lunedì 28 aprile 2025

Drop - Accetta o rifiuta: la nostra recensione del nuovo thriller prodotto da Michael Bay e Blumhouse, diretto da Christopher B.Landon, con protagonisti Meghann Fahy, Brandon Sklenan e Violett Beane.

 


Sinossi

Nella Chicago dei giorni nostri è diventata molto popolare una applicazione del cellulare chiamata Digi-Drop. Funziona secondo criteri di geolocalizzazione simili a certe app per incontri: permette a chi la usa di inviare messaggi, filmati o foto a tutti coloro che l’hanno scaricata, a patto che l’invio avvenga entro un raggio di massimo 15 metri di distanza, anche in pieno anonimato. Viene usata per fare scherzi, ben sapendo che “il burlone” si trova nei paraggi e può essere velocemente individuato o tenuto lontano. Ovviamente la adorano i ragazzini. Ma è facile che ogni tanto si verifichino situazioni spiacevoli come quella che dovrà vivere la bionda Violet (Meghann Fahy), nel giorno del suo primo appuntamento al buio con il misterioso Henry (Brandon Sklenar).

Lei ha un tragico passato alle spalle, non si è arresa ma è diventata negli anni un po’ introversa. Tende a vestirsi con abbinamenti orribili che la fanno sembrare un enorme lecca lecca e deve quindi essere supportata nelle scelte dalla sua sorella e babysitter personale Jen (Violette Beane). Aiuta professionalmente le donne vittime di abusi. Vive con suo figlio di dieci anni, Toby (Jabob Robinson), che ama i cavalieri, i popcorn e zia Jen: che lui chiama “zia spasso”. Arriva puntuale agli appuntamenti.

Il suo uomo del mistero è timido e sfiduciato dalle donne, dal mondo e dalla vita. Lavora come fotografo alle dipendenze dell’ufficio del sindaco, tende a scusarsi molto e arrivare tardi.

Si sono incontrati virtualmente per caso sui social e pur temendo di finire nelle fauci di un serial killer hanno prenotato per la serata un tavolo nell’esclusivo ristorante Palate: una bomboniera di marmo nero e oro illuminata da lampadari simili a bolle di sapone, situato negli ultimi piani di un palazzo lussuoso.

Al centro della sala, il bar gestito dalla ricciola Cara (Gabrielle Ryan) offre superalcolici, supporto psicologico e possibili vie di fuga nel caso l’incontro prenda una brutta piega.

Il pianista Phil (Ed Weeks) è un po’ sopra le righe e ci prova con tutte le clienti, ma sa il suo mestiere e può suonare a richiesta la canzone-simbolo-ossessione di tutte le mamme single come Violet: Baby Sharks.

Il giovane Matt (Jeffrey Self) è un cameriere chiassosamente entusiasta e onnipresente, alla sua primissima serata e un po’ timoroso di cosa ha previsto per lui quel giorno l’oroscopo, ma può soddisfare ogni tipo di richiesta. 

La responsabile di sala (Niamh McHenry) ha un’aria professionale ma uno sguardo gelido e severo. 

Agli altri tavoli si possono incontrare comitive di uomini d’affari asiatici, uomini soli che osservano il cellulare annegandosi nell’alcol (Travis Nelson), perfino un’altra coppia al primo appuntamento come Violet e Henry: anche se questa decisamente “male assortita”,  per via di foto poco veritiere usate nei profili prima dell’incontro.

Henry, puntualmente in ritardo, appare dopo che Cara ha offerto il primo calice di vino rosso.

L’imbarazzo inizia a diradarsi, il tavolo prenotato gode di una finestra panoramica che domina tutto lo skyline, i grattacieli e la notte stellata. Il cellulare di Violet vibra e “deve vibrare”, perché in caso di qualsiasi necessità Toby e Jen possano raggiungerla, ma a mandare gli ultimi messaggi c’è un estraneo che utilizza Digi-Drop.

Violet non ha mai installato Digi-Drop, ma possono averlo fatto Toby o Jen.

Un ragazzino forse poco più grande di Toby, forse una “zia spasso” sotto mentite spoglie, inizia a mandare messaggi in modo piuttosto pressante. I tentativi di privacy di Violet vengono interrotti di continuo da meme, foto e frasi strane, progressivamente sempre meno ironiche. Di colpo arrivano le minacce e un filmato terribile dalle videocamere di sorveglianza della casa di Violet. Chi parla con lei tramite chat non è una persona amichevole.

Non lo è nemmeno l’uomo incappucciato e armato di coltello che ora si trova in cucina, a pochi metri da Jen e Toby. Se Violet cercherà di parlarne con qualcuno, con Henry, lo staff o la polizia, l’uomo nella chat dirà all’uomo incappucciato di agire. L’interlocutore misterioso, per “evitare il peggio”, ha delle richieste specifiche per Violet ed eventuali “punizioni” in caso di mancato adempimento. Qualcosa di terribile e indicibile.

Forse Violet non ha scampo e per salvare Toby e Jen non potrà che agire come un burattino nelle mani di uno sconosciuto.

Ma Digi-Drop è una applicazione che funziona solo a distanza di 15 metri e la sala del Palade è grossomodo di quella dimensione. Lo sconosciuto ricattatore è per forza qualcuno che Violet ha davanti ai suoi occhi al ristorante e forse, con un po’ di strategia, può fermare.

 


Il cinema di Christopher Landon: tra spaventi e risate

Per la capacità di infondere nelle sue opere toni horror e commedia, legandoli insieme tra i colori e le suggestioni del cinema e della cultura pop, il regista, produttore e sceneggiatore Christopher Landon è oggi uno dei nomi più originali e amati del panorama horror moderno.

Dopo un paio di corti e la sceneggiatura di un interessante thriller che veniva scelto nella famosa “black list” (sceneggiature di nuovi autori) da Spielberg, Disturbia, dal 2007 al 2009 Landon assumeva il ruolo di consulente di produzione per la serie cult Dirty Sexy Money. Nel 2010 scriveva e dirigeva il suo primo film: Burning Palms, una pellicola a episodi carica di black humor, in cui le dinamiche e le “coltellate”, proprie del cinema horror-slasher degli anni ‘80 e ‘90, andavano puntualmente a fustigare un “American Way” che, tra buonismo e ipocrisie, appariva sempre più distante e scollegato dalla realtà. Le “vittima designate” erano più che altro i luoghi comuni in voga nella sorridente e superficiale West Coast in cui Landon era nato.

In Italia la pellicola purtroppo non sarebbe mai arrivata, ma era il primo segnale di uno stile personale che sarebbe andato con il tempo sempre più a definirsi.

Nel 2011 Landon entrava invece nel team di Paranormal Activity, come produttore e sceneggiatore fin dal capitolo 2, arrivando nel 2014 a dirigerne lo spin-off Il Segnato. Sceglieva per questo soluzioni narrative e visive peculiari, vicine al piccolo cult “Chronicle” di Josh Trank, ma al contempo non troppo distanti dalle “regole-base” della saga. Landon tratteneva un po’ la sua vena ironica, ma riusciva bene nell’intento di espandere l’universo creato da Oran Peli in direzioni del tutto nuove e sorprendenti.

Soprattutto, dopo Il segnato si era di nuovo innamorato della macchina da presa.

Se, scegliendo uno stile che citava gli antologici horror, in Burning Palms aveva messo alla berlina alcuni stereotipi dell’America più altolocata e patinata, ora le nuove vittime di Landon sarebbero state un altro simbolo molto forte di purezza e buoni propositi: i boy-scout.

Manuale scout per l’apocalisse zombie, del 2015, fondeva insieme la dilagante e inarrestabile “moda” degli zombie movie, con toni e personaggi che sembravano usciti dalle pellicole comico/generazionali dell’infanzia di Landon. Film con protagonisti il più giovane Bill Murray (Polpette, ma anche qualcosa di Stripes- Un plotone di svitati), Belushi, la National Lampoon. Il risultato era esilarante e il film si trova oggi negli store online anche in italiano, in dvd, sebbene da noi uscì in sala del tutto in sordina.

Nel 2016 Landon tornò “all’horror puro”, scrivendo il pandemico Viral, diretto da Joost e Schulman: plumbeo, opprimente e che di fatto anticipò molti dei temi e paure che sarebbero diventati più familiari nel corso del Covid-19 (si trova nel catalogo di Midnight Factory).

Nel 2017 diresse quello che sarebbe diventato il suo più grande successo, Auguri per la tua morte, scritto da Scott Londell. L’idea, folle quanto geniale, tornava idealmente “al cinema di Bill Murray” della sua infanzia: nello specifico a Il giorno della marmotta - Ricomincio da capo.  Solo che questa volta era un Ricomincio da Capo fuso insieme allo slasher Scream di Wes Craven, con alcuni spunti pure da Ritorno al Futuro di Zemekis. Due film simbolo della cultura pop anni 89/90, innaffianti nelle atmosfere dello slasher ad ambientazione scolastica più pop in assoluto, con una protagonista fantastica, Jessica Rothe, “condannata a ripetere più volte”, gli ultimi giorni prima della sua morte, fino a che non in grado di scoprire l’identità di un assassino con una strana maschera. Il grande successo internazionale generò all’istante un sequel, questa volta scritto da Londell insieme a Landon, sempre per la regia di quest’ultimo.

Si vocifera vicina l’uscita di un terzo capitolo, già attesissimo da legioni di fan, ma Landon nel frattempo ha realizzato un altro film divertente e se vogliamo con una formula simile: Freaky.

Il riferimento è anche qui a una classica commedia degli anni ‘70, Freaky Friday, conosciuta da noi come “Tutto accade un venerdì”, con Jodie Foster e Barbara Harris.

Un film divertentissimo e ben orchestrato, che generò un filone infinito di commedie similari (tra cui Viceversa), nonché due suoi remake, uno con protagonista Jamie Lee Curtis (Quel pazzo venerdì). La trama vedeva le vite di una madre e di una figlia adolescente scambiarsi magicamente nell’arco di una notte, di fatto attraverso uno “scambio dei corpi”. La “variazione sul tema” di Landon vedeva il corpo di una ragazza adolescente scambiarsi con quello di un serial killer mascherato uscito dal classico horror slasher, qui interpretato da un Vince Vaughn davvero irresistibile.

Con Drop, Christopher Landon è intenzionato a tornare a farci ridere e terrorizzare insieme, come nel suo stile.

 


Un White Lotus formato speed date.

Nel febbraio del 2024, dopo essere uscito con molto dispiacere dal progetto di  Scream 7, Christopher Landon annunciava il suo coinvolgimento in un nuovo thriller per Blumhouse e Platinum Dunes. Protagonista assoluta la star di The White Lotus Meghann Fahy, candidata come miglior attrice non protagonista agli Emmy Awards del 2022, proprio per la sua performance durante la seconda stagione della serie tv antologica targata HBO. Trentaquattrenne, nata nella piccola cittadina di Longmeadow, in Massachusetts, la Fahy aveva deciso con Drop di partecipare a un classico “thriller old school”; ma se vogliamo l’intero progetto assomigliava già moltissimo, fin dall’inizio, a un “The white lotus in miniatura”. 

Se la serie HBO raccontava di un resort di lusso, il White Lotus, al cui interno, nell’arco di una stagione vacanziera, si intrecciavano tra il thriller e il romantico le vite dei turisti e dello staff, Drop di Blumhouse e Platinum Dunes ci portava nel lussuoso ristorante Palate, dove nell’arco di un paio d’ore si intrecciavano, tra passione ma soprattutto tantissimi spaventi, le vite di una coppietta al suo primo appuntamento al buio, insieme alle vite degli altri presenti nel locale.

Un White Lotus “formato speed date”, in cui una tecnologia legata alle chat dei social fungeva da motore della suspense. Un meccanismo tecnologico-narrativo che per molti versi poteva apparire come una versione, aggiornata e “più sentimentale”, del thriller del 2014 Non-Stop, diretto da Jaume Collet-Serra. In quel caso i messaggi molesti/minacciosi/inquietanti da parte di uno sconosciuto arrivavano a un Liam Neeson passeggero su un volo di linea, forse anche lui diretto a un resort o a un appuntamento al buio… Ma tra gli sceneggiatori c’era sempre, come del resto c’è in Drop, Chris Roach.  Un Chris Roach che aveva esordito come autore delle “trame” della World Wrestling Entertainment, che insieme a Jillian Jacobs, nel 2018, scriveva la sceneggiatura di uno dei più grandi e inattesi successi della casa di produzione fondata da Jason Blum. Il thriller che, sull’onda del successo dei film sulla tavola Ouija (prodotti da Platinum Dunes), declinava all’horror il celebre “gioco della bottiglia” delle feste del liceo: Obbligo o verità. A monte di giudizi della critica “ondivaghi”, per il film diretto da Jeff Wadlow si parlava di un budget di 3,5 milioni trasformati con il passaparola in 82,9 milioni al botteghino.

Intascato quel successo, Roach, Jacobs e il regista Wadlow vennero tutti imbarcati, sempre da Blumhouse, in un progetto che se vogliamo, almeno sulla carta, poteva assomigliare già a The white lotus: il remake cinematografico del 2020 della serie tv Fantasy Island. A monte di un giudizio della critica decisamente negativo, ma soprattutto a causa della chiusura delle sale per il COVID-19, da un budget “raddoppiato” a 7 milioni, motivato anche dalle riprese effettuate nelle isole Fiji, la pellicola macinò “solo” 47.3 milioni.

Dal 2020 al 2024, inizio della produzione di Drop, Roach e Jacobs erano rimasti in stand-by. Il regista Jeff Wadlow nel frattempo aveva invece realizzato il piuttosto controverso “horror sull’orsetto” Imaginary.

Messa al centro della produzione una attrice in ascesa come Meghann Fahy, attualmente nelle sale anche con Il bambino di cristallo (ma reduce anche dalla serie di successo The Perfect Couple del 2024 e già attesissima per la prossima serie tv Sirens, al fianco di Julianne Moore), Landon, Roach e Jacobs, con un budget di 10 milioni di dollari, avevano l’opportunità di collaborare insieme e iniziare le prime riprese in Irlanda, verso la fine di aprile 2024.

Molta importanza veniva data alla “caratterizzazione” del Palate: a tutti gli effetti un ambiente che diventa co-protagonista della vicenda. Per una fotografia in grado di valorizzare i dettagli veniva scelto l’esperto Marc Spicer (Escape Room 1 e 2, Lights Out). Per le scenografie, claustrofobiche e raffinate, è stata chiamata Susie Cullen (Abigail). Per un montaggio e una colonna sonora in linea con le opere “concitate e divertenti” di Lando, venivano richiamati suoi vecchi collaboratori come Ben Baudhuin (Freaky, Viral, Auguri per la tua morte, ma pure Oculus di Flanagan e il folle action in prima persona Hardcore! di Ilya Naishuller) e Bear McCreary (Auguri per la tua morte, Freaky, ma anche Demeter, La bambola assassina).

Come co-protagonista veniva scelto in prima battuta Brandon Sklenar, attore delle serie tv Westworld e 1923. Al cast si sono aggiunti poi Jeffery Self (nel ruolo del cameriere Matt), Gabrielle Ryan Spring (la barista Cara), Violette Beane (la “zia spasso”).

 


In sala

Drop rientra a pieno titolo in quella categoria di film in cui il protagonista si trova suo malgrado al telefono con “qualcuno di pericoloso”. Ci sono film dall’animo più action-thriller come Cellular di David R.Ellis, In linea con l’assassino di Schumacher, la saga di  Die Hard di John McTiernan o la serie Taken prodotta da Besson. Ci sono film dall’animo più horror come Scream di Wes Craven o Quando chiama uno sconosciuto di Fred Walton. È un genere sconfinato che potremmo espandere a trame in cui l’interlocutore è soprannaturale (come in The Call, The Phone, The Ring, Black Phone), trame in cui la comunicazione avviene tramite una app misteriosa (Bedevil, Countdown, Nerve), trame che riguardano le video-chiamate (Smile, Unfriended, Friend Request, Host).

Christopher B.Landon però sa distinguersi all’interno dei film di genere: cavalcare i generi, destrutturarli e rileggerli gioiosamente in un modo molto personale. Giocando con sarcastico e black humor, senso dell’eccesso e sofisticato citazionismo. Spiazzando e scompigliando le regole del gioco in modo rispettoso e al contempo anarchico, Landon ama sorprendere e coccolare lo spettatore.

Tutte cose che si trovano felicemente anche in questo Drop.

Una struttura narrativa da thriller psicologico, crepuscolare e “pensoso”, ma che non disdegna l’idea di “trasformarsi e sfogarsi” in un action movie anni ’80. Personaggi mai unicamente decorativi, che sanno risultare, con poche riuscite battute, profondamente e amabilmente sfaccettati: buffi, romantici e inquietanti.

Una regia attenta e un montaggio ben ritmato sono in grado di rendere movimentato e carico di spunti originali un racconto che è ben oliato, pur se di fatto si svolge quasi in un unico (bellissimo) scenario. 

La scrittura di Roach e Jacobs nelle parti “da commedia” risulta fresca anche grazie all’ottima direzione data agli attori e alla buona complicità che sembra essere nata tra gli interpreti sul set.  

I momenti “thriller”, a contrasto dominati per lo più dai silenzi o da flashback carichi di urla e caos, riescono di contro a essere angoscianti e spiazzanti, caricando la storia di una tensione sempre ben gestita, mai “posticcia”.

I momenti più propriamente “action” sono mattissimi e fuori di testa.

Un plauso al modo in cui i “messaggi dello sconosciuto” interagiscono sulla scena: quasi “prendendone possesso” con caratteri grafici “enormi e freddi” che si dipingono sulle pareti del ristorante. Frasi dal sapore distaccato, crudelmente neutro, che contribuiscono a rendere ancora più alieno e inafferrabile lo “sconosciuto”: una creatura senza forma e senza una voce che ne sveli umori o intenzioni.

Drop diverte e spaventa, anche se forse da un marchio come Blumhouse qualcuno può ricercare dei toni horror o splatter che qui sono poco marcati o quasi assenti. La tensione e l’ironia di Landon a ogni modo non mancano.

Finale

Drop è una pellicola godibilissima che rilegge in modo originale e interessante il genere thriller, grazie a una messa in scena sempre accattivante, personaggi interessanti e un mix di generi cinematografici ben amalgamato. Bravi gli interpreti e tutto il cast tecnico.

Manca forse il guizzo di un’opera “davvero originale” e forse c’è troppo poco horror nella ricetta, ma ci sono tutti gli ingredienti giusti per divertire il pubblico in un’ora e mezza che vola in un attimo, trascinandoci su un divertente ottovolante di emozioni.

Talk0

mercoledì 9 aprile 2025

Guglielmo Tell: la nostra recensione del film d’azione scritto e diretto da Nick Hamm, con protagonista Claes Bang, liberamente tratto dall’opera di Friedrich Schiller.

 


Sinossi

Anno 1307. Il verdeggiante e ricco territorio svizzero era ormai ridotto a una provincia dell’impero degli Asburgo, governato con forse troppo distacco da un re con un occhio solo come Odino, di nome Alberto I (Ben Kingsley).

Gli invasori austriaci razziavano polli e allungavano le mani su giovani contadine, spesso eccedendo in brutalità che alimentavano un malcontento ormai molto difficile da contenere.

Nobili della “vecchia Svizzera”, come il disilluso ex crociato Werner Stauffacher (Rafe Spall) e l’anziano barone di Attinghausen (Jonathan Pryce), erano ormai deboli, divisi e troppo lontani dal mondo per opporsi.

Stauffachen viveva rintanato e accartocciato nella sua taverna, con la combattiva moglie Gertrude (Emily Beecham) che ogni tanto cercava invano di distoglierlo dai vini, ricordandogli l’eroe che era stato in Terra Santa.

L’unico discendente di Attinghauser, Rudenz (Jonah Hauer-King), decideva di non subentrare al comando del cantone per vivere da vassallo nella corte austriaca, a fianco della amata nipote di Alberto I, Bertha (Ellie Bamber). Sperando di ingraziarsi lo zio, anche se la ragazza era già in segreto promessa al balivo Gessler (Connor Swindells): un “premio”, nel caso questi fosse riuscito nell’impresa di debellare le piccole ma insidiose sacche di resistenza che ancora si opponevano al loro potere.

Gessler era giovane e scaltro, fresco di nomina, scelto proprio in ragione della sua ferocia e determinazione. Soprattutto dopo che il soldato Wolfshot era stato brutalmente assassinato dal contadino Konrad Baumgarten, in modo furtivo, mentre faceva il bagno ubriaco in una tinozza che non gli apparteneva. Wolfshot aveva appena violentato e ucciso la moglie di Konrad, ma era comunque un ufficiale austriaco e gli svizzeri da quel momento dovevano imparare a stare al loro posto, con la testa abbassata.

Proprio per” fargli abbassare il capo”, Gessler aveva posto nella città di Altdorf, nella piazza centrale, un palo della cuccagna sormontato da un elmo austriaco, sorvegliato da un piccolo drappello armato. Chi passava era tenuto a inchinarsi all’elmo e agli Asburgo, pena la morte.

Ma gli occhi del balivo puntavano soprattutto su Konrad e chi lo aveva aiutato a fuggire dopo l’omicidio, consentendogli un passaggio sicuro su un lago di Lucerna in piena tempesta. Quel gesto aveva ricevuto inaspettati consensi e intorno al contadino stava nascendo qualcosa di grosso.

I sospetti su chi lo stava aiutando sembravano concentrarsi su Guglielmo Tell (Claes Bang), un cacciatore di cervi del cantone di Uri, dalle parti del massiccio del San Gottardo. Un vecchio crociato ritirato a vita privata, solitario, auto-confinatosi in una fattoria in alta quota con un figlio piccolo, Walter, e una moglie di origine straniera, Suna (Golshifteh Farahani). Tell era famoso e stimato, amico di Attinghausen e celebre per la sua maestria con una grossa balestra a carica. Un’arma pesante e difficile, ma letale: in grado nelle mani esperte di un militare di forare una armatura a maglie o abbattere un cavallo in corsa. Un’arma dotata di dardi molto più grossi e robusti delle tradizionali frecce. Dardi enormi, come quelli che erano stati rinvenuti dal balivo ancora infilzati nei corpi dei cadaveri, nei pressi di alcuni avamposti austriaci recentemente sgominati.

Forse Tell voleva davvero solo rimanere “al di fuori del mondo”: cercare di purificarsi dal troppo sangue versato a Gerusalemme, essere un bravo marito e un padre che insegnava al figlio a diventare un abile cacciatore. Nella ribellione ci era caduto quasi per caso: per un senso di giustizia e seguendo lo spirto ribelle di Gertrude. Doveva essere in principio solo un viaggio notturno per portare in salvo Konrad, presso il suo vecchio compagno d’armi.

Ma gli eventi lo avrebbero portato nella piazza di Altdorf, per sottostare a un gioco sadico ordito dal balivo Gessler. Per dimostrare di non essere un rivoltoso, venendo di conseguenza arrestato e giustiziato, Tell avrebbe dovuto tirare un dardo con la sua balestra, da 25 metri di distanza, colpendo la mela posta sulla testa di suo figlio.

Era il 18 novembre 1307 ed era un tiro impossibile: una umiliazione e insieme una tragedia annunciata. Ma un tiro che avrebbe per sempre cambiato la Storia svizzera. Sarebbe nato così un eroe, che avrebbe di nuovo superato il lago di Lucerna durante una tempesta per poi, per la prima volta, legare iniseme in una confederazione tutti i cantoni. Alla guida di un nuovo popolo rinvigorito, che avrebbe sfidato Gessler e forse anche Alberto I.



Tra storia, leggenda e gli albori del cinema.

 

Ad Altdorf esiste un monumento dedicato a Guglielmo Tell che riporta in incisione la data del 1307, realizzato nel 1895.

Il primo riferimento storico all’eroe risale al 1470 e al Libro Bianco di Sarnen, un manoscritto che raccoglieva le cronache della Confederazione Elvetica. Tornano “tracce di Tell” nel 1545, citato in una strofa della Canzone della fondazione della Confederazione e poi richiamato nel Chronicon Helveticum del 1550. Ogni tanto la storia ha un epilogo tragico che riguarda il Lago di Lucerna, chiamato anche “Lago dei quattro Paesi Fondatori”, ma l’episodio della mela come la nascita della confederazione sono sempre presenti.

Nel 1760 lo studioso Gottlieb Emanuel von Haller, in Guglielmo Tell, Una favola danese, facendo un’opera di mitologia comparata provò a mettere in relazione la figura di Tell con quella di eroi già presenti in saghe del nord europa. Tra questi l’arciere svedese Egil e lo jarl vichingo Palnatoke, del decimo secolo, o i norvegesi Eindridi e Hemingr, dell’undicesimo secolo. Risultano interessanti anche i parallelismi con un leggendario arciere inglese del quattordicesimo secolo, Adam Bell, le cui gesta, ispirate ai rivoltosi della foresta di Inglewood, si dice sia abbiano ispirato anche il mito di Robin Hood. Egil, Palnatoke, Eindridi, Hemingr e Adam Bell erano uomini di popoli e culture diverse, ma avevano tutti avuto a che fare con un sadico che li aveva messi nella condizione di dover tirare una freccia, verso la mela posta sulla testa del proprio figlio o fratello.

Gli svizzeri non apprezzarono molto il lavoro di von Haller, che al più poteva dimostrare la passione del balivo Gessler per il folclore nordico.

Nel 1766 Antoine-Marin Lemierre scrisse un’opera ispirata a Tell, che trovò particolare successo in una riedizione del 1786, all’alba della Rivoluzione francese. Guglielmo Tell divenne così un simbolo caro anche ai francesi, al punto che gli dedicarono il nome di una nave da guerra della loro Tonnant Class.

Si tornò a parlare di Tell quando lo scrittore tedesco Friedrich Schiller, nel 1804, gli dedicò un dramma che nel 1829 sarebbe stato riadattato nel Guglielmo Tell di Gioacchino Rossini.

Il cinema nasceva nel 1891, nel 1902 arrivava nelle sale Viaggio nella Luna di Melies e nel 1903 era già il turno del primo film dedicato a Guglielmo Tell, della durata di 5 minuti, per la regia di Lucien Nonguet, ispirato ancora una volta a Schiller.

Nel 1911 il regista italiano Ugo Falena girò un adattamento di 12 minuti. Seguirono film su Tell nel 1924, 1948, un incompiuto nel 1953 e due serie tv, nel 1958-59 e nel 1987-89. Nel 1928 Chaplin nel film The Circus si ispirava in modo non ufficiale proprio a Tell, ma in genere la figura di un arciere che colpisce la mela sopra la testa di un bambino era ormi diffusissima nella cultura popolare.

Con il film scritto e diretto da Nick Hamm, anche questo ispirato al lavoro di Schiller, Guglielmo Tell torna quindi in sala dopo 77 anni.

Per gli amanti dei manga interessati anche alla storia svizzera, J-Pop qualche anno fa ha pubblicato in Italia Wolfsmund, un fumetto action-horror-storico, molto “sanguigno” e per questo adatto a un pubblico adulto, disegnato con il tratto ruvido e dettagliato del bravo Kuji Mitsuhida: un allievo dell’autore di Berserk, Kentaro Miura. Anche in quest’opera Guglielmo Tell e il figlio Walter hanno un ruolo attivo nelle vicende della nascita della Confederazione, ma la parte da leone la fa un terribile e spietato balivo austriaco.

 


La Produzione

Il Guglielmo Tell di Hamm nasce come una co-produzione Free Turn Films, Tempo Production e Beta Cinema, che lega a livello internazionale Italia, Svizzera e Regno Unito.

Il budget stimato e di 45 milioni di dollari.

Nick Hamm è un regista di Belfast, vincitore di un BAFTA e a lungo direttore della Royal Shakespeare Company di Londra. Di recente è stato autore del dramma politico The Journey e del divertente “comedy thriller” Driven, sulla rocambolesca nascita della DMC DeLorean resa celebre dal film Ritorno al Futuro. Tra i suoi film anche il thriller psicologico The Hole, con Keira Knightley e l’horror Godsend con Robert De Niro.

Le riprese, in lingua inglese, si sono svolte in Alto Adige, nel mese di giugno del 2023.

A interpretare il ruolo dell’eroe è stato chiamato il bravo e versatile attore danese Claes Bang, noto per il suo ruolo principale nel cult drammatico The Square di Ruben Ostlund, del 2017, ma anche per il cult action The Northman di Robert Eggers, del 2022.

Il terribile ma affascinante balivo Gessler è interpretato da un lunare Connor Ryan Swindells: già protagonista del dramma psicologico The Vanishing, del 2018, ma anche del cult horror Barbariens di Charles Dorfman, del 2021. Nel cast anche Rafe Spall (Hot Fuzz, The World’s End, Life of P, Prometheus, Jurassic World: Il regno perduto), Golshifteh Farahani (Extraction 1 e 2), Jonah Hauer-King (il principe Eric del live action de La sirenetta)

In piccole ma sfiziose parti, appaiono anche due giganti come Jonathan Pryce e Ben Kingsley.

La colonna sonora è  del bravo Steven Price (Attack the block, Batman Begins, Scott Pilgrim vs the World, Lord of the Ring). Le scenografie sono curate anche dalla brava Chiara Balducci (Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Perfetti Sconosciuti). I costumi sono di Francesca Sartori (Il mestiere delle armi, Alatriste).

Il Montaggio è opera di Yan Miles (Sherlock), la fotografia di Jamie Ramsey (Omicidio nel West End, District 9).

Guglielmo Tell appare a tutti gli effetti come un’opera monumentale, con alle spalle una produzione significativa tanto sul piano tecnico che quello artistico. Ha una durata di 133 minuti ed è già in produzione un secondo film, provvisoriamente diviso in due parti da due ore l’una.

 


In sala

In sala il film di Nick Hamm ha l’ambizione di confrontarsi con i grandi film action storico/epici del passato, quasi mischiando le atmosfere del Robin Hood – Il principe dei ladri con Kevin Costner al Braveheart – Cuore Impavido di Mel Gibson.

La storia si apre con la celebre scena-chiave della mela, per poi “sospendere il tiro” e raccontarne gli antefatti, in un primo tempo che profuma effettivamente del Robin Hood con la colonna sonora di Brian Adams. Tra le atmosfere rarefatte di una natura rigogliosa ma “nebbiosa”, tra dolorose memorie delle Crociate e agrodolci quadretti di vita familiare, si racconta di una lotta nascosta e clandestina, a tratti quasi “interiore”, con quello che appare molto simile a un ottimo archetipo dello sceriffo di Nottingham: un rappresentante di un potere tiranno amabilmente spietato, quasi al punto da risultare grottesco.

Il secondo tempo è più dalle parti del colossal di Gibson. Entrano in scena la politica e gli intrighi, con l’azione che si sposta sempre di più su enormi campi di battaglia.

I combattimenti all’arma bianca risultano chiari e carichi di dettagli truculenti. Le scene di assedio tra le mura e i sotterranei sanno essere claustrofobiche e opprimenti il giusto.

I momenti in cui i personaggi femminili vengono messi da soli a combattere contro soldati brutali funzionano bene: sanno essere molto angoscianti, quasi horror, alimentando il senso di frustrazione che poi “trova sfogo” nelle scene di guerra.  

I “discorsi motivazionali” arrivano puntuali, prima di ogni scontro particolarmente cruento, risultando a tratti esagerati ma pure divertenti: citando La canzone della Confederazione Svizzera ma pure Braveheart e Ogni maledetta domenica.

Si avverte il genuino intento di raccontare, pur in modo didascalico, la complessità con cui è nata la Federazione Svizzera. Evidenziando il ruolo ambivalente dei baroni, ma anche dando voce alla funzione di mediazione svolta dalla religione, al ruolo dei riti e tradizioni nel suggellare i patti, alla sincera volontà di indipendenza che da sempre caratterizza quelle terre.

Pur non possedendo particolari picchi drammaturgici, la sceneggiatura di Hamm funziona bene nell’ottica di un action movie “classico”, potremmo dire “dei primi anni ’90”.

I personaggi di Tell e Gessler possono apparire “semplici”, a tratti pure stereotipati, ma sia Bang che Swindells riescono a infondervi una grande carica, sia sul piano dell’azione fisica che in una interpretazione “divertitamente” sopra le righe. Il resto del cast risulta funzionale alla messa in scena, con l’eccezione di un eccentrico Ben Kingsley in versione “Odino”, con “occhio dorato”, che pur nella sua breve parte riesce sembra a fare spettacolo e rubare la scena.

I paesaggi dell’Alto Adige scelti per rappresentare la Svizzera del 1300 sono sempre evocativi e conferiscono, insieme alla musica e alla fotografia, una buona immersività nella vicenda.

Tutti i costumi, castelli, piazze e manieri di montagna, realizzati dal dipartimento artistico, risultano credibili e accurati, anche se l’azione durante gli scontri con gli eserciti a tratti appare un po' schematica. Il film di Hamm riesce a farsi voler bene dagli appassionati del genere, anche se, come “action medioevale”, non può certo ambire al grado di perfezione tecnica e visiva di gioielli come Excalibur di Boorman o L’amore e il sangue di Verhoeven.

 


Finale

Il Guglielmo Tell di Hamm è un film action “vecchio stampo”, divertente e molto ben confezionato, in grado di intrattenere a dovere gli amanti del genere storico/medioevale ma risultare interessante anche per uno spettatore occasionale, magari incuriosito da un tema oggi poco rappresentato.

La trama è semplice e può ricordare amorevolmente il Robin Hood – Principe dei Ladri con Costner, quanto il Braveheart di Gibson. Gli attori danno una convincente prova fisica nei combattimenti e sembrano essersi divertiti un mondo nell’interpretare dei ruoli amabilmente sopra le righe. Molto buoni il comparto artistico e la colonna sonora.

Lodevole il tentativo pur didascalico di raccontare l’origine della Federazione Svizzera, attraverso la descrizione del ruolo di alcune parti sociali.

Forse non il film adatto se cercate un intrattenimento moderno e frenetico, ma se amate gli scontri medioevali “come una volta” e avete accanto una sala che proietta questo film su uno schermo abbastanza grande, sapete già cosa fare.

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martedì 8 aprile 2025

Cure: la nostra recensione dell’horror-psicologico del 1997, scritto e diretto dal regista di culto Kiyoshi Kurosawa, che oggi arriva al cinema in versione restaurata in italiano grazie a Double Line

 


Sinossi: ci troviamo in una Tokyo notturna e disperata di fine anni ‘90. Con la “Bubble Economy” ormai scoppiata, le persone ormai si trascinano senza sogni e tanta rabbia tra periferie suburbane fatiscenti, reparti di psichiatria e luoghi del crimine, bar e appartamenti domestici simili a piccoli inferni. 

Il dipartimento di polizia metropolitana è alle prese con una serie di omicidi di cui fatica a parlare ancora con la stampa. I corpi delle vittime appaiono profondamente mutilati, quasi distrutti dalla foga, ma tutti accomunanti da due profondi tagli verticali. Tagli che partono dai lati del collo e arrivano sul lato opposto alle estremità del petto, andando a intersecarsi come una “x”, all’altezza della carotide.

I colpevoli hanno quasi tutti cercato di togliersi la vita dopo aver commesso il crimine, al punto che la scoperta dei corpi mutilati spesso è avvenuta solo una volta segnalato alle autorità in zona un suicidio tentato o riuscito.   

Non si riscontrano legame tra i colpevoli, salvo il fatto che dichiarano tutti di non ricordarsi nulla degli eventi che li hanno portati a commettere il gesto estremo. 

Descrivono il momento dell’esecuzione, di cui in genere sono vittime loro coniugi o colleghi, come un “atto del tutto naturale”, spontaneo. Quasi una “riappacificazione”, anche se tutti sono convinti di non aver mai nutrito dei risentimenti reali verso chi hanno ucciso.

Il solitario e umorale detective Takabe (Koji Yakusho) e il misurato medico forense Sakuma (Tsuyoshi Ujiki) seguono una matassa sempre più ingarbugliata e surreale, fino a trovasi presto a dover cercare una misteriosa figura di nome Mamiya (Masato Hagiwara). 

Appare come un ragazzo disordinato e confuso, spesso comparso dal nulla su una spiaggia isolata o sul tetto di un vecchio edificio. Sembra del tutto privo di memoria a breve tempo ma ha modi gentili, quasi timidi, è in grado di entrare in forte empatia con chiunque si trovi ad avere a che fare con lui.

Può apparire fragile e smunto, ma per lo più sinistro: una creatura simile a un fantasma che predilige nascondersi in stanze del tutto prive di luce, parlando sottovoce, emotivamente si definisce “un guscio vuoto” ma sostiene di aver trovato un modo infallibile per “aiutare le persone”. Una tecnica che permette a chiunque di liberarsi delle proprie paure inconsce. Indagare su Mamiya spingerà inevitabilmente i due detective a fare i conti anche con la sua “cura”. 


L’opera di un regista in grado di leggere la Storia in un modo spesso profetico

Nato a Kobe nel 1955, Kiyosuke Kurosawa girava piccoli film fin dai tempi del liceo, iniziando a utilizzare il formato super 8 ai tempi in cui studiava alla Rikkyo University di Tokyo. Film per lo più “di genere”, dall’Erotico (in Giappone i Pink Movie) agli Yakuza Movie, ma sempre dotati di una grande originalità e “voglia di introspezione”. 

Nel 1989 realizzava il divertente horror slasher Sweet Home, diventato nello stesso anno un videogame di Capcom per il Nintendo 8bit firmato da Tokuro Fujiwara. Proprio rielaborando moltissime idee di quel gioco, unite alle atmosfere del film di Kurosawa e alle capacità tecniche nel nuovo sistema Playstation, Fujiwara nel 1996 realizzò il primo episodio della saga di Resident Evil (in originale Biohazard), capostipite del nuovo genere “survival horror” è uno dei fenomeni mass-mediali più famosi di sempre.

Tornando invece al 1997, a due anni di distanza dall’horror psicologico Seven, di David Fincher, Fujiwara realizzava giocando quasi nello stesso territorio visivo e psicologico l’altrettanto cupo e disperato Curse. Tuttavia la materia in mano a Kurosawa assumeva contorni del tutto nuovi, organali e mistici, forse anche in ragione delle atmosfere nipponiche. Il ritmo ruvido di una indagine hard boiled si fondeva così ad situazioni più “rarefatte”, silenziose e dilatate, con scene “sospese”, a tratti immobili, quasi “oniriche”. Una costruzione visiva ed emotiva che accentuava il profondo senso senso di malinconia e nichilismo alla base della storia. Molti dei tratti che sarebbero andati a confluire di lì a poco nella “grammatica” del cosiddetto cinema  “J-horror”.

Contorni che si sono fatti a un certo quasi inquietanti, quando il 20 marzo 1995, nel mezzo della produzione del film, avvenne a Tokyo il tragico attentato alla metropolitana, che portò alla morte di 13 persone e moltissimi feriti tramite l’utilizzo del gas Sarin. 

Kurosawa stava realizzando un film che parlava di qualcosa di sinistro quanti molto simile a quanto era da poco successo nella realtà. L’attentato era stato rivendicato da una setta e il regista Kurosawa si decise a cambiare in Cure il titolo originale dell’opera, Evangelist, proprio per cercare di tenere le distanze da quell’evento. 

Tuttavia si potrebbe forse affermare che, come le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki hanno portato alla creazione cinematografica di Godzilla, il clima da fine del mondo dell’ultima parte degli anni ‘90, unito purtroppo anche alla memoria storica dell’attentato alla metropolitana di Tokyo, hanno di fatto portato ad amplificare le paure e suggestioni alla base del J-Horror, fino a farne un fenomeno di portata internazionale. 

Un fenomeno apprezzato, più volte “clonato”, anche se spesso non compreso fino in fondo. 

Un fenomeno idealmente iniziato con il Ring di Hideo Nakata del 1998, che ha trovato il suo apice  nel 2022, con Ju-Oh di Takashi Shimizu (ma che ha influenzato anche pellicole di Hong Kong come The Eye dei Pang Bros). 

In questa gloriosa corrente anche Kurosawa avrebbe comunque fatto sentire ulteriormente la sua voce, con il suo “unico e sperimentale” Pulse, del 2001 (finito pure lui inevitabilmente per “godere” di un remake “USA e getta”). Se il J-horror, che lui aveva contribuito a creare, affrontava principalmente i legami contorti tra “passato e presente”, con storie che sviluppavano temi come “la memoria e il rancore” in chiave horror, con Pulse Kurosawa guardava già ai legami tra “presente e futuro”. L’autore in Pulse raccontava l’alienazione umana causata da un contatto sempre più simbiotico e tossico con il mondo dei computer e dei social. Anticipando di anni il tema degli hikikomori digitali e la “smaterializzazione” dei rapporti umani che oggi soprattutto patiamo.  

Kurosawa è ancora attivissimo: dopo opere interessanti pur minori (come Retribution del 2006) e dopo aver toccato anche altri generi di racconto “più leggeri”, è  tornato nel 2024 al thriller e al surreale, con pellicole come Serpent’s Path e Cloud.

Lo scontro tra un uomo di legge e un uomo di scienza deviato

Un giovane ma imponente Koji Yakusho in Cure del 1997 interpreta il ruolo del brusco e malinconico detective Takabe, ma lo abbiamo già visto (nel “futuro”) nel 2010 come uomo maturo a capo di un gruppo di ronin nel bellissimo action 13 Assassins di Takashi Miike, come di recente è stato il vecchietto dallo sguardo sognante protagonista della meravigliosa pellicola malinconica di Wim Wenders, Perfect Days

Lo “sbrindellato” ma diabolico Kunio Mamiya, l’oscuro “burattinaio” dietro alla vicenda di Cure, ha invece il volto di Masato Hagiwara: attore, narratore, sassofonista e pure giocatore professionista di mahjong. Lo abbiamo visto nel disaster movie Fukushima 50, nel supereroistico demenziale Kamen Teacher e pure nell’imperdibile live action di Sampei il ragazzo pescatore del 2009; ma l’aria del giocatore di mahjong professionista, neutra quanto impalpabile, la tiene con convinzione anche in questa pellicola di Kurosawa.

Il personaggio di Yakusho cerca la logica, muovendo i pugni con concretezza. Vuole a tutti i costi preservare una “maschera di facciata, rassicurante e professionale”, nonostante viva un dolore familiare indicibile (pure a se stesso) e tutti i giorni si confronti con la sua “impotenza professionale” nel cambiare il mondo in meglio. 

Il personaggio di Hagiwara, che recentemente qualcuno (Nocturno) ha felicemente paragonato al ruolo di Nicolas Cage in Longlegs di Oz Perkins, non muove quasi per niente le mani. Ama invece moltissimo l’idea che la “maschera di facciata, rassicurante e professionale” del detective cada. Per far cadere quella maschera, insieme alle maschere di tutte le sue “vittime”, l’incolore Mamiya le trascina in luoghi bui simili a trappole emotive. Luoghi intimi di orrore suburbano decadente (ottima la fotografia di Tokusho Kikumura): appartati, oscuri, ma in fondo molto simili a una stanza da psicanalisi. Caverne dalle quali può solo emergere dalle vittime, con le “suggestioni giuste”, un’ombra.

Un’ombra che in senso “junghiano” è manifestazione dell’inconscio più inaccettabile socialmente: ciò che in genere una maschera cerca di trattenere. 

Attraverso il personaggio di Mamiya, Kurosawa ci “svela” l’alta manipolabilità di chi già vive sotto stress. Uno stress che se era alto nel Giappone del 1995 ai tempi della produzione di Cure, con i fanatici che hanno attaccato la metropolitana, oggi non sembra molto calato. Soprattutto in una società che ha ormai incorporato anche l’alienazione digitale di Pulse

Rimane il duello tra il detective e il “colpevole”, ma l’esito è giusto che lo scopriate in sala.

Finale

Cure è un film invecchiato bellissimo e che oggi, in un mondo carico di forti conflittualità emotive, appare ancor più attuale, urgente. Un film meraviglioso, con ottima fotografia, musica e ritmo narrativo, attori molto coinvolti e una trama che sa insinuarsi sotto la pelle degli spettatori. Suscitando domande dalla risposta amara. Come solo i migliori horror di sempre sanno fare. 

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