mercoledì 18 giugno 2025

Black Bag: la nostra recensione del nuovo thriller firmato da Steven Soderbergh, con protagonisti Cate Blanchett e Michael Fassbender

 


Una Londra dei giorni nostri è sempre la casa degli 007 e dell’MI6 (il cui capo ha qui il volto, non a caso, di Pierce Brossnan).

Gli agenti segreti vivono costantemente tra bugie e negazioni, in ragione della difesa di un superiore “bene comune” in virtù del quale si può dire e fare di tutto, invocando a giustificazione anche delle cose più turpi il termine “Black Bag”. Questo zelo verso l’onestà assume la forma di una specie di  “malattia professionale”, in seguito alla quale gli agenti diventerebbero persone sempre più incapaci di resistere all’interno di una qualsiasi relazione basata sulla fiducia reciproca. Una eccessiva fedeltà verso il partner viene di conseguenza considerata in questo mondo distorto un “vulnus”, un punto debole di cui il nemico può facilmente fare uso. In questo clima, anche solo realizzare “una sera a casa di amici” non può che essere una situazione con ovvi secondi fini contro-spionistici. 

Una “serata di divertimento e giochi”, in compagnia della coppia formata dall’austero specialista degli interrogatori al poligrafo George (Michael Fassbender) e dalla lunare dirigente di alto livello Kathryn (Cate Blanchett). Una cena a sei, a casa di George. 

Questa è la singolare “proposta dell’ultimo minuto” a cui devono far fronte due coppie di agenti più giovani. Una coppia è formata dalla irritabile e umorale specialista al controllo satellitare Clarisse (Marisa Abela) e dal narcisista e cinico agente Freddie (Tom Burke). L’altra è formata dall’infantile e rancoroso agente operativo James (Rege’-Jean Page) e dalla infelice e gelida psicologa Zoe (Naomie Harris). 

Tutto il ricco menù è opera delle mani esperte di George: con una pietanza in particolare piena di una droga simile al siero della verità che toglie inibizioni e aumenta l’aggressività. 

George con i suoi manicaretti sta guidando a quel tavolo di un bellissimo soggiorno signorile, una delicatissima e pericolosa “caccia alla talpa” dalla quale dipende tutta la geopolitica futura. Le persone sedute accanto a lui, compresa sua moglie, sono tutte finite su una lista che le ritiene possibili traditrici del loro paese. Uno di loro nello specifico avrebbe venduto a dei dissidenti russi una arma di nome “Severus”: un virus informatico in grado di far esplosioni a distanza il nucleo di una centrale nucleare, forse vicino al Cremlino, forse dando inizio così alla Terza Guerra Mondiale. 

George è un uomo così composto e calcolatore da sembrare quasi una macchina. Scruta ogni dettaglio, detesta chi mente quanto trovare le più piccole macchie che rendono un vestito da sartoria sporco. Il suo metodo investigativo è simile al suo modo di pescare all’alba sul lago. Per attirare le sue prede ama creare “stimoli emotivi” come preparare ogni singola azione. Lancia l’amo lontano per poi lentamente avvicinarlo: come riavvolge il mulinello “rielabora” nella sua mente ogni risposta incerta, distratta e forse colpevole di chi inevitabilmente verrà pescato in fallo. 

Per dare brio quanto stimolare risposte violente, per la serata ha preparato un gioco di gruppo: ognuno dei commensali dovrà esprime “cosa si augura” per la persona che siede alla propria destra del tavolo. 

Le droghe hanno subito effetto e rivelano segreti fin troppo intimi, anche per le spie. I sorrisi si fanno in pochi minuti tirati, gli occhi e le frasi sempre più cattive. Emergono insoddisfazioni sul piano sessuale, tradimenti malcelati e discriminazioni per l’età o il carattere “troppo debole” del proprio partner. Il gioco e la serata terminano con qualcuno che si prende una coltellata nell’ego e pure al centro della mano. Ferite superficiali che arrivano forse “troppo presto”, ma da cui George ha capito qualcosa di importante sulle fragili dinamiche di ogni coppia. Può da qui iniziare a intessere nuove trappole e strategie, di sorveglianza e ricatto, per mettere nuovamente alla prova tutti i presenti.

George saprà farsi prestare i super tecnologici “occhi satellitari” e arrivare fino ai più classificati contatti del MI6. Fino a che l’agente, spinto verso più vicoli ciechi, inizierà a dubitare anche delle più piccole certezze che da sempre lo hanno guidato, nella vita e nel lavoro. E dire che in passato, nel nome della lealtà e della patria, non si era fatto problemi neppure a rovinare la vita e carriera di suo padre. Facendo emergere un suo scandalo sessuale nel mezzo di una festa di compleanno: foto di amplessi proiettate nel filmino del taglio della torta.

Kathryn inizierà allo stesso tempo a preoccuparsi per per il suo uomo: la numero 2 dell’MI6, con tutto il suo potere e influenza, pari intensità e ossessione, dimostrerà forse come il “vero amore tra agenti”, ai tempi delle Black Bag, abbia per fondamento inevitabile una cappa di infinite suggestioni paranoidi atte a preservare il rapporto.  

Riuscirà George a fidarsi di Kat al punto di essere disposto, come chiede di prometterle, anche “ad uccidere per lei”? La “tenuta” delle altre due coppie sarà più funzionale agli interessi del partner o al bene del proprio paese? 


Lo sceneggiatore David Koepp è una autentica leggenda di Hollywood. Per Spielberg ha adattato il Jurassic Park di Crichton, scritto i più recenti Indiana Jones e La guerra dei mondi. Per De Palma  ha lavorato su Carlito’s Way, il primo Mission: Impossibile e Omicidio in diretta. Per  Howard ha adattato i romanzi di Dan Brown:  Angeli e Demoni e Inferno. Ha dato vita a una nuova versione del Jack Ryan di Tom Clancy per Branagh, per Zemeckis ha scritto La morte ti fa bella e ha adattato anche opere tratte da Stephen King. Per i fan degli action anni ‘80 ha scritto pure il piccolo (s)cult Arma non convenzionale.

Nel 2024 lavora con Stephen Soderbergh a Black Bag e in contemporanea al thriller soprannaturale Presence, tra poco nelle sale.

Con Black Bag Stephen Soderbergh sembra quasi tornato ai temi del suo esordio con Sesso, bugie e videotape del 1989. Dinamiche di coppia funzionali e disfunzionali, intriganti, qui “ricoperte” di un grande fascino da spy movie e “rese preziose” da una messa in scena divertente, ricca di un suggestivo “senso tragico”. C’è l’azione, i “giochi di prestigio” degli spy movie, ma Soderbergh vuole inchiodarci a quel tavolo, come fosse un fulcro dell’universo.

Il regista che più di tutti ha fatto del ritmo e del montaggio incrociato una delle sue principali cifre stilistiche, ormai da anni sta infatti cercando, da vero iconoclasta, di smarcarsi da una definizione/etichetta che sente per lui troppo “opprimente”.  Black Bag, per il modo in cui “inchioda sulla scena” e sempre al centro dell’azione i personaggi, non sfigurerebbe a teatro. La telecamera quasi non si muove, se non con piccolo “voyerismo”. I caratteri si rivelano attraverso un ricco linguaggio non verbale e dialoghi particolarmente brillanti. Ogni spettatore diventa a suo modo un detective e rimane afferrato al racconto dall’inizio alla fine. È sempre un film di spie, anche se i duelli con le armi da fuoco fanno forse meno male di velenosissime e non meno “mortali” invettive. Ogni dialogo, dal più ingenuo al più tecnico/tecnologico, dal più sarcastico al più psicanalitico, sa trasformarsi in una vera e propria “arma”. Qualche volta sembra di assistere a una variante da 007 di Perfetti Sconosciuti di Paolo Genovese e il gioco funziona bene soprattutto in quei frangenti. 


Ottimi tutti gli interpreti, che qui felicemente e con autoironia, in un modo gioiosamente meta-cinematografico, sembrano portare sul set qualcosa dei loro ruoli del passato. 

Fassbender, che forse non riesce ancora a “togliersi la maschera” del gelido robot David di Alien Covenant, regala al suo George un sincero e profondo, quasi goffo, “smarrimento”. 

Blanchett con la sua Kat prova a essere “intima e sensuale”: gioca con sguardi intensi, ma sembra non riuscire a togliersi quella “avvenenza maestosa ma fredda”, che la ha pluri-celebrata negli anni come regina degli elfi (Il signore degli anelli), poi regina di Inghilterra (Elizabeth), donna forte al comando (Tar), dea norrena (Thor Ragnarok), addirittura “reincarnazione spirituale” di Katarine  Hepburn (The Aviator) e pure “il femminile” di Bob Dylan (Io non sono qui). 

Fassbender e la Blanchett in questo gioco di rimandi, vizi e difetti sanno trasmettere a pieno ogni emozione, sfumatura e sfuriata delle loro complesse e complessate spie. Creature machiavelliche e manipolatorie, “glaciali” per natura (lui) o anche sono per estetica (lei), ma in fondo umanissime e umanamente adorabili in quanto legate tra loro da un sentimento autentico. Un sentimento che, goffamente, non riescono a dichiararsi senza “esternazioni inquietanti” che sotto l’occhio divertito di Soderbergh e la penna precisa e irriverente di Koepp ci paiono degne di Gomez e Morticia Addams. Personaggi che le costumiste Sarah Bosshard ed Ellen Mirojnick, giocando con i noti cliché degli spy movie, rendono quasi bartoniani, quasi a livello del Gru di Cattivissimo Me: ci si affeziona, nonostante, tutti i terribili intrighi, doppi giochi e complotti internazionali in cui finiscono dentro durante tutta la vicenda. Li adoriamo anche quando snocciolano un ricchissimo gergo spionistico così soverchiante di sigle e tecnicismi da risultare “esagerato”, ma che lo sceneggiatore Koepp sa rendere sempre giocosamente  credibile. Dettagli infiniti uniti a una ottima prova di tutto il cast che rendono Black Bag originale quanto stimolante per più visioni future. 

Black Bag mette in scena il modo in cui una crisi di coppia sia in grado di trasformarsi in crisi internazionale.

La nuova impostazione “teatrale” di Soderbergh diverte e conquista, forse strizzando felicemente l’occhio ai Perfetti Sconosciuti di Genovese. 

Ottima la messa in scena, brillanti e sempre ricercati e ammiccati i dialoghi, bravissimi tutti gli interpreti coinvolti. 

Soderbergh firma un altro piccolo capolavoro. 

Talk0

lunedì 16 giugno 2025

Lilo e Stitch: la nostra recensione del live action Disney diretto da Dean Fleischer Camp

Lilo (Maya Kealoha) è una bimba orfana che vive nelle isole Hawaii dei giorni nostri con la sorella Nani (Sydney Elizabeth Agudong). Perspicace, sensibile ma risoluta, ha amici “particolari” come il pesce Pudge, a cui spetta un sandwich ogni giovedì, e compagne di scuola non sempre “allineate” alla sua visione del mondo.

Stitch è l’esperimento generico alieno, in numero 626. Per vari motivi è stato ritenuto “pericoloso” e per questo viene esiliato sulla Terra, un pianeta il cui 71% è formato da acque, quando l’acqua per lui è una specie di kryptonite per Superman. Per pura fortuna, dopo essere scappato su una navicella rossa (la mia mamma dice sempre “5 lire in più ma rossa”… come darle torto), si salva atterrando sulla terra, proprio alle Hawaii. Il suo creatore, il dott. Jumba Jookiba (doppiato in originale da Zach Galifianakis), si offre volontario per recuperarlo. Ma la Terra è un pianeta insidioso, per cui viene accompagnato da Pleakley (Billy Magnussen), super esperto del pianeta e amante delle zanzare. 

Lilo e Nani si barcamenano in quella che potrebbe essere una vita “normale” ma, purtroppo, senza grandi risultati… indi per cui l’assistente sociale che li ha in gestione (Tia Carrere), per l’affidamento a estranei della sorellina più piccola, indica delle azioni correttive per fare in modo di non separare le due sorelle, magari facendosi aiutare anche dalla vicina di casa.

Lilo e Nani si promettono di esserci sempre l’una per l’altra, che le cose sarebbero presto migliorare. Quale migliore auspicio di una stella cadente per esprimere questo desiderio? La stella cadente, in realtà, è la navicella di Stitch che arriva sulla terra… 

Ed ecco che Lilo e Stitch si incontrano… magari un “cagnolino” può aiutare Lilo a sentirsi meno sola e l’esperimento 626 viene di fatto scambiato per una strana specie di cagnolino… e da lì ecco partire le avventure del film!


Live action che riprende a grandi linee il favoloso cartone animato che quest’anno compie 23 anni, ma talmente adorabile che sembra uscito un mese fa. Tra gli attori “in carne ed ossa” si segnala la brava bambina esordiente Maia Kealoha, davvero molto tenera nell’impersonare la piccola Lilo. Come “chicche” per gli appassionati, in nuovi ruoli, ritornano Tia Carrere (nota per la serie tv Relic Hunter) e Jason Scott Lee (Dragon, Mowgli). La prima nel cartone era la voce di Nani e qui diventa l’assistente sociale. Il secondo era la voce originale del ragazzo di Nani e qui è nei panni di un ristoratore. Il regista Dean Fleischer Camp, ma soprattutto gli sceneggiatori, si prendono alcune libertà che, rispetto al cartone,  lasciano a tratti lo spettatore un po’ stupito. Tra queste si segnala una particolare “invadenza” della vicina di casa, personaggio del tutto nuovo e forse poco centrato, ma ciò che più dispiace è  l’assenza della figura e della musica di Elvis Presley, che nel cartone diventava un vero e proprio “modello comportamentale” per “trasformare in un buon terrestre” il piccolo Stitch. Il ruolo della CIA diventa ancora più centrale nella vicenda, mentre il mitico e carismatico cacciatore di taglie spaziale non è più presente nella trama. 

Alcune scene sembrano non rispettare una narrazione lineare e lo spettatore purtroppo può trovarsi spaesato durate la visione. 

Buono il comparto effetti speciali, che da vita a una “versione live action” particolarmente riuscita di Stitch: coccoloso ma narrativamente molto più “cattivello” di quanto ci ricordavamo. 

Interessante l’idea della trasformazione dei personaggi alieni in attori in carne ed ossa: un Zach Galifianakis in particolare stato di grazia ed un simpatico Billy Magnussen. 

Film adatto ad una serata coccolosa con la famiglia. Anche se il cartone ha degli insegnamenti e dei momenti di commozione che il live action non riesce a toccare. 

B-Gis.

domenica 15 giugno 2025

Milarepa: la nostra recensione del film “spirituale” di Louis Nero

Ci troviamo in un luogo alla fine del tempo: un’isola ai confini di un mondo futuro diventato desertico, medioevale, pieno di miseria e complotti, maghi e streghe.

Qui le donne non hanno più il diritto di leggere o studiare, si occupano di campi rinsecchiti e vivono all’ombra di stazioni ferroviarie in disuso, aspettando di essere sposate per suggellare patti di potere. Un giorno il nobile capo di un villaggio, padre di due figlie, viene colpito gravemente in un agguato. Le ultime disposizioni sono che gli zii succedano al comando, fino a che la sua figlia più grande, Mila (Isabelle Allen), sarà in età da marito. Ma gli anni passano e i patti non vengono rispettati. La madre (Iazua Larios) e le due figlie vengono cacciate dal palazzo insieme al nonno Oyun (Frank Murray Abraham). La madre vuole vendetta, taglia i capelli di Mila come quelli di un maschio e la manda a studiare arti oscure, che le permettano di distruggere con la mente i palazzi e rendere aridi i campi usurpati. Sotto la guida del saggio Yuguntun (Hal Yamanouchi), Mila impara la scienza e i fondamenti della magia, forse sogna per sé un futuro felice, ma la vendetta che reclama a gran voce la madre la porta a diventare agli occhi di tutti un’arma spietata: una strega.

La ragazza scopre di essere potente ma al contempo si macchia di colpe indicibili. Cerca il Lama Marpa (Harvey Keitel), per arrivare a una crescita spirituale che la renda ancora più forte. Ma la guida, trattandola come un manovale, non fa altro che chiederle di costruire e distruggere torri, senza mai farla accedere alla sua sapienza.

La ragazza cade presto in un vortice di disperazione, dal quale può forse uscire grazie all’aiuto di un misterioso viandante (Franco Nero).

 


Arriva a otto anni di distanza da The Broken Key il nuovo film di un autore originale, “spiazzante” e profondo come Louis Nero. Nero ha uno stile registico che può ricordare, per suggestioni/assonanze visive, ricchi costumi e intrecci dal sapore di favola, il Pasolini più esoterico. Gira spesso in low budget, ricercando e ricreando un senso di fantastico che gli viene offerto dalla rielaborazione, con fotografia ed effetti visivi, di scorci reali e celebri dell’Italia dei giorni nostri. Crede a un’idea di cinema senza confini e sul set predilige la lingua inglese e dialoghi semplici, quasi religiosi. Tratta temi che spaziano dal fantasy (Golem) alla psicanalisi (Hans), affondano nelle radici della multiculturalità (Il mistero di Dante), sfiorano la fantascienza unita al sacro (The broken Key). Sono molte le star internazionali che, nel tempo, sono state attirate dal suo talento, anticonvenzionale quanto “alieno” da molte meccaniche produttive ritenute ormai “standard” nella settima arte. Louis Nero offre per questo un cinema profondamente autoriale e difficile, volutamente “imperfetto” e non adatto ai giusti delle ampie platee. Per qualcuno risulta davvero bizzarro se non forse “troppo fuori standard”, ma Lous Nero riesce a essere un artista sempre ricco di suggestioni e passione.

Non fa eccezione questo suo ultimo lavoro, che racconta e reinventa in una chiave nuova, “femminile”, la storia di un mistico tibetano dell’anno 1000, rimmaginandolo in un luogo futuro/apocalittico che Nero ha ricercato per due anni tra i paesaggi, i colori e i canti corali della Sardegna. Come sempre sul lato visivo l’autore sorprende e affascina, qui per un grande lavoro di ricerca volto a mettere in assonanza, tra Oriente e Occidente, la “funzione” di alcune costruzioni del passato: come nuraghe che si trasformano in tombe tibetane. Anche i canti della tradizione corale sarda sanno mischiarsi in modo suggestivo con le litanie tibetane.

Sul lato narrativo il discorso è diverso e più complesso.

La storia del mistico Milarepa (raccontata anche da Jacques Bacot in un libretto per la collana Adelphi) è una vicenda che aveva colpito e appassionato il regista fin da quando era un ragazzo di 20 anni (quell’età magica in cui anche il Siddhartha di Hermann Hesse affascina tanti lettori), andando a influenzare i suoi studi sui miti e le religioni antiche. Nel 2025, in un periodo in cui sentimenti come la rabbia e la vendetta sembrano esplodere su tutto lo scacchiere mondiale, inasprendo ogni relazione umana, Nero ha sentito l’urgenza di portare in sala un adattamento del racconto che invitasse il pubblico a “superare la rabbia”, accettando la spiritualità e la meditazione come una vera e propria cura dell’animo umano.

Un progetto ambizioso, quasi “sciamanico”, pur con qualche licenza in molti passaggi vicinissimo alla storia ufficiale. Una storia simile a una favola oscura che prende la forma di un viaggio unico, curioso e strano. Sulla scena; temi come la morte e la rinascita, l’immenso ma effimero potere offerto dalla vendetta, il duro e amaro cammino verso il perdono di sé stessi.

Nero decide di giocare con tanta, troppa mitologia e simboli, spesso a discapito di una direzione degli attori più chiara, di un montaggio più sintetico. Nella messa in scena, per precisa volontà dell’autore, i personaggi spesso risultano “rigidi”, “straniti”: quasi fossero racchiusi in una gabbia simbolica troppo impenetrabile, che rende difficile empatizzare con loro.

Isabelle Allen dà vita a un personaggio che dovrebbe vivere di molte trasformazioni, ma che per una ricercata fissità espressiva risulta quasi assente. Il Lama di Harvey Keitel è così trattenuto e indurito da sembrare una statua, anche quando dovrebbe portare alla luce la forte contraddittorietà delle sue azioni: cambia umore e viso all’istante, quasi fosse un giano bifronte. Ogni relazione umana diviene di conseguenza un processo estremamente meccanico, più simile a una preghiera che a un dialogo.

Tuttavia, proprio questo “senso di alienazione” rende i personaggi di Nero particolarmente affascinanti, inconsueti.

Così come il film vuole essere a modo uso esattamente una “preghiera”, al punto che dal 19 giugno sarà proiettato in 100 sale in accordo con associazioni legate allo Yoga e alla Crescita Spirituale. Insieme alla visione, saranno organizzati momenti di riflessione e meditazione collettivi.

Siamo nell’area della “lezione” più che della “rappresentazione”, del “racconto corale” più che del cinema nella sua forma più canonica. Uno spettatore non adeguatamente preparato può rischiare di perdersi tra mille domande e uscire magari sconfitto dalla visione, “insoddisfatto” da un messaggio che può non essergli arrivato con la dovuta chiarezza. 

Ma se ricercate un film fuori da ogni schema, che tradisce/ignora moltissime delle convenzioni narrative della settima arte scegliendo liberamente di esprimersi con un linguaggio proprio, spesso imperfetto, spesso compresso e troppo esteso, siete nel posto giusto. Anche senza conoscere il mito di Milarepa, è possibile approcciarsi all’opera osservandola come uno “strano oggetto filmico non identificato”, sorvolato nelle nostre sale, nel mezzo dell’estate del 2025, in un modo non diverso da come l’anno scorso abbiamo avvistato L’impero di Bruno Dumont. Entrambe pellicole fieramente non accomodanti, a loro modo entrambe “fantasy”, frammentate ma stimolanti, genuine quanto forse accessibili in pieno solo al loro autore. Se vi ha colpito lo stranissimo film di Dumont, un giro su Milarepa di Louis Nero lo potete fare.

Se vi aspettate un film stile Piccolo Buddha di Bertolucci o magari Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera di Kim Ki-duk, vi trovate qui davvero su una galassia lontana lontana.

Se tutto questo vi spaventa più che stimolarvi, vade retro.

Del resto, in genere, gli Ufo cinematografici e non da sempre spaventano, per mille validi motivi.

Ma se sarete abbastanza audaci, pronti a farvi stimolare, sconvolgere e appassionare, da un autore complesso e unico nel suo stile come Louis Nero, potreste trovare in sala qualcosa di felicemente inaspettato. 

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lunedì 9 giugno 2025

Mani nude: la nostra recensione del film drammatico, diretto da Mauro Mancini, tratto dal romanzo di Paola Barbaro, con protagonisti Alessandro Gassman e Francesco Gheghi

Nel cuore della notte un camion con rimorchio gira più volte, in tondo, lungo il piazzale di una cava di sabbia. 

Un uomo dallo sguardo severo (Alessandro Gassman) osserva questa strana manovra costante, composto e immobile, fumando una sigaretta. 

Nelle vicinanze c’è una discoteca dove si muovono al ritmo di musica techno giovani avvolti in una luce verde. Un ragazzo biondo (Francesco Gheghi) si allontana dalla massa per espletare un bisogno fisiologico, contro la flora del giardino,  quando due uomini lo placcano, lo stendono con un analgesico, lo ficcano in un bagagliaio.

Gli occhi del biondo si aprono confusi in quella cava, con l’uomo dallo sguardo severo che aprendo il bagagliaio sentenzia: “A volte capita di incontrare le persone sbagliate. Stavolta tocca a te”. 

Il tir si ferma.

Il biondo rintronato e trasportato come un pacco dentro al rimorchio. Il portellone si chiude sferragliando, rimane il buio, il veicolo ricomincia a girare, in tondo. Una voce giovane, umana, forse simile alla sua, certifica al ragazzo che nel buio non è solo. Poi iniziano i pugni. 

Al di fuori l’uomo torna a fumare, in attesa del tempo necessario perché il camion torni a fermarsi dopo uno o più giri nello stesso punto, come se il camion sul piazzale disegnasse lo scorre del tempo come la lancetta su un orologio. 

Il viaggio finisce, il portellone si apre. Il biondo è in piedi, ricoperto di sangue. Tiene con i gomiti la guardia alta, precisa e plastica come un pugile. Chi era con lui è a terra, anche se in un attimo anche il biondo sviene. 

Il risveglio è nella stiva metallica e piena di tubi di una nave mercantile, ancorata al molo, con un medico che stima a due settimane il tempo di recupero. Per il biondo una stanza/prigione con sbarre ai vetri, un giaciglio consunto, un orinatoio e una porta metallica chiusa. Extra non trattabili. Da uno spioncino l’uomo che fumava lo osserva severo: allunga una ciotola di riso da un'apertura bassa simile a quella da cui possono passare i cani, comanda di mangiare. Il ragazzo non vuole, non capisce, suggerisce accordi disperati. I suoi parenti sono ricchi e potrebbero pagare, qualcuno avrà avvertito le autorità e poi, soprattutto, “perché lui?”. Risposte poche e confuse invitano a rassegnarsi: lui è già come morto, “ha già ucciso”, è diventato ormai “proprietà di qualcuno”.  

Il ragazzo non ha mai più alcuna fame, viene “imboccato con la forza”, più per preservarlo come capitale che per una qualche forma di umanità. 

Di nuovo controvoglia in piedi, finisce in un’altra ala della nave: una palestra gremita di ragazzi e uomini dall’aria persa e incattivita. L’uomo che fumava si fa chiamare “Minuto” e non ha altri minuti da perdere. Butta il biondo al sacco da boxe, gli butta contro pure un ragazzo tatuato di nome “Puma” come sparring. L’allenamento prevede pugni, calci, immersioni “forzate” dentro una tinozza d’acqua per sviluppare resistenza. Tra un incontro e l’altro il tempo passa in fretta e il biondo torna sul camion, diretto verso combattimenti clandestini sempre più violenti ed estremi, nel cuore di nuovi alberghi in costruzione o in ville di ricchi sadici. Incontri in cui è tassativo: “solo uno può uscire vivo”. Le cicatrici post match incoronano il biondo come grande incassatore, gli scommettitori iniziano a richiederlo. Puma, uno strano amico ormai, spiega che per ora loro due sono “cani minori”, ma che potrebbero essere promossi presto a “cani maggiori”, arrivando a guadagnare i soldi necessari per liberarsi dai debiti. Puma è in quella situazione per via di debiti chiarissimi, ma il biondo in fondo non ha ancora capito perché si trovi lì. Perché Minuto ha deciso di tenerlo separato dal resto del gruppo? Che forse il legame tra il biondo e Minuto sia simile al vincolo che lega Minuto al vecchio boss della criminalità, con un occhio solo come Odino, che organizza da sempre tutti i combattimenti clandestini (Renato Carpentieri)? 

Le risposte presto arriveranno e potrebbero essere particolarmente amare, ma insieme al tempo che passa il ragazzo sta diventando ormai un cane di razza maggiore: un carnefice che fiuta il sangue delle sue prede, forse già incapace di tornare al mondo reale. Ma una donna del passato e una del “presente” riusciranno forse a cambiare il corso degli eventi. 


Dal dinamico e disperato romanzo omonimo. vincitore del premio Scerbanenco nel 2008, scritto dalla celebre autrice di Dylan Dog Paola Barbato, il regista di Non Odiare ricava le vibrazioni giuste per il secondo capitolo della sua personale e (sempre più) possibile “trilogia dell’odio”, che non a caso suona e risuona come la celebre trilogia di Park Chan-Wook. 

Mani Nude, oltre a celebrare al meglio l’ottimo testo della Barbato,  “omaggia” l’autore di Old Boy (l’Old Boy coreano) con una trama parimenti criptica quanto crudele, ma che in una sinfonia costante, di ossa e vite “rotte a favore di pubblico”, risuona anche della narrativa esistenziale, psicanalitica e conflittuale (dis)umanità  del personale  Fight Club di David Fincher. 

Non accontentandosi di questo, Mancini sa pescare con intelligenza e affetto temi e luoghi di una celebre elegia alla Van Damme come Lionheart- Scommessa Vincente. Sa creare gustosi collegamenti marziali e visivi con l’action alla Besson più “cinico” (termine filosoficamente con casuale), quello di Danny The Dog con Jet Li, per poi fondere sapientemente  il tutto insieme con “altri tre Dog Man”:  quello di Matteo Garrone, quello di Stivaletti (anche se questo si chiamava, più in romanesco, Rabbia Furiosa - Er Canaro) e quello più recente e bellissimo di Besson. 

In fondo sono tutte storie di “Uomini e cani”, non distanti idealmente neanche dalla recente e apprezzabilissima Crime Story dell’omonimo romanzo di Omar Di Monopoli. Uomini trasformati in cani da combattimento un po’ per gioco e un po’ per vendetta, tanto per soldi e forse pure per amore (disilluso) verso un “cinismo” alla Diogene. Materiale favoloso come base per action movie dove la bestialità della lotta a mani nude viene nobilitata dalle arti marziali e dove Mancini ha lavorato molto bene sulle stesse (ottimi i combattimenti): rendendo eloquente e diretto l’adagio latino “homo homini lupus”. 

In estrema sintesi, Mani Nude è un film di botte cinematografiche che funzionano in quanto feroci e sarcastiche, a tratti “politiche”, dure e cattive ma ma mai superficiali. Un film dove le ecchimosi fanno male anche nel profondo, nell’emotività, grazie all’ottima prova di attori capaci come Francesco Gheghi e Alessandro Gassman. 

Gassman lavora tutto in sottrazione: incombe come presenza funerea sulla scena  e quando parla lesina poche e letali battute che lo rendono simile agli anti-eroi di Clint Eastwood. Gheghi ha lo sguardo confuso giusto ma sa adottare una postura da vero guerriero: riesce benissimo a metterci nei panni di un ragazzo dall’animo frammentato e fratturato. Il Biondo e Minuto: due anti-eroi alla corte e nelle arene di qualcosa di molto simile a un dio “crudele e guerriero” come Odino, impersonato da un Renato Carpentieri perfetto, elegante, giustamente teatrale. Terribile quanto “inesorabile” in un mondo che gestisce con malinconica disillusione.

Sono tre attori straordinari che è un vero piacere vedere interagire tra loro, con dinamiche a volte da fratelli, in alcuni casi di padre e figlio, spesso come nemici mortali

Mancini tiene bene il ritmo per tutta la prima parte, quella più dura e carica di contusioni, una “overdose di botte”, per poi trasformare il tutto in un secondo tempo carico di fantasmi del passato e introspezione. Una seconda parte che suona come un altro film, ma che come nel caro vecchio Old Boy diventa “parte integrante”, irrinunciabile della messa in scena.  Il gioco è ardito, forse troppo veloce, ma riesce. Anche perché alla fine esplora in un modo diverso lo stesso tipo di “cattiveria” di cui la pellicola è imbevuta. 

Non è un film adatto a tutti. La violenza visiva è molta, anche se mai davvero gratuita. 

Non è un film consolatorio. 

L’ultimo lavoro di Mancini è una rasoiata sincera che dimostra come realizzare degli ottimi action in Italia è ancora possibile, e forse pure “necessario” per risollevare un po’ un cinema diventato troppo asfittico e autoreferenziale. 

Una bella ventata d’aria fresca, che arriva leggera come un pugno sui denti. 

Talk0

venerdì 6 giugno 2025

“Sex”: la nostra recensione del terzo e ultimo tassetto della sua “Trilogia delle Relazioni”, scritta e diretta da Dag Johan Haugerud, che arriva oggi in sala, in Italia, con Wanted

Sinossi

Ci troviamo sulla skyline della Oslo dei giorni nostri: tra i palazzi del centro cittadino, le centinaia di gru rosse dei cantieri dei palazzi in costruzione, il porto con le navi da crociera e un mare azzurrissimo quanto vicino da poterlo toccare.

Aggrappati a tetti e comignoli, con cavi da scalata e imbragature tecniche, a volte sfoggiando in abbinato alle uniforme nere con i bottoni dorati un elegante cappello a cilindro in tinta, si muovono con disinvoltura, spazzole e scovolini, gli spazzacamini. Come supereroi o gargoyles, “vegliano” su Oslo e i fumi dei suoi comignoli. Osservano la città dall’alto, in modo pratico e professionale, rimanendo saldamente in bilico tra cielo e terra. Ma capita spesso che si sentano più “leggeri o pesanti”, spavaldi o accorti, a secondo dell’umore.

Davanti alla macchinetta del caffè del loro ufficio, due spazzacamini si sentono ancora “leggeri”: felici e in vena di confessioni, su quanto di “bello e piccante” gli è accaduto di recente. Uno di loro (il “baffuto” Thorbjorn Harr) racconta di uno strano sogno ricorrente: si trova in un appartamento pieno di gente, ad una festa con David Bowie. La star, rediviva, lo osserva con uno sguardo particolare, fino a che i due si ritrovano insieme nel bagno. Lui si spoglia e fa una doccia mentre Bowie continua a fissarlo con passione, fino a che si avvicina. Stanno per baciarsi e lui riesce a scorgere il suo stesso riflesso attraverso le retine bicolore della rockstar. Con sorpresa, nel riflesso ha il corpo di una donna. Prova a parlare ed esce una voce femminile. Il sogno si interrompe prima che le labbra si uniscano, ma nel pieno di una tensione erotica i cui effetti permangono al risveglio. Lo spazzacamino prova a interpretare a suo modo. È felicemente sposato con moglie e prole e non ha mai avuto fantasie omosessuali, ma nel sogno la cosa non gli dispiace, ama sentirsi desiderato da Bowie. Sta giusto preparando uno spettacolo musicale per il fine settimana, in cui si esibirà a fianco del figlio: forse “Bowie” rappresenta qualcosa di vicino all’amore che sta provando per la musica in quel momento. O forse quel sogno strano è colpa di quell’acchiappasogni, indiano e decisamente brutto e spelacchiato, che ha insistito la moglie (l’attrice teatrale Brigitte Larsen) per appendere sopra il letto. Ad ogni modo invita l’amico allo spettacolo. Il collega (interpretato da Jan Gunnar Roise) sorseggia in caffè. Ascolta, conferma con gioia la presenza all’evento e “rilancia” con una sua confidenza, se vogliamo più “sostanziosa”.

Anche lui si è di recente sentito “fortemente desiderato”, anche se non da Bowie. È avvenuto in maniera inaspettata a seguito di una chiamata per il controllo di una canna fumaria: il cliente lo ha guardato intensamente e lo ha invitato a fare sesso con lui. L’uomo era tarchiato, non bello ma affascinante. Tutto si è svolto con estrema naturalezza in pochi minuti, a seguito dei quali si sono rivestiti e tutto è finito come era iniziato. Nessuno strascico sentimentale, solo un fortissimo desiderio erotico: appagante anche se un po’ doloroso per inesperienza. Non aveva mai avuto fantasie gay ma ha provato un senso di liberazione. A casa ha riferito con entusiasmo la sua esperienza alla moglie (l’attrice teatrale Siri Forberg): lei sicuramente ha capito la situazione e tirato avanti. Le confessioni finiscono insieme al “senso di leggerezza”. Entrambi gli spazzacamini iniziano ad accusare il “peso della colpa” in modi diversi.

Lo spazzacamino che sognava Bowie inizia a provare disagi a livello fisico/psicosomatico. Quando si trova davanti a uno specchio la sua immagine sembra riempirsi di chiazze rosse, appare quasi squamata. Durante una lezione di canto non riesce più a raggiungere la sua estensione vocale e tutto ciò che produce è uno strano gridolino strozzato. Inizia a fare esercizi di massaggio alla laringe, ma la situazione non migliora mentre si avvicina la data dello spettacolo. Il figlio, che sembra molto appassionato al mondo del make-up ed è gasatissimo alla prospettiva di confezionare personalmente, con una macchina da cucito, gli abiti di scena per il loro spettacolo, cerca di stare vicino al padre e supportarlo, ma tutto pare inutile. L’altro spazzacamino inizia invece ad avere dei dubbi sul fatto che la moglie abbia capito e perdonato il suo estemporaneo desiderio erotico. Nonostante ore e ore, giorni e notti, a “specificare e rassicurare” sul fatto che per lui quel sesso occasionale è stato solo qualcosa di passeggero, che non sono in discussione matrimonio e sentimenti, che “tutto è come prima” e proprio per il senso di “fiducia e trasparenza” è stato giusto condividere con lei questa “avventura”. La moglie dice di capire, ma “non fino in fondo”. Iniziano a dormire in stanze separate. Lei alterna ai silenzi la richiesta di dettagli sull’accaduto sempre più intimi, che in qualche modo “lo fanno stare male”.

I dubbi sulla reciproca identità sessuale assalgono e confondono entrambi, fino a che si trovano come ubriachi insieme su di un tetto, come supereroi durante una avventura in team-up. Uno è venuto in soccorso dell’altro rispondendo a una chiamata urgente di aiuto, ma ora provano un comune senso di vertigine. Forse per la prima volta. Forse una malattia professionale da spazzacamini. Sanno però che possono contare almeno l’uno sull’altro, nel caso le rispettive mogli e il resto del mondo non li capiscano più. Sanno che in entrambe le faccende ha avuto un particolare peso sentirsi prima di tutto “osservati e desiderati”. Forse è da lì che devono partire per capirci qualcosa.


Sex, Dreams, Love.

Il regista e sceneggiatore norvegese Dag Johan Haugerud, acclamato dalla critica per lavori come Beware of Children, The Light from the Chocolate Factory e I Belong, nel 2024 inizia la realizzazione alla sua personale “Trilogia delle Relazioni”, suddividendola nei film SexDreams e Love. Tre opere autonome e separate, ma tutte unite dal desiderio di raccontare la ricchezza emotiva dei diversi modi “di amare e sognare”, con intuizioni felicemente non troppo distante dalla trilogia Tre Colori di Krzysztof Kieslowski. Dando vita a una narrazione sensibile, intelligente e ironica, con cui esplorare soprattutto il “mood of love” degli abitanti della Oslo dei giorni nostri: tra passioni e pulsioni, sogni e bisogni, libertà e legami.

Sex, presentato in anteprima il 17 gennaio 2024 alla 74esima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, è cronologicamente il primo dei tre capitoli, anche se di fatto arriva in Italia per ultimo, per essere adeguatamente riscoperto e “completare l’esperienza”, dopo i riconoscimenti internazionali ricevuti da Love (selezionato per essere in concorso nella Mostra del Cinema di Venezia nel 2024) e da Dreams (premiato con L’Orso d’Oro al Festival di Berlino nel 2025), giunti da noi sempre grazie all’etichetta Wanted – Cinema Ricercato.

Dreams raccontava la storia romantica e disincantata della adolescente Johanne (Ella Overbye) e del suo “amore sognato” nei confronti della giovane insegnante di inglese Johanna (Selome Emnetu). Un amore scritto all’interno di un diario, che viene condiviso con una nonna famosa scrittrice, Karin (Anne Marit Jacobsen), all’oscuro della troppo emotiva mamma Kristin (Ane Dahl Torp), più che altro nella prospettiva che possa diventare la base per un romanzo. In questo film, quasi del tutto declinato al mondo femminile, Haugerud ci parlava con molta ironia della “possibile capitalizzazione” delle emozioni, ma anche, sempre giocando con la stessa suggestione, di come un sentimento possa essere inteso come “un patrimonio del singolo”: un bene emotivo comunque acquisito e reale, anche se in fondo non corrisposto.

Love ci metteva invece a contatto di una Oslo notturna, dove per l’infermiere Tor (Tayo Cittadella Jacobsen) era possibile sull’ultimo traghetto della sera, grazie una applicazione per incontri con geolocalizzazione di pochi metri, fare qualche avventura clandestina con degli sconosciuti. Su quella tratta “fuori orario” Tor incontrava la solitaria e pratica urologa Marianne (Andrea Braein Hovig), motivandola a prendere le relazioni con più leggerezza, ma entrambi sarebbero finiti in storie personali “appaganti” proprio perché molto più complesse rispetto alle aspettative. Qui Haugerud, senza mai dimenticare la vena ironica, raccontava di come il sentimento di gioia e la ricerca di uno “sguardo complice”, proprie dell’erotismo delle primissime fasi di una relazione, anche accidentale/occasionale, potevano di fatto, attraverso la condivisione della quotidianità, diventare la base di un rapporto più profondo e “ricco”. A patto che venisse superato lo stigma di percepirsi reciprocamente solo come “amanti occasionali”.

Sex sa “entrare in dialogo” con le altre due pellicole, per temi e suggestioni, in un modooriginale quanto sofisticato.


La costruzione di Sex

Nelle interviste Dag Johan Haugerud descrive Sex come una pellicola divertente, stimolante e riflessiva: un mezzo utile per affrontare con il sorriso le “sfide inaspettate” legate a temi tutt’oggi spigolosi come il sesso e il genere. Il regista nella realizzazione puntava a portare alla luce il modo spontaneo con cui nella quotidianità può verificarsi una “variabilità dei confini morali”. Affrontare senza facile retorica la “(im)possibile disconnessione” tra amore e sessualità: croce e ragion d’essere di molte coppie. Raccontare come anche “una sincera amicizia virile” tra spazzacamini, pur dovendo affrontare “aspetti (attualmente percepiti) poco virili”, potesse favorire e stimolare la ricerca di una maggiore libertà di esprimersi, in modo fisico quanto emotivo, pur nel rispetto e senza ferire le persone che si amavano. Voleva fotografare, dai tetti dove operano abitualmente gli spazzacamini, una città che tra paure e speranze era in costante crescita: una Oslo intenta con fatica (ma anche coraggio) a conciliare cantieri quanto ponti relazionali tra le persone.

La scelta per il regista di lavorare con Jan Gunnar Roise e Thorbjorn Harr, entrambi già protagonisti del suo Bewere of Children, era avvenuta fin dalla prima fase di scrittura, anche in ragione del clima cameratesco che ha sempre caratterizzato la loro relazione lavorativa.

Harr ha particolarmente apprezzato cimentarsi con il ruolo del suo “spazzacamino che sogna Bowie”: per la capacità di mettersi continuamente in discussione e ascolto, unita alla predisposizione a “imparare a comprendere le emozioni degli altri”, osservandole con un senso di novità e curiosità. Roise è invece stato conquistato dalla “ingenua incoscienza” del suo personaggio: un uomo che vive emozioni forti a cui non riesce a dare un nome, forse celando anche a lui stesso le radici e conseguenze di questo atteggiamento. Anche le attrici Siri Forberg e Brigitte Larsen hanno in passato già collaborato con il regista, ma Sex rimane per volontà di Haugerud una pellicola che predilige portare sulla scena l’amicizia maschile: assumendosi anche il rischio conseguente di raccontare il silenzio dell’incomunicabilità domestica. Nel ruolo del figlio dello spazzacamino che sogna Bowie c’è il giovane e già bravissimo Theo Dahl.


Dalla gravità emotiva alla forza di gravità.

Haugerud li porta sulla scena intrepidi come supereroi. Sui tetti di una Oslo radiosa e immensa, fotografata con dovizia di particolari, da droni e telecamere in alta definizione (bellissimo il lavoro della direttrice della fotografia Celice Semec). Hanno una loro uniforme nero tenebra con bottoni lucenti dorati, gadget da arrampicata tecnica e rampini come Batman, spazzole stura-fuliggine retrattili trattate con dignità di alabarde. Sognano di riuscire a sedurre David Bowie, ma anche solo la loro prestanza fisica gli consentirebbe facili conquiste amorose. Non cantano come in Mary Poppins, anzi hanno proprio “problemi alla voce”, ma volteggiano ugualmente eleganti, almeno fino a quando la loro “leggerezza emotiva” non cala.

È in quel momento che incombe sulla loro testa e le loro gambe, come una maledizione, la forza di gravità. Allora il ballo diventa un barcollare, le tegole dei tetti cedono, loro stessi scivolano. Serve l’intervento di un amico che virilmente risollevi gli animi e il collega e questo arriva, deciso ma comprensivo, come in un action movie anni’80 stile Arma Letale.

Un’amicizia che va oltre ai tabù, non si pone problemi di etichetta e si siede sullo stesso tetto davanti al baratro, a fianco, per risolvere o almeno cercare di capire insieme il problema.

Magari scoprendo che chi si sente più abbattuto dalla gravità è alla fine quello che sta meglio, così poi toccherà a quest’ultimo risollevare l’amico.

Ci appaiono così: eroici, divertenti ma anche “sensibili” e umanamente fragili, i due spazzacamini senza nome di Haugerud. Quello dell’“amore pensato”, con i baffi, timido e amante di David Bowie, interpretato da Torbjorn Harr. Quello dell’”amore consumato e (forse) già dimenticato”, senza baffi e senza troppi freni emotivi, ma forse meno forte di quanto appare, interpretato da Jan Gunnar Roise. Entrambi solidali quanto confusi e infelici.

“Traditori”, davanti all’algida Brigitte Larsen o alla delusa Siri Forberg. Forse traditori proprio perché da troppo tempo in cerca di qualcuno, uomo o donna che sia, che li osservi di nuovo: con passione e amore. Una ricerca di amore a 360 gradi. Magari sperando di ritrovare quello stesso amore che il figlio, interpretato dal bravo Theo Dahl, senza preoccuparsi degli “stereotipi di genere”, riversa sui trucchi per il make-up e i vestiti da cucire.

Eroi di quartiere troppo ingenui o troppo preoccupati, con cui è facile simpatizzare, tifando per un buon esito delle loro vicissitudini. Haugerud esplora bene l’animo dei suoi personaggi nella quotidianità. Sceglie un punto di vista ravvicinato a volte scomodo: documentaristico ma troppo pressante. Quasi puntasse a mettere a disagio pure l’osservatore, “calandolo nei loro panni”. Disegna una storia carica di afflati di libertà e humor, ma che spesso per eccesso di pudore cerca di “nascondendosi”, all’intimità complessa della vita di coppia e forse dagli “sguardi inquisitori” della società.

Indugia con sapienza dietro la macchina da presa tra i vertiginosi comignoli di Oslo e le claustrofobiche stanze delle abitazioni, alla ricerca di “spazi di felicità” che sembrano sempre più stretti e soffocanti. Si affida a bravi attori che cogliendo le molte sfumature della trama riescono con incredibile naturalezza a esprimere un ampio ventaglio di emozioni: uniti da un senso di vicinanza che gli permette di sostenendosi titanicamente, tanto sul piano fisico che emotivo, alle molte “intemperie” del racconto.

I formidabili spazzacamini di Sex sanno davvero parlare di amore e passione, danzando tra i tetti della capitale norvegese come supereroi. Forse, contrariamente al titolo, di “Sex” nella storia non c’è moltissimo. Ma nella economia di insieme è un peccato davvero veniale, perché la pellicola riesce davvero nell’intento di risultare fresca e coinvolgente, originale quanto molto “sentita”.


Giudizio finale

Grazie alla bellezza dei paesaggi e della messa in scena, alla buona prova di ottimi attori e a dialoghi brillanti, Sex sa far commuovere, ridere e riflettere. Haugerud dimostra ancora una volta la grande sensibilità e attenzione con cui sa maneggiare temi attuali quanto urgenti, andando a creare un cinema pieno di spunti e riflessioni, sarcastico ma gentile.

Potremmo quasi dire che Sex, attraverso i suoi due personaggi principali, “anticipi” i temi di Dreams e Love, contribuendo a creare un affresco di umani vizi e virtù interessante quanto sfaccettato, unico nel suo genere.

Se cercate una pellicola in grado di palare della natura dei sentimenti quanto della società odierna, Dag Johan Haugerud è un regista da annotare.

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martedì 3 giugno 2025

Thunderbolts*: la nostra recensione del coinvolgente e dissacrante action supereroistico di Disney / Marvel, diretto da Jack Schreirer

C’erano una volta gli atletici, bellissimi e invincibili Avengers. Super forza e super costumi. Capacità ginniche straordinarie se non addirittura la possibilità di volare. Poteri e armi fantascientifiche quanto mistiche. Una volontà che permetteva loro di combattere in sei contro dischi volanti e pazzi titani multidimensionali, salvando il mondo e a volte pure l’universo.

Oggi è diverso. 

Ci sono stati vari cambi della guardia, vacanze premio a tempo indeterminato “nello spazio e indietro nel tempo”, una nuova amministrazione pubblica che forse non ama troppo i supereroi. 

Se serve “qualcuno di speciale” bisogna adattarsi al poco che può ancora offrire il mercato. Ex super criminali bolliti o ex spie bipolari, con tendenze autolesioniste o troppo impegnati a guidare limousine per arrotondare lo stipendio. Ex militari decaduti e clinicamente già accreditati vittime di stress post traumatico. Tizi qualsiasi che si sono proposti come “cavie” di qualche esperimento “per diventare super” di ex scienziati pazzi, per pochi spicci, che forse porteranno più guai che risultati.

Tutta gente finita prima o poi nel circo personale di Valentina Allegra de Fontaine (Julia Louis-Dreyfus): contessa e direttrice della CIA, in odore di impeachment proprio per il modo “disinvolto” con cui utilizza superumani nelle Black Ops.  La punta di diamante del lotto è una Black Widow più giovane ma molto più depressa, Yelena Belova (Florence Pugh, con un accento russo irresistibile). Vive alla giornata, segue gli ordini in modo “confusionario e creativo”, non arriva mai al miglior risultato possibile, racconta i suoi problemi emotivi a mercenari hi-tech dopo averli tramortiti. 

C’è poi un clone/copia/reboot di Captain America: U.S.Agent (Whiatt Russell). Un uomo rabbioso, infantile e malinconico che dopo un incidente pubblico che gli ha rovinato per sempre la vita e la carriera (visto nel telefilm The Falcon & The Winter Soldier) è diventato ancora più rabbioso, infantile e malinconico. Piange un sacco. C’è Taskmaster, una esperta di combattimento così tramortita e confusa che ormai non sa più con chi sta combattendo e forse può ammazzarsi da sola (Olga Kurylenko). C’è Ghost, una super ladra capace di passare attraverso le pareti, rendendosi intangibile come una ectoplasma, ma che tende pure emotivamente a comportarsi come un fantasma: lasciando la sua squadre spesso a chiedersi dove sia finita (Hannah John-Kamen).

Hanno potenziale, ma sono tutti a loro modo “perdenti”: sacrificabili e per questo, nel primo momento utile, “sacrificati”, per evitare ad Allegra l’impeachment di cui sopra dalla contessa. 

Vengono così mandati a loro insaputa in una missione suicida nel deserto dello Utah, “tutti contro tutti”, a spararsi al buio tra gas ed esplosioni senza nemmeno conoscersi. In un bunker losco e pieni di “altra roba compromettente”, pericolosa, illegale o aliena, da far esplodere “magari con pure loro dentro”, il più in fretta possibile. Nel bunker c’è anche la “cavia Bob” (Lewis Pullman), gracile, inferma e confusa, appena uscita da una specie di sarcofago hi-tech. Bob appare come un ragazzo sfigato e inerme e per una qualche forma di “istinto materno sopito” attira l’attenzione/compassione della giovane Vedova Nera. Per “salvare Bob” la lotta fratricida tra i perdenti si interrompe: il gruppo inizia a sentirsi tale e fare squadra. Guardandosi, riconoscendosi nella circostanza comune di essere più o meno tutti “nella stessa barca” e con una positiva spinta all’autoanalisi, inizia pure una specie di terapia di gruppo. 

Tra esplosioni, gas, incidenti di fuoco-amico e continuando a litigare come bambini con deficit dell’attenzione, trovano una via di fuga. Si immaginano un futuro comune al punto da darsi un nome provvisorio, “Thunderbolts”, come quella squadra di softball di cui faceva parte Yelena da bambina: zero punti in classifica ma tanto entusiasmo, un’inno alla resilienza e alla positività. 


Il primo atto della nuova squadra sarà proprio “continuare a salvare” Bob, che dopo aver rivelato di avere poteri incredibili ha cercato di aiutare il gruppo facendo da esca e finendo male. Purtroppo una squadra di contenimento mandata dalla contessa al bunker per “eliminare ogni traccia” lo ha preso e consegnato come pacco dono alle manipolazioni di Allegra de Fontaine. 

Lei lo ha portato nel cuore della vecchia Watch Tower degli Avengers, trattandolo un po’ da manager, un po’ da groupie, un po’ da mamma. Bob subisce sempre il fascino di donne che verso di lui dimostrano istinto materno. Lei gli tinge i capelli di biondo dotato, gli mette una tuta dotata, gli assegna un nome da eroe dorato. Maternamente, lo avvia a diventare una nuova e gaudente versione di Cap America, ma segretamente pensa di servirsene come una arma di distruzione di massa nelle sue mani. 

Se i Thunderbolt non sfuggivano alla regola dei “supereroi con super problemi”, Bob ha ora così tanti poteri da sviluppare superproblemi letteralmente spaventosi: vola, è super forte, raggi dagli occhi e può pure, quando perde il controllo, trasformarsi  una vera e propria “ombra junghiana di se stesso”. Quando questo stato prende il sopravvento sulla sua psiche, è in grado di dissolvere in ombre tutti gli abitanti di New York, confinandoli in una dimensione parallela simile a un incubo collettivo.

Riusciranno gli scombinati Thunderbolts a salvare Bob, il mondo e la loro rinata autostima? 

Ad aiutarli ci sarà ci sarà il “papà della vedova nera”, un Red Guardian (David Harbour) sempre più sfasciato nel fisico da una vita troppo disillusa ed etilica. Al suo fianco anche il vecchio Soldato d’Inverno “usato garantito” (Sebastian Stain): ormai più attratto dalla politica che dalle risse, molto affezionato a un braccio bionico che con cura mette in lavatrice con l’anticalcare, ma ancora “promettente.” 


Jack Schreirer, regista di video clip per Kanye West, Justin Beader e Benny Blanco,  nel 2012 esordiva nel lungometraggio con un piccolo e malinconico film di fantascienza, su un anziano che veniva accudito da un robot domestico, simile per tantissimo versi al classico Io e Caterina con il nostro Alberto Sordi. Si chiamava Robot & Frank. Nel 2015 dirigeva la commedia romantica per adolescenti Città di carta. In tv intanto firmava episodi di Shameless e Minsx, mentre più di recente un episodio dell’antologico horror Al nuovo gusto di ciliegia e uno di Star Wars: Skeleton Crew

La sceneggiatura, che ha visto la partecipazione dell’autore dei Thunderbolts a fumetti, Kurt Busiek, è invece opera di Eric Pearson e Joanna Calo. 

Pearson è attivo nel Marvel Cinematic Universe fin dalle sue “origini”, avendo nel 2011 scritto i corti Marvel One- Shot. Come “script Doctor” ha partecipato ai film degli Avengers 3 e 4, Spider-Man Homecoming e Ant-Man. Nel 2015 era sulla serie tv Agente Carter, nel 2017 su Thor: Ragnarok, nel 2021 Black Widow. È già accreditato per i futuri Blade e Fantastic Four. Al di fuori dell’ambito Marvel, ha lavorato per Pokémon: detective Pikachu, Pacific Rim, Godzilla vs Kong e Transformers One

Johanna Calo è showrunner di una della serie tv Disney+ più amate, The Bear,  ma il suo nome è legato anche al cult animato Bojack Horseman.

I Thunderbolts, creati dallo sceneggiatore Kurt Busiek (suoi anche i cult Marvels e Astro City) e dal disegnatore Mark Bagley (penna principale del primo e premiatissimo Ultimate Spider-Man di Michael Bandis), comparirono per la prima volta come “ospiti” sulla testata The incredibile Hulk, numero 499 del gennaio 1997, in una storia scritta dal leggendario Peter David e disegnata da Mike Deodato jr.  Supereroi misteriosi, che piombavano sulla scena dal nulla, in un momento in cui i “titolari difensori della terra” erano “irreperibili” a causa di un maxi-crossover Marvel del 1996 chiamato Onslaught. La loro identità sarebbe stata presto svelata, anche se in modo abbastanza “traumatico”: sotto nuove maschere e nuovi nomi di battaglia, si nascondevano infatti alcuni dei villain più noti. Comandati da un barone Zemo “sulla via della redenzione” che nonostante gli sforzi non sarebbe mai apparsa “abbastanza convincente” (sarebbe accaduto qualcosa di simile nell’universo DC a un “motivatissimo” Due Facce, che nell’evento 52 avrebbe indossato il mantello di Bruce Wayne in assenza dell’eroe). Anti-eroi super problematici perennemente combattuti tra luce e tenebra, buone intenzioni e pregiudizi. Piacquero molto al pubblico, anche perché i membri del team, tra tradimenti e ripensamenti, cambiavano sempre e rendevano le storie ogni volta imprevedibili, fresche e nuove. A seguito delle vicissitudini legate all’evento crossover Civil War, le nuove storie dei Thunderbolts sarebbero tornate (ma  per più tempo) sotto le matite del loro “battesimo stampato”, quelle di Mike Deodato jr, con ai testi un’altra leggenda del fumetto moderno: Warren Ellis (Transmetropolitan, The Anthority, la serie Netflix Castlevania). Ad alcuni vecchi anti-eroi si aggiunsero nuove pericolosissime leve. I Thunderbolts diventavano un gruppo “gestito dall’autorità” più che altro in ragione di un controverso “progetto di recupero di super detenuti”. A latere delle missioni, erano costantemente sorvegliati da cecchini e in caso di fuga “potevano esplodere” (come ne L’implacabile con Schwarzenegger) tramite l’innesco di esplosivi sottocutanei. Le trame assunsero toni cupissimi e in parte molto più vicini alla Suicide Squad della DC Comics (nata su The Brave and the Bold nel 1959). Tra le fila militava gente come Bullseye e il “leader del gruppo” divenne nientepopodimeno che il Goblin originale di Spider-Man: un “mai troppo rendento” Norman Osborn (che Deodato disegnava come l’attore Tommy Lee Jones). 

Fu in quel periodo che entrò a far parte del team anche Sentry, esule da una non troppo felice esperienza nei New Avengers. La run diretta da Ellis è per gran parte della critica forse uno dei migliori fumetti Marvel degli ultimi 20 anni. In tempi più recenti, con l’arrivo dell’Hulk Rosso di Loeb e McGuinness, la squadra ha potuto contare su un leader come il generale Ross e una formazione di impronta “più militare e meno criminale” (con l’Agente Venom, il Punitore, Deadpool ed Electra), ma la vita editoriale dei Thunderbolts è sempre in continua e felice metamorfosi. 


Sentry nasceva come personaggio originale all’interno della collana “per adulti” Marvel Knight, in una miniserie di 5 numeri del 2000 scritta da Paul Jenkins per i disegni di Jae Lee (La torre nera di King). I temi erano forti e controversi: la storia parlava di un anti-eroe forte e “decisivo”, almeno quanto Superman, ma che viveva in un perenne stato di angoscia a causa del suo “alter ego”: un uomo in forte sofferenza emotiva, spesso vittima di abusi di alcol e psicofarmaci. Jenkins, uno dei più sensibili e sofisticati autori ad aver raccolto il testimone di Peter David su Hulk, infondeva in una storia a tutti gli effetti “horror” tutta la tensione emotiva e l’approccio “quasi psicanalitico” che caratterizzavano il suo lavoro per il Golia Verde. La successiva miniserie sul personaggio, con i disegni ultra dinamici e colorati di John Romita Jr, trasformava Sentry in una vera e propria de-costruzione del mito del Superman, molto vicina per vari aspetti a “un altro Superman Alternativo”, che in Marvel stavano ri-elaborando nello stesso periodo Bendis e Straczynski (l’Hyperion della miniserie Supreme Power). Alla fine Bendis, in accordo con Jenkins, portò però proprio Sentry sulla sua serie regolare di punta, gli Avengers, dando vita ad alcune delle pagine più originali e imprevedibili del fumetto supereroistico. Sentry ieri come oggi rimane stimolante quanto difficilissimo da gestire all’interno di una narrazione più corale. 


Il progetto cinematografico dei Thunderbolts prendeva il via nel 2014 su impulso di James Gunn: dopo che la sua “scommessa” di puntare su anti-eroi ironici come I Guardiani della Galassia aveva avuto successo. Ironicamente, Gunn è andato poi a dirigere altri anti-eroi ironici nell’ottimo The Suicide Squad - Missione Suicida del 2021.

Mettere insieme i Thunderbolts e Sentry in un unico film era sicuramente un azzardo. 

Per i suoi Thunderbolts, Marvel Disney ha scelto un team di anti-eroi che già gravitavano all’interno del suo ricco Cinematic Universe. Dal film Black Widow con protagonista Scarlett Johansson, di Cate Shortland del 2021, arrivano la “Nuova Vedova Nera” interpretata da Florence Pugh, il Black Guardian di David Harbour, la Taskmaster di Olga Kurylenko. Dalla serie tv The Falcon and The Winter Soldier,  di Malcom Spellman del 2021, tornano il Soldato d’Inverno di Sebastian Stain e lo U.S.Agent di Whyatt Russell (figlio di Kurt Russell). Da Ant-Man and the Wasp, del 2018 di Payton Reed, arriva la Ghost interpretata da Hannah John-Kamen. 

Per il ruolo di Bob/Sentry è stato scelto Lewis James Pullman, figlio di Bill Pullam ed è quasi un segno del destino: anche in Top Gun: Maverick interpretava un tizio di nome “Bob” (questa è una battuta, anche se mi è venuta poco divertente). Ha all’arrivo particine interessanti anche in film cult come 7 sconosciuti a El Royale di Drew Goddard e ha affiancato Brie “Captain Marvel” Larson nella serie tv Lezioni di Chimica

La baronessa Valentina Allegra De Fontaine è interpretata dalla attrice Julia Louise-Dreyfus, nota anche da noi per la sit-com comica Seinfeld e per la commedia di fine anni ‘80 Un natale esplosivo! (National Lampoon’s Christmas Vacation).

In fase di produzione, nel 2019 era ovviamente girato anche il nome di Daniel Bruhl nel ruolo dello “storico” leader e fondatore dei Thunderbolts, il Barone Zemo. Si era parlato anche di William Hurt nel ruolo di Red Hulk, ma la scomparsa nel marzo 2022 dell’attore, che ha comportato il recente recasting del personaggio (che ora ha il volto di Harrison Ford), non ha permesso l’operazione. 

La pellicola ha beneficiato di un budget da 180 milioni di dollari. Le riprese, iniziate nel  2023, si sono svolte tra New York e il deserto dello Utah. Due sono gli anni dedicati alla lunga post-produzione. 


Thunderbolts* è una bellissima sorpresa dopo un film su Cap America interessante,  ma forse con troppe luci e ombre. La formula, vincente, deve molto a quella impostazioni da “amabili cialtroni” propria de I Guardiani della Galassia di Gunn, ma sa fare tesoro anche dell’ottima intesa che avevano già trovato sul set di Vedova Nera Pugh e Harbour, come peraltro avvenuto anche tra Russell e Stain sul set di The Falcon & The Winter Soldier. Al di là degli effetti visivi, onnipresenti ma anche piuttosto riusciti, la pellicola presenta bellissime e ben articolate sequenze d’azione, come il suggestivo “inseguimento nel deserto” e lo spettacolare quanto originale finale “catastrofico/psicologico”.

Più di ogni cosa però, la pellicola di Jack Schreirer sa brillare e farsi amare per i fantastici e surreali dialoghi opera della autrice di The Bear e di BoJack. Il gruppo di anti-eroi in pochi scambi di battute riesce a diventare simile a una “allegra famiglia disfunzionale”, se non una specie di gruppo di auto-aiuto di alcolisti anonimi. C’è tanta ironia, ma anche una inaspettata quanto felice profondità emotiva, che riescono a fondersi particolarmente bene con una “narrazione visiva”, spettacolare, ma che alla fine non risulta mai fine a se stessa.  

Se il “modello Guardiani della Galassia” era in qualche modo già stato “sperimentato”, da Gunn, l’adattamento cinematografico di Sentry era forse la sfida più difficile e attesa. C’è da dire che non è mancato l’impegno, anche se  il risultato finale non riesce forse a cogliere in pieno la magnificenza e tragicità del personaggio creato da Jenkins.

Thunderbolts* ci parla di “amabili super-perdenti” così simpatici che alla fine della visione è davvero difficile staccarsi da loro. Ogni nuova follia o cretinata di cui il gruppo su rende protagonista è sempre originale quanto ben orchestrata dalla regia, da un ottimo cast e addetti ai lavori. Thunderbolts* è rigorosamente da vedere al cinema, in una sarà grandissima, con popcorn, super-audio, mega-schermo e tutta la famiglia. 

Dopo un avvio complesso della “nuova fase” del Marvel Cinematic Universe, caratterizzato anche da temi malinconici e supereroi che non sono forse riusciti a farsi amare troppo dai fan, possiamo dire con gioia che i supereroi al cinema sono tornati alla grande. 

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