fa apparire “strano e solo”, “pericoloso”, “ambiguo”. Un altro “mostro” che ha bisogno di maschere per sopravvivere.  


Poi Linklater mette a fianco di Powell un'attrice bellissima come Adria Arjona: una femme fatale travestita da vicina di casa carina, grazie alla quale la storia da farsa si trasforma in thriller sexy, un lungo “gioco di ruolo”, tra travestimenti e trasgressione con momenti anche alla Adrian Lyne. Il personaggio di Madison è incasinato quanto quello di Gary e allora sboccia l’amore, sulla base di un “linguaggio comune”, una complicità “sull’arte di mentire” che sa trasformarsi in duetto, reinventando tutto il mondo che sta intorno alla coppia. 

Bugia dopo bugia, come bacio dopo bacio. 

Come il mondo interno che si trasformava in un “dialogo a due” in Prima dell’albaLa pellicola qui sembra iniziare quasi a “pensare di testa sua”: sono i personaggi a volerla portare avanti romanticamente a loro modo, anche se la trama da farsa, con buffi travestimenti e gag, vuole a tutti i costi diventare un noir serissimo, pieno di sangue vero e morti, dove le scene sentimentali “non sono più previste”. 

Una pura invenzione narrativa, una follia a due geniale fino all’epilogo che mette in luce le grandi capacità espressive dei due attori protagonisti, così spontanei e convincenti che sembrano quasi improvvisare ogni loro battuta. Un’ottima prova d’attori in un film dall’animo mutante ma sempre divertente, ben ritmato, tenero quanto terribile, buffo quanto cinico. 

Un film dell’identità perennemente nascosta, ispirato da una vicenda incredibile quanto autentica: un articolo, pubblicato sulla rivista Texas Monthly nel 2001, scritto da Skip Hollandsworth. La storia vera su un finto killer operativo tra il 1980 e il 1990, un insegnante comune che forse voleva fare l’attore, diventato per caso l’asso nella manica della polizia locale.

Una storia che parla soprattutto dell’incredibile numero di persone che in America in quegli anni erano disposte a trovare un killer che potesse in qualche modo “cambiargli la vita”, a volte anche in ragione di una giustizia che non funziona, con il risultato che la giustizia così funzionava benissimo nei loro confronti. 

Linklater ci tiene molto a raccontarci anche i sogni infranti dei tanti piccoli “clienti” dei falsi Killer: un caleidoscopio umano spesso tragicomico, a volte dai tratti grotteschi ma più spesso dal volto umano quanto disperato. Un piccolo popolo di infelici esasperati trattati dal mondo con “buffa amarezza”. Le indovinate musiche di Graham Reynolds e la fotografia solare - quasi accecante di Shane F. Kelly ci raccontano un “sogno americano” ormai agli sgoccioli, vicino quasi a un western moderno crepuscolare come Non è un paese per vecchi dei Coen.  

Hit Man conferma ancora una volta la grande capacità di Linklater di raccontare storie umane complesse, sopra le righe quanto profondamente autentiche, storie gentili quanto disperate.  

Powell e la Arjona sono bravissimi e la chimica che si è sviluppata sul set tra i due è quasi palpabile, ma anche il resto del cast svolge un ottimo lavoro. 

Linklater si conferma un regista unico, originale quanto profondo, spesso troppo poco considerato e riconosciuto per il suo talento poliedrico. Chissà dove ci porterà la prossima volta. 

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