mercoledì 9 aprile 2025

Guglielmo Tell: la nostra recensione del film d’azione scritto e diretto da Nick Hamm, con protagonista Claes Bang, liberamente tratto dall’opera di Friedrich Schiller.

 


Sinossi

Anno 1307. Il verdeggiante e ricco territorio svizzero era ormai ridotto a una provincia dell’impero degli Asburgo, governato con forse troppo distacco da un re con un occhio solo come Odino, di nome Alberto I (Ben Kingsley).

Gli invasori austriaci razziavano polli e allungavano le mani su giovani contadine, spesso eccedendo in brutalità che alimentavano un malcontento ormai molto difficile da contenere.

Nobili della “vecchia Svizzera”, come il disilluso ex crociato Werner Stauffacher (Rafe Spall) e l’anziano barone di Attinghausen (Jonathan Pryce), erano ormai deboli, divisi e troppo lontani dal mondo per opporsi.

Stauffachen viveva rintanato e accartocciato nella sua taverna, con la combattiva moglie Gertrude (Emily Beecham) che ogni tanto cercava invano di distoglierlo dai vini, ricordandogli l’eroe che era stato in Terra Santa.

L’unico discendente di Attinghauser, Rudenz (Jonah Hauer-King), decideva di non subentrare al comando del cantone per vivere da vassallo nella corte austriaca, a fianco della amata nipote di Alberto I, Bertha (Ellie Bamber). Sperando di ingraziarsi lo zio, anche se la ragazza era già in segreto promessa al balivo Gessler (Connor Swindells): un “premio”, nel caso questi fosse riuscito nell’impresa di debellare le piccole ma insidiose sacche di resistenza che ancora si opponevano al loro potere.

Gessler era giovane e scaltro, fresco di nomina, scelto proprio in ragione della sua ferocia e determinazione. Soprattutto dopo che il soldato Wolfshot era stato brutalmente assassinato dal contadino Konrad Baumgarten, in modo furtivo, mentre faceva il bagno ubriaco in una tinozza che non gli apparteneva. Wolfshot aveva appena violentato e ucciso la moglie di Konrad, ma era comunque un ufficiale austriaco e gli svizzeri da quel momento dovevano imparare a stare al loro posto, con la testa abbassata.

Proprio per” fargli abbassare il capo”, Gessler aveva posto nella città di Altdorf, nella piazza centrale, un palo della cuccagna sormontato da un elmo austriaco, sorvegliato da un piccolo drappello armato. Chi passava era tenuto a inchinarsi all’elmo e agli Asburgo, pena la morte.

Ma gli occhi del balivo puntavano soprattutto su Konrad e chi lo aveva aiutato a fuggire dopo l’omicidio, consentendogli un passaggio sicuro su un lago di Lucerna in piena tempesta. Quel gesto aveva ricevuto inaspettati consensi e intorno al contadino stava nascendo qualcosa di grosso.

I sospetti su chi lo stava aiutando sembravano concentrarsi su Guglielmo Tell (Claes Bang), un cacciatore di cervi del cantone di Uri, dalle parti del massiccio del San Gottardo. Un vecchio crociato ritirato a vita privata, solitario, auto-confinatosi in una fattoria in alta quota con un figlio piccolo, Walter, e una moglie di origine straniera, Suna (Golshifteh Farahani). Tell era famoso e stimato, amico di Attinghausen e celebre per la sua maestria con una grossa balestra a carica. Un’arma pesante e difficile, ma letale: in grado nelle mani esperte di un militare di forare una armatura a maglie o abbattere un cavallo in corsa. Un’arma dotata di dardi molto più grossi e robusti delle tradizionali frecce. Dardi enormi, come quelli che erano stati rinvenuti dal balivo ancora infilzati nei corpi dei cadaveri, nei pressi di alcuni avamposti austriaci recentemente sgominati.

Forse Tell voleva davvero solo rimanere “al di fuori del mondo”: cercare di purificarsi dal troppo sangue versato a Gerusalemme, essere un bravo marito e un padre che insegnava al figlio a diventare un abile cacciatore. Nella ribellione ci era caduto quasi per caso: per un senso di giustizia e seguendo lo spirto ribelle di Gertrude. Doveva essere in principio solo un viaggio notturno per portare in salvo Konrad, presso il suo vecchio compagno d’armi.

Ma gli eventi lo avrebbero portato nella piazza di Altdorf, per sottostare a un gioco sadico ordito dal balivo Gessler. Per dimostrare di non essere un rivoltoso, venendo di conseguenza arrestato e giustiziato, Tell avrebbe dovuto tirare un dardo con la sua balestra, da 25 metri di distanza, colpendo la mela posta sulla testa di suo figlio.

Era il 18 novembre 1307 ed era un tiro impossibile: una umiliazione e insieme una tragedia annunciata. Ma un tiro che avrebbe per sempre cambiato la Storia svizzera. Sarebbe nato così un eroe, che avrebbe di nuovo superato il lago di Lucerna durante una tempesta per poi, per la prima volta, legare iniseme in una confederazione tutti i cantoni. Alla guida di un nuovo popolo rinvigorito, che avrebbe sfidato Gessler e forse anche Alberto I.



Tra storia, leggenda e gli albori del cinema.

 

Ad Altdorf esiste un monumento dedicato a Guglielmo Tell che riporta in incisione la data del 1307, realizzato nel 1895.

Il primo riferimento storico all’eroe risale al 1470 e al Libro Bianco di Sarnen, un manoscritto che raccoglieva le cronache della Confederazione Elvetica. Tornano “tracce di Tell” nel 1545, citato in una strofa della Canzone della fondazione della Confederazione e poi richiamato nel Chronicon Helveticum del 1550. Ogni tanto la storia ha un epilogo tragico che riguarda il Lago di Lucerna, chiamato anche “Lago dei quattro Paesi Fondatori”, ma l’episodio della mela come la nascita della confederazione sono sempre presenti.

Nel 1760 lo studioso Gottlieb Emanuel von Haller, in Guglielmo Tell, Una favola danese, facendo un’opera di mitologia comparata provò a mettere in relazione la figura di Tell con quella di eroi già presenti in saghe del nord europa. Tra questi l’arciere svedese Egil e lo jarl vichingo Palnatoke, del decimo secolo, o i norvegesi Eindridi e Hemingr, dell’undicesimo secolo. Risultano interessanti anche i parallelismi con un leggendario arciere inglese del quattordicesimo secolo, Adam Bell, le cui gesta, ispirate ai rivoltosi della foresta di Inglewood, si dice sia abbiano ispirato anche il mito di Robin Hood. Egil, Palnatoke, Eindridi, Hemingr e Adam Bell erano uomini di popoli e culture diverse, ma avevano tutti avuto a che fare con un sadico che li aveva messi nella condizione di dover tirare una freccia, verso la mela posta sulla testa del proprio figlio o fratello.

Gli svizzeri non apprezzarono molto il lavoro di von Haller, che al più poteva dimostrare la passione del balivo Gessler per il folclore nordico.

Nel 1766 Antoine-Marin Lemierre scrisse un’opera ispirata a Tell, che trovò particolare successo in una riedizione del 1786, all’alba della Rivoluzione francese. Guglielmo Tell divenne così un simbolo caro anche ai francesi, al punto che gli dedicarono il nome di una nave da guerra della loro Tonnant Class.

Si tornò a parlare di Tell quando lo scrittore tedesco Friedrich Schiller, nel 1804, gli dedicò un dramma che nel 1829 sarebbe stato riadattato nel Guglielmo Tell di Gioacchino Rossini.

Il cinema nasceva nel 1891, nel 1902 arrivava nelle sale Viaggio nella Luna di Melies e nel 1903 era già il turno del primo film dedicato a Guglielmo Tell, della durata di 5 minuti, per la regia di Lucien Nonguet, ispirato ancora una volta a Schiller.

Nel 1911 il regista italiano Ugo Falena girò un adattamento di 12 minuti. Seguirono film su Tell nel 1924, 1948, un incompiuto nel 1953 e due serie tv, nel 1958-59 e nel 1987-89. Nel 1928 Chaplin nel film The Circus si ispirava in modo non ufficiale proprio a Tell, ma in genere la figura di un arciere che colpisce la mela sopra la testa di un bambino era ormi diffusissima nella cultura popolare.

Con il film scritto e diretto da Nick Hamm, anche questo ispirato al lavoro di Schiller, Guglielmo Tell torna quindi in sala dopo 77 anni.

Per gli amanti dei manga interessati anche alla storia svizzera, J-Pop qualche anno fa ha pubblicato in Italia Wolfsmund, un fumetto action-horror-storico, molto “sanguigno” e per questo adatto a un pubblico adulto, disegnato con il tratto ruvido e dettagliato del bravo Kuji Mitsuhida: un allievo dell’autore di Berserk, Kentaro Miura. Anche in quest’opera Guglielmo Tell e il figlio Walter hanno un ruolo attivo nelle vicende della nascita della Confederazione, ma la parte da leone la fa un terribile e spietato balivo austriaco.

 


La Produzione

Il Guglielmo Tell di Hamm nasce come una co-produzione Free Turn Films, Tempo Production e Beta Cinema, che lega a livello internazionale Italia, Svizzera e Regno Unito.

Il budget stimato e di 45 milioni di dollari.

Nick Hamm è un regista di Belfast, vincitore di un BAFTA e a lungo direttore della Royal Shakespeare Company di Londra. Di recente è stato autore del dramma politico The Journey e del divertente “comedy thriller” Driven, sulla rocambolesca nascita della DMC DeLorean resa celebre dal film Ritorno al Futuro. Tra i suoi film anche il thriller psicologico The Hole, con Keira Knightley e l’horror Godsend con Robert De Niro.

Le riprese, in lingua inglese, si sono svolte in Alto Adige, nel mese di giugno del 2023.

A interpretare il ruolo dell’eroe è stato chiamato il bravo e versatile attore danese Claes Bang, noto per il suo ruolo principale nel cult drammatico The Square di Ruben Ostlund, del 2017, ma anche per il cult action The Northman di Robert Eggers, del 2022.

Il terribile ma affascinante balivo Gessler è interpretato da un lunare Connor Ryan Swindells: già protagonista del dramma psicologico The Vanishing, del 2018, ma anche del cult horror Barbariens di Charles Dorfman, del 2021. Nel cast anche Rafe Spall (Hot Fuzz, The World’s End, Life of P, Prometheus, Jurassic World: Il regno perduto), Golshifteh Farahani (Extraction 1 e 2), Jonah Hauer-King (il principe Eric del live action de La sirenetta)

In piccole ma sfiziose parti, appaiono anche due giganti come Jonathan Pryce e Ben Kingsley.

La colonna sonora è  del bravo Steven Price (Attack the block, Batman Begins, Scott Pilgrim vs the World, Lord of the Ring). Le scenografie sono curate anche dalla brava Chiara Balducci (Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Perfetti Sconosciuti). I costumi sono di Francesca Sartori (Il mestiere delle armi, Alatriste).

Il Montaggio è opera di Yan Miles (Sherlock), la fotografia di Jamie Ramsey (Omicidio nel West End, District 9).

Guglielmo Tell appare a tutti gli effetti come un’opera monumentale, con alle spalle una produzione significativa tanto sul piano tecnico che quello artistico. Ha una durata di 133 minuti ed è già in produzione un secondo film, provvisoriamente diviso in due parti da due ore l’una.

 


In sala

In sala il film di Nick Hamm ha l’ambizione di confrontarsi con i grandi film action storico/epici del passato, quasi mischiando le atmosfere del Robin Hood – Il principe dei ladri con Kevin Costner al Braveheart – Cuore Impavido di Mel Gibson.

La storia si apre con la celebre scena-chiave della mela, per poi “sospendere il tiro” e raccontarne gli antefatti, in un primo tempo che profuma effettivamente del Robin Hood con la colonna sonora di Brian Adams. Tra le atmosfere rarefatte di una natura rigogliosa ma “nebbiosa”, tra dolorose memorie delle Crociate e agrodolci quadretti di vita familiare, si racconta di una lotta nascosta e clandestina, a tratti quasi “interiore”, con quello che appare molto simile a un ottimo archetipo dello sceriffo di Nottingham: un rappresentante di un potere tiranno amabilmente spietato, quasi al punto da risultare grottesco.

Il secondo tempo è più dalle parti del colossal di Gibson. Entrano in scena la politica e gli intrighi, con l’azione che si sposta sempre di più su enormi campi di battaglia.

I combattimenti all’arma bianca risultano chiari e carichi di dettagli truculenti. Le scene di assedio tra le mura e i sotterranei sanno essere claustrofobiche e opprimenti il giusto.

I momenti in cui i personaggi femminili vengono messi da soli a combattere contro soldati brutali funzionano bene: sanno essere molto angoscianti, quasi horror, alimentando il senso di frustrazione che poi “trova sfogo” nelle scene di guerra.  

I “discorsi motivazionali” arrivano puntuali, prima di ogni scontro particolarmente cruento, risultando a tratti esagerati ma pure divertenti: citando La canzone della Confederazione Svizzera ma pure Braveheart e Ogni maledetta domenica.

Si avverte il genuino intento di raccontare, pur in modo didascalico, la complessità con cui è nata la Federazione Svizzera. Evidenziando il ruolo ambivalente dei baroni, ma anche dando voce alla funzione di mediazione svolta dalla religione, al ruolo dei riti e tradizioni nel suggellare i patti, alla sincera volontà di indipendenza che da sempre caratterizza quelle terre.

Pur non possedendo particolari picchi drammaturgici, la sceneggiatura di Hamm funziona bene nell’ottica di un action movie “classico”, potremmo dire “dei primi anni ’90”.

I personaggi di Tell e Gessler possono apparire “semplici”, a tratti pure stereotipati, ma sia Bang che Swindells riescono a infondervi una grande carica, sia sul piano dell’azione fisica che in una interpretazione “divertitamente” sopra le righe. Il resto del cast risulta funzionale alla messa in scena, con l’eccezione di un eccentrico Ben Kingsley in versione “Odino”, con “occhio dorato”, che pur nella sua breve parte riesce sembra a fare spettacolo e rubare la scena.

I paesaggi dell’Alto Adige scelti per rappresentare la Svizzera del 1300 sono sempre evocativi e conferiscono, insieme alla musica e alla fotografia, una buona immersività nella vicenda.

Tutti i costumi, castelli, piazze e manieri di montagna, realizzati dal dipartimento artistico, risultano credibili e accurati, anche se l’azione durante gli scontri con gli eserciti a tratti appare un po' schematica. Il film di Hamm riesce a farsi voler bene dagli appassionati del genere, anche se, come “action medioevale”, non può certo ambire al grado di perfezione tecnica e visiva di gioielli come Excalibur di Boorman o L’amore e il sangue di Verhoeven.

 


Finale

Il Guglielmo Tell di Hamm è un film action “vecchio stampo”, divertente e molto ben confezionato, in grado di intrattenere a dovere gli amanti del genere storico/medioevale ma risultare interessante anche per uno spettatore occasionale, magari incuriosito da un tema oggi poco rappresentato.

La trama è semplice e può ricordare amorevolmente il Robin Hood – Principe dei Ladri con Costner, quanto il Braveheart di Gibson. Gli attori danno una convincente prova fisica nei combattimenti e sembrano essersi divertiti un mondo nell’interpretare dei ruoli amabilmente sopra le righe. Molto buoni il comparto artistico e la colonna sonora.

Lodevole il tentativo pur didascalico di raccontare l’origine della Federazione Svizzera, attraverso la descrizione del ruolo di alcune parti sociali.

Forse non il film adatto se cercate un intrattenimento moderno e frenetico, ma se amate gli scontri medioevali “come una volta” e avete accanto una sala che proietta questo film su uno schermo abbastanza grande, sapete già cosa fare.

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martedì 8 aprile 2025

Cure: la nostra recensione dell’horror-psicologico del 1997, scritto e diretto dal regista di culto Kiyoshi Kurosawa, che oggi arriva al cinema in versione restaurata in italiano grazie a Double Line

 


Sinossi: ci troviamo in una Tokyo notturna e disperata di fine anni ‘90. Con la “Bubble Economy” ormai scoppiata, le persone ormai si trascinano senza sogni e tanta rabbia tra periferie suburbane fatiscenti, reparti di psichiatria e luoghi del crimine, bar e appartamenti domestici simili a piccoli inferni. 

Il dipartimento di polizia metropolitana è alle prese con una serie di omicidi di cui fatica a parlare ancora con la stampa. I corpi delle vittime appaiono profondamente mutilati, quasi distrutti dalla foga, ma tutti accomunanti da due profondi tagli verticali. Tagli che partono dai lati del collo e arrivano sul lato opposto alle estremità del petto, andando a intersecarsi come una “x”, all’altezza della carotide.

I colpevoli hanno quasi tutti cercato di togliersi la vita dopo aver commesso il crimine, al punto che la scoperta dei corpi mutilati spesso è avvenuta solo una volta segnalato alle autorità in zona un suicidio tentato o riuscito.   

Non si riscontrano legame tra i colpevoli, salvo il fatto che dichiarano tutti di non ricordarsi nulla degli eventi che li hanno portati a commettere il gesto estremo. 

Descrivono il momento dell’esecuzione, di cui in genere sono vittime loro coniugi o colleghi, come un “atto del tutto naturale”, spontaneo. Quasi una “riappacificazione”, anche se tutti sono convinti di non aver mai nutrito dei risentimenti reali verso chi hanno ucciso.

Il solitario e umorale detective Takabe (Koji Yakusho) e il misurato medico forense Sakuma (Tsuyoshi Ujiki) seguono una matassa sempre più ingarbugliata e surreale, fino a trovasi presto a dover cercare una misteriosa figura di nome Mamiya (Masato Hagiwara). 

Appare come un ragazzo disordinato e confuso, spesso comparso dal nulla su una spiaggia isolata o sul tetto di un vecchio edificio. Sembra del tutto privo di memoria a breve tempo ma ha modi gentili, quasi timidi, è in grado di entrare in forte empatia con chiunque si trovi ad avere a che fare con lui.

Può apparire fragile e smunto, ma per lo più sinistro: una creatura simile a un fantasma che predilige nascondersi in stanze del tutto prive di luce, parlando sottovoce, emotivamente si definisce “un guscio vuoto” ma sostiene di aver trovato un modo infallibile per “aiutare le persone”. Una tecnica che permette a chiunque di liberarsi delle proprie paure inconsce. Indagare su Mamiya spingerà inevitabilmente i due detective a fare i conti anche con la sua “cura”. 


L’opera di un regista in grado di leggere la Storia in un modo spesso profetico

Nato a Kobe nel 1955, Kiyosuke Kurosawa girava piccoli film fin dai tempi del liceo, iniziando a utilizzare il formato super 8 ai tempi in cui studiava alla Rikkyo University di Tokyo. Film per lo più “di genere”, dall’Erotico (in Giappone i Pink Movie) agli Yakuza Movie, ma sempre dotati di una grande originalità e “voglia di introspezione”. 

Nel 1989 realizzava il divertente horror slasher Sweet Home, diventato nello stesso anno un videogame di Capcom per il Nintendo 8bit firmato da Tokuro Fujiwara. Proprio rielaborando moltissime idee di quel gioco, unite alle atmosfere del film di Kurosawa e alle capacità tecniche nel nuovo sistema Playstation, Fujiwara nel 1996 realizzò il primo episodio della saga di Resident Evil (in originale Biohazard), capostipite del nuovo genere “survival horror” è uno dei fenomeni mass-mediali più famosi di sempre.

Tornando invece al 1997, a due anni di distanza dall’horror psicologico Seven, di David Fincher, Fujiwara realizzava giocando quasi nello stesso territorio visivo e psicologico l’altrettanto cupo e disperato Curse. Tuttavia la materia in mano a Kurosawa assumeva contorni del tutto nuovi, organali e mistici, forse anche in ragione delle atmosfere nipponiche. Il ritmo ruvido di una indagine hard boiled si fondeva così ad situazioni più “rarefatte”, silenziose e dilatate, con scene “sospese”, a tratti immobili, quasi “oniriche”. Una costruzione visiva ed emotiva che accentuava il profondo senso senso di malinconia e nichilismo alla base della storia. Molti dei tratti che sarebbero andati a confluire di lì a poco nella “grammatica” del cosiddetto cinema  “J-horror”.

Contorni che si sono fatti a un certo quasi inquietanti, quando il 20 marzo 1995, nel mezzo della produzione del film, avvenne a Tokyo il tragico attentato alla metropolitana, che portò alla morte di 13 persone e moltissimi feriti tramite l’utilizzo del gas Sarin. 

Kurosawa stava realizzando un film che parlava di qualcosa di sinistro quanti molto simile a quanto era da poco successo nella realtà. L’attentato era stato rivendicato da una setta e il regista Kurosawa si decise a cambiare in Cure il titolo originale dell’opera, Evangelist, proprio per cercare di tenere le distanze da quell’evento. 

Tuttavia si potrebbe forse affermare che, come le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki hanno portato alla creazione cinematografica di Godzilla, il clima da fine del mondo dell’ultima parte degli anni ‘90, unito purtroppo anche alla memoria storica dell’attentato alla metropolitana di Tokyo, hanno di fatto portato ad amplificare le paure e suggestioni alla base del J-Horror, fino a farne un fenomeno di portata internazionale. 

Un fenomeno apprezzato, più volte “clonato”, anche se spesso non compreso fino in fondo. 

Un fenomeno idealmente iniziato con il Ring di Hideo Nakata del 1998, che ha trovato il suo apice  nel 2022, con Ju-Oh di Takashi Shimizu (ma che ha influenzato anche pellicole di Hong Kong come The Eye dei Pang Bros). 

In questa gloriosa corrente anche Kurosawa avrebbe comunque fatto sentire ulteriormente la sua voce, con il suo “unico e sperimentale” Pulse, del 2001 (finito pure lui inevitabilmente per “godere” di un remake “USA e getta”). Se il J-horror, che lui aveva contribuito a creare, affrontava principalmente i legami contorti tra “passato e presente”, con storie che sviluppavano temi come “la memoria e il rancore” in chiave horror, con Pulse Kurosawa guardava già ai legami tra “presente e futuro”. L’autore in Pulse raccontava l’alienazione umana causata da un contatto sempre più simbiotico e tossico con il mondo dei computer e dei social. Anticipando di anni il tema degli hikikomori digitali e la “smaterializzazione” dei rapporti umani che oggi soprattutto patiamo.  

Kurosawa è ancora attivissimo: dopo opere interessanti pur minori (come Retribution del 2006) e dopo aver toccato anche altri generi di racconto “più leggeri”, è  tornato nel 2024 al thriller e al surreale, con pellicole come Serpent’s Path e Cloud.

Lo scontro tra un uomo di legge e un uomo di scienza deviato

Un giovane ma imponente Koji Yakusho in Cure del 1997 interpreta il ruolo del brusco e malinconico detective Takabe, ma lo abbiamo già visto (nel “futuro”) nel 2010 come uomo maturo a capo di un gruppo di ronin nel bellissimo action 13 Assassins di Takashi Miike, come di recente è stato il vecchietto dallo sguardo sognante protagonista della meravigliosa pellicola malinconica di Wim Wenders, Perfect Days

Lo “sbrindellato” ma diabolico Kunio Mamiya, l’oscuro “burattinaio” dietro alla vicenda di Cure, ha invece il volto di Masato Hagiwara: attore, narratore, sassofonista e pure giocatore professionista di mahjong. Lo abbiamo visto nel disaster movie Fukushima 50, nel supereroistico demenziale Kamen Teacher e pure nell’imperdibile live action di Sampei il ragazzo pescatore del 2009; ma l’aria del giocatore di mahjong professionista, neutra quanto impalpabile, la tiene con convinzione anche in questa pellicola di Kurosawa.

Il personaggio di Yakusho cerca la logica, muovendo i pugni con concretezza. Vuole a tutti i costi preservare una “maschera di facciata, rassicurante e professionale”, nonostante viva un dolore familiare indicibile (pure a se stesso) e tutti i giorni si confronti con la sua “impotenza professionale” nel cambiare il mondo in meglio. 

Il personaggio di Hagiwara, che recentemente qualcuno (Nocturno) ha felicemente paragonato al ruolo di Nicolas Cage in Longlegs di Oz Perkins, non muove quasi per niente le mani. Ama invece moltissimo l’idea che la “maschera di facciata, rassicurante e professionale” del detective cada. Per far cadere quella maschera, insieme alle maschere di tutte le sue “vittime”, l’incolore Mamiya le trascina in luoghi bui simili a trappole emotive. Luoghi intimi di orrore suburbano decadente (ottima la fotografia di Tokusho Kikumura): appartati, oscuri, ma in fondo molto simili a una stanza da psicanalisi. Caverne dalle quali può solo emergere dalle vittime, con le “suggestioni giuste”, un’ombra.

Un’ombra che in senso “junghiano” è manifestazione dell’inconscio più inaccettabile socialmente: ciò che in genere una maschera cerca di trattenere. 

Attraverso il personaggio di Mamiya, Kurosawa ci “svela” l’alta manipolabilità di chi già vive sotto stress. Uno stress che se era alto nel Giappone del 1995 ai tempi della produzione di Cure, con i fanatici che hanno attaccato la metropolitana, oggi non sembra molto calato. Soprattutto in una società che ha ormai incorporato anche l’alienazione digitale di Pulse

Rimane il duello tra il detective e il “colpevole”, ma l’esito è giusto che lo scopriate in sala.

Finale

Cure è un film invecchiato bellissimo e che oggi, in un mondo carico di forti conflittualità emotive, appare ancor più attuale, urgente. Un film meraviglioso, con ottima fotografia, musica e ritmo narrativo, attori molto coinvolti e una trama che sa insinuarsi sotto la pelle degli spettatori. Suscitando domande dalla risposta amara. Come solo i migliori horror di sempre sanno fare. 

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lunedì 31 marzo 2025

Muori di lei: la nostra recensione del “thriller pandemico”, per la regia di Stefano Sardo, con protagonisti Riccardo Scamarcio, Mariella Garriga e Maria Chiara Giannetta


Roma, durante il lockdown agli inizi del 2020. 

In un palazzo signorile del centro, vivono il professore di filosofia Luca (Riccardo Scamarcio) e il medico di pronto soccorso Sara (Maria Chiara Giannetta).

I giorni di auto-confinamento si susseguono dolorosamente tutti uguali, “intrappolati nella routine”. Qualcuno dai balconi con una chitarra prova ad alleggerire i toni, si creano cori spontanei, ma sono per lo più fuochi fatui e per pochi minuti.

Luca, con la didattica a distanza, insegna filosofia da casa a una classe liceale un po’ disorientata e distratta, che sta prendendo “con poca filosofia” la situazione generale. 

Ha tanto tempo e può provvedere alle code per il supermercato, anche se spesso si trova a fianco di amici (il simpatico comico Francesco Brandi) e passanti sempre più incazzati: con il mondo, lo stato, le divinità, soprattutto con chi, per sua sfortuna, deve condividere con loro lo stesso tetto.

Sara a casa non c’è mai: lavora in reparto tutto il giorno e più di una notte. Blindata, sotto una tuta anti-contagio a più strati, dentro cui non si respira. Quando torna, torna tardissimo o depressa, con un sorriso tirato e il segno della mascherina che ormai è una cicatrice sul suo viso. Vuole solo dormire. 

Nell’aria c’era l’intenzione seria di allargare la famiglia: avere un figlio. Ma questo era “prima”, quando tutti i tentativi provati erano già risultati fallimentari. Inoltre a “dirigere i lavori” della fecondazione assistita è da sempre il padre di Sara (Paolo Pierobon), un uomo viscido e onnipresente con il suo sarcasmo. Parlare di figli è inevitabilmente diventato parlare di lui e non è stato mai piacevole: ormai l’intimità risulta violata da questo “terzo incomodo”. 

Luca e Sara vivono da estranei, “soli”. 

Poi all’improvviso, dalla finestra di fronte di un appartamento dello stesso stabile, compare qualcuno: Amanda (Mariella Garriga). Si è trasferita da poco, è di origine “caliente”, allegra, giovane e bellissima. Vive sola, anche se qualcuno che frequenta il suo appartamento c’è (Giulio Beranek): un uomo scostante e violento. 

Amanda insegna yoga e chiede a Luca se è possibile utilizzare il terrazzo del tetto comune, per i suoi esercizi in streaming. Luca ha le chiavi, non trova particolari problemi ad assecondala perché nell’edificio ci sono per lo più uffici chiusi e a lui, come unico vicino, la cosa non disturba. Qualche volta può pure farle compagnia sul terrazzo, giusto per ammazzare il tempo. 

I giorni trascorrono sereni. 

Nasce una bella amicizia. 

Poi si trasforma in altro.

Amanda ama ascoltare spesso la musica ad alto volume, mentre balla nuda, davanti alla finestra della casa di Luca e della “sempre assente” Sara. Amanda ama farsi guardare e il suo unico spettatore è quell’insegnante di filosofia solo, che ormai osserva solo quella finestra, più dei suoi alunni nell’aula virtuale della didattica a distanza. 

I due iniziano a frequentarsi. Prima cercando di farlo di nascosto, poi in modo sempre più disinibito. Luca inizia a temere per il suo matrimonio e la allontana, specie quando Amanda insiste per diventare amica di Sara e cerca quasi di farsi scoprire palesando il tradimento. 

Tuttavia Luca tiene ancora gli occhi incollati a quella finestra, pur se per “motivi diversi”. Il compagno di Amanda è diventato davvero violento e più volte Luca teme per la sua salute. 

La lotta si sposta spesso sul terrazzo. Le mani si avvicinano sempre di più al collo della ragazza. Propone di chiamare la polizia ma Amanda è contrariata: sembra che quell’uomo abbia un enorme potere su di lei, che quasi che la ricatti, ma in fondo non sono “affari” che riguardano il suo vicini di casa. 

Fino a che la situazione precipita, con conseguenze che cambieranno per sempre la vita di tutti gli attori sulla scena.


Lo sceneggiatore, regista e musicista Stefano Sardo, dirige questo thriller psicologico, dai risvolti piccanti, scritto insieme a Giacomo Bendotti. 

Sardo da sceneggiatore ha adattato per il grande schermo Tatanka di Saviano, ha scritto l’opera crossmediale Monolith, il fantascientifico (e quindi per il mercato italiano rarissimo) Ipersonnia. Per la tv ha curato la versione italiana di In Treatment, la serie “psicanalitica” con Castellitto. ha curato la serie storico-glam di Stefano Accorsi 1992,1993,1994, poi I leoni di Sicilia

Bendotti ha scritto per il regista Piero Messina L’attesa e Another End, per Roberto Andò ha realizzato invece Una storia senza nome

Riccardo Scamarcio fin dagli esordi, nel 2003 con la serie La meglio gioventù, si è rivelato un interprete poliedrico delle italiche virtù. Sguardo profondo ma all’occorrenza anche spaesato, presenza scenica ma anche autoironia. Con una predilezione per il genere sentimentale (Tre metri sopra il cielo, Manuale d’amore) ma cedibile anche in ambiti più “thriller” e  “action” (Romanzo Criminale, La freccia nera, ma pure John Wick 2, Assassinio a Venezia, Race of Glory). 

Maria Chiara Giannetta ha sempre avuto una predilezione se non per il thriller, per le storie poliziesche, da Don Matteo a Blanca. Ma è anche un'attrice bravissima nella commedia, come dimostra anche il recente Follemente di Paolo Genovese. Nonché autoironica, come dimostra la sua partecipazione allo (s)cult horror-trash Tafaons

Mariella Garriga la abbiamo vista in thriller ad alto tasso adrenalinico, al fianco di Tom Cruise nei più recenti Mission Impossible, ma anche nella serie “gialla” I delitti de bar Lume. Ciliegina sulla torta, è stata diretta dal maestro del thriller Giapponese Ryuhey Kitamura (Versus, The Midnight Meat Train), nel segmento Mashit dell’antologico Nightmare Cinema, del 2018.

Muori di lei è un film che con la fotografia plumbea e fredda del bravo Francesco Di Giacomo ci riporta dritti all’epoca del lockdown. 

Va in scena un'interessante variazione sul tema del classico La finestra sul cortile di Hitchcock, ma anche con un tocco di Simenon, principalmente incentrata sui personaggi interpretati da Scamarcio e Garriga. Tra il timido insegnante di filosofia e l’insegnante di pilates si instaura una chimica che in poche battute divenga travolgente, sempre più malsana, ambigua e disperata. L’inizio ha il sapore quasi del film romantico “mucciniano” ma si arriva in un attimo al thriller erotico, al noir, al revenge movie. Una escalation che il regista dimostra di saper guidare con mano ferma e decisa, anche grazie alla suggestiva location scelta per le vicende.


Il terzo attore in scena è a tutti gli effetti un lussuoso e vuoto palazzo romano. Si “anima”, catarroso e rancoroso, tra i suoi interni vuoti e in penombra, con le finestre con le serrande abbassate. Ricerca libertà su quel balcone del tetto, curato e verdeggiante, che è l’unica sua via di fuga dalla realtà, anche se al contempo lo rende simile a un’isola. Lo scenografo Mauro Vanzati ha fatto un lavoro davvero impeccabile, donando alla scena anche una forte malinconia da “gabbia dorata”.

Una gabbia a cui presto come “quarto incomodo” si aggiungono il personaggio della Giannetta e poi Pierobon, dando luogo a dinamiche interessanti, in certi casi anche originali, ma che forse portano la narrazione su binari se vogliamo troppo convenzionali e meno “sognanti”. Il finale può risultare un po’ stiracchiato, sebbene coerente. 

Muori di lei è un film che funziona molto bene nel costruire una trama imprevedibile e avvincente. Il finale diventa forse un po’ forzato ma è a tutti gli effetti un peccato veniale, che non inficia la messa in scena generale.

Buoni gli interpreti, ottima la scenografia e fotografia. Una piccola gemma per gli amanti del giallo e per le fan di Scamarcio. 

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giovedì 27 marzo 2025

A Real Pain: la nostra recensione della commedia drammatica scritta, diretta e interpretata da Jesse Eisenberg, con co-protagonista uno straordinariamente Kieran Culkin

America dei giorni nostri, aeroporto JFK di New York. Mattina presto, già tanti viaggiatori in attesa.

Il giovane barbuto e assonnato Benji Kaplan (Kieran Culkin) attende seduto su una sedia di plastica l’arrivo del cugino David (Jesse Eisenberg). Il segaligno e agitato David ritarda, corre e intanto continua in modo convulso a inondarlo di messaggi vocali: per assicurarsi che Benji sia lì, in tempo, in salute, pronto con i bagagli. Felice  di iniziare il loro tanto atteso viaggio in Polonia, per commemorare la nonna scomparsa. 

È un tour organizzato che toccherà Varsavia, Lublino, il campo di concentramento di Majdanek e infine porterà i due cugini nei pressi di Krasnystaw, dove si trova ancora la vecchia casa della nonna, anche se ora appartiene ad altri. 

È un tour sul loro passato ma anche sull’Olocausto, partecipato per lo più dai discendenti di quelle famiglie che sono scomparse o sono dovute emigrare in America, per cercare un futuro in quell’epoca buia. Un viaggio “nella memoria e nel dolore”, che dovrebbe servire ai cugini a ritrovarsi dopo tanto tempo, ma anche elaborare il loro recente lutto. 

Il volo verso Varsavia è rapido, i posti stretti, hostess cortesi. L’incontro con il gruppo previsto per la mattina dopo. David per tutto il tempo appare introverso e schematico, riservato al punto da sembrare antipatico. Sorride solo nel raccontare l’insana passione che condivide con il suo bambino più piccolo: contare e ricordare il numero dei piani di ogni grattacielo newyorkese che vedono: per poi verificare con le planimetrie chi c’è andato più vicino. 

Benji non si è ancora sposato e non conta palazzi. Viveva con nonna e ora vive libero e scapestrato. Si ricordava un cugino più allegro, con cui era bello sbronzarsi e passare tutta la notte a zonzo per New York, tra locali e panchine da cui guardare sdraiati le stelle. Benji vuole riconnettersi con quel David che amava un casino fare casino e aveva “bellissimi piedi”: a costo quella notte di inondarlo di canne e alcol, costringerlo a tirare tardi fino al mattino. Se non proprio su una panchina per strada, sul tetto del loro albergo: sempre che riescano a forzare la porta di sicurezza dell’ultimo piano. 

La cosa dei piedi un po’ sorprende David. La forzatura della porta blindata all’inizio inibisce ma riesce. È puntuale anche la consegna delle canne, frutto di uno spropositato pacchetto “losco” consegnato a Benji tramite corriere veloce. La serata può aprirsi piacevolmente eccessiva, in un modo tutto adolescenziale, ma da troncare il prima possibile in vista dell’alba. 

David a letto ha l’incubo di svegliarsi senza trovare al suo fianco Benji: magari partito senza ritorno per bisbocciare in qualche bar o finito in qualche casino. Ormai Benji bisboccia troppo. 

Infatti il giorno dopo David troverà Benji direttamene al bar della hall, brillo ma amabilmente sarcastico, già insieme ai loro compagni di viaggio.

L’empatica e dettagliata guida James, sempre pronta a ricevere consigli e suggerimenti utili (Will Sharpe). La neo divorziata Marcia (Jennifer Grey), depressa ma non del tutto. Gli anziani e compassati coniugi Mark e Diane (Daniel Oreskes e Liza Sadovy) dall’Ohio, un po’ noiosi. C’è nel gruppo anche Eloge (Kurt Egyiawan), un sopravvissuto al genocidio ruandese, ora convertito alla religione ebraica, che per questo in qualche modo “sente un po’ sua” anche la storia degli ebrei polacchi e pronto a dispensare abbracci a chi glielo chieda.

La prima tappa è al “Monumento degli eroi del ghetto”, dell’architetto Leon Suzin, eretto in memoria della rivolta del ghetto di Varsavia del 1943. Imponente e un po’ freddo, geometricamente claustrofobico, ma con al centro figure eroiche, quasi titaniche. Tutti ci scattano una foto, Benji decide che è meglio “partecipare all’opera”: convince il gruppo a mettersi in posa a fianco di quelle figure eroiche, per “combattere con loro”. Trascina tutti, compreso il riluttante David. Trascinerà tutti, per tutto il viaggio, invitandoli a rivivere in prima persona il dolore degli esuli polacchi attraverso una condivisione di emozioni e pensieri forti. Facendosi amare, ma a volte pure odiare, per la sua eccentricità e zero peli sulla lingua. 

Non si può del resto andare in un campo di concentramento, se il treno che prendi per arrivarci è una carrozza prima classe full extra. 

David osserva il cugino fare quello che da sempre sa fare meglio: “arrivare al cuore delle persone che ha intorno”. Tuttavia prega con tutte le forze che Benji, nella sua continua fuga dalle responsabilità, non torni a cadere, ogni sera, negli eccessi che da sempre auto-distruggono la sua vita. 

Riusciranno ad affrontare dritto negli occhi il “vero dolore”, dando una svolta alle loro vite?

Il regista, attore e sceneggiatore Jesse Eisenberg è uno degli interpreti più interessanti del cinema contemporaneo esordiva piccolissimo come volto della pubblicità della Dr Pepper, aveva una particina in The Village di Syamalan, diventava protagonista della commedia horror generazionale Zombieland di Fleischer, assumeva i connotati del creatore di Facebook in Social Network di Fincher, diventava (forse conseguentemente?) il super cattivo Lex Luthor per il Superman di Snyder. Al contempo veniva eletto da Woody Allen a suo alter-ego in To Roma with  love e poi in Cafè Society, dava la voce al pappagallino Blu in Rio, partecipava a gioiosi disastri come American Ultra e a interessanti horror a sfondo sociale come Vivarium. Il suo debutto alla regia avviene nel 2022 con la commedia Quando avrai finito di salvare il mondo, una storia sul difficile legame tra padre e figlio. A real pain è il suo secondo film ed esplora nuovamente il mondo delle relazioni familiari.

Kieran  Culkin, fratello più piccolo dell’attore-bambino prodigio Macaulay Culkin di Mamma ho perso l’aereo, esordisce di fatto pure lui nel classico di Natale di Columbus, nel ruolo di Fuller,  cuginetto intollerante alla Pepsi del protagonista. Nei suoi ruoli di attore bambino non si può dimenticare quello del figlio di Patricia Arquette, nel classico action Accerchiato, con Jean Claude Van Damme. Nel 2010 è nel cast del bellissimo Scott Pilgrim, nel 2013 riesce a finire dentro a Movie 43, definito tra i film più brutti della storia del cinema. Una vita personale complessa lo ha allontanato per molto tempo del set, ma ora è tornato più forte di prima.


Jesse Eisenberg scrive e dirige un “film a due”, nella struttura narrativa simile a una piece teatrale, lineare ma ricchissimo di sfumature, quasi tutto al servizio del talento del bravo Kieran Culkin. 

Un lavoro di altissima “sartoria”, che permette ai due protagonisti principali di esprimersi a trecentosessanta gradi, andando a comporre una storia che da commedia on the road passa con disinvoltura a farsi tragedia familiare, satira e ricostruzione storica. In alcuni frangenti quasi un action movie, ma pure un film meta-narrativo: sull’arte di raccontare la Storia e le emozioni attraverso le parole e i luoghi. 

Il “dolore reale” (in originale “Real pain”), quello che nasce dalla difficoltà di costruire o preservare dei “ponti emotivi” tra le persone, ponti inevitabilmente recisi “dalla Storia o dagli eventi”, diventa l’unica bussola emotiva da preservare al centro della scena. Un dolore da affrontare con rispetto, ma anche sagacia. Con titanica autoironia, poesia, magari con il black humor, ma sempre con la consapevolezza che è una parte interiore con la quale bisognerà prima o poi cercare di fare i conti: perché altrimenti può portare alla autodistruzione. 

A Real Pain è un film che “sa scavare” dentro all’animo dei personaggi, con una leggerezza e dinamismo che lo rendono vicino a opere come “Qualcosa è cambiato” di James L. Brooks. Ma il viaggio nella memoria degli esuli polacchi, vissuto attraverso i luoghi reali in cui si è perpetrato il genocidio, offre una dimensione tragica ulteriore: vivida quanto spietata. 

Eisenberg è riuscito a intrecciare trama e dialoghi con assoluta eleganza e passione. Culkin ha dato fondo anche al suo tormentato vissuto personale, per costruire un personaggio unico e indimenticabile, che non a caso quest’anno gli è valso l’oscar come migliore attore agli Academy Awards. 

A Real Pain è un piccolo film che riesce con estrema facilità a fare breccia negli spettatori. Una pellicola preziosa. 

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martedì 25 marzo 2025

Tornando a Est: la nostra recensione della commedia, scritta e diretta da Antonio Pisu, che racconta le nuove “avventure picaresche”dei personaggi di “Est - dittatura last minute”

 


Siamo in una Cesena del 1991, giusto due anni dopo il viaggio in Romania di Pago (Matteo Gatta), Rice (Lodo Guenzi) e Bibi (Jacopo Costantini). 

Il “sognatore” Pago, messi da parte i troppi sogni di viaggi strampalati nell’est Europa, è tornato in pianta stabile a fare la guida turistica: specializzazione San Marino, con un po’ di alti e bassi. Anche se in fondo ha trovato un altro grande sogno, “aprire un cinema”, per ora fa avanti e indietro con le comitive tedesche. 

Il pragmatico, sarcastico e forse un po’ “bonariamente cinico” Rice, sta ancora in banca: a fare un lavoro che non gli piace e non lo rappresenta, concedendosi al più sporadiche fughe etiliche ed erotiche, a dire il vero più millantate che vissute.

Il “puro” Bibi, eterno ragazzotto dall’aria troppo buona, si è di nuovo innamorato. Questa volta è una relazione a distanza, con una ragazza bulgara di nome Yuliya: mai vista dal vivo, manco ascoltata la voce al telefono, per lo più “sovvenzionata spontaneamente” con somme di denaro inviate mezzo banca. Che forse davvero ricambi il suo amore? Da “buon puro”, Bibi ci crede.

E siccome “l’amore” è da sempre il motore che muove il sole, le altre stelle e pure questo strampalato gruppo di amici, si riparte per l’Est. 

Il gruppo lo decide stando in “meditazione” durante il secondo tempo di una partita allo stadio del Cesena. Il fine è etico: far incontrare Bibi e Yuliya, direzione Bulgaria. 

“Ufficialmente” per far incontrare Bibi, “ufficiosamente” per rinverdire il loro desiderio di scoperta e avventura: che tanto a Cesena ci si rompe solo le palle, quando nel bagagliaio c’è ancora quel set di calze a rete, comprate al mercato, con cui in modo corsaro cercavano due anni prima di sedurre qualche ragazza dell’est.  

Alla dogana la guardia chiede ai tre informazioni sul finale de “La piovra”, ancora non arrivato in tv da quelle parti, ma oltre quel confine per Bibi, Rice e Pago è di nuovo di nuovo tutto sconosciuto, come la prima volta. 

Un mondo da cui la gente scappa e nessuno si sogna di tornare. Con supermercati e alberghi mezzi vuoti, un clima da spie e complotti, troppa povertà e ingiustizia ovunque. Perfino qualche insospettabile italiano inguaiato in loschi traffici con la malavita locale. Loschi traffici e casini, tra soldi sporchi, ricatti e giri di prostituzione,  nei quali i nostri tre finiranno per cadere dentro. Come sempre: un po’ per amicizia, un po’ per amore, un po’ per varie ed eventuali. Torneranno di nuovo a Cesena da vincitori, con in sottofondo in radio un pezzo di Al Bano o dei Ricchi e Poveri?


Antonio Pisu torna “sul luogo del delitto” con il seguito di uno dei film più nostalgicamente carini ma pure originali della rinnovata commedia italiana 2.0. 

È un modo di fare cinema scanzonato e affettuoso, che parte dal primo Verdone di Un sacco bello del 1980: con quel personaggio coatto che cercava qualcuno per partire in auto con lui verso l’est, direzione Polonia, inseguendo sogni erotici con calze a rete e penne a sfera. C’è qualcosa del Dorelli “da bar”, italiano medico malinconico all’estero, de Il cappotto di Astrakan. C’è un scampolo del Jerry Calà viaggiatore cosmopolita di Sottozero. I paesaggi di un est Europa di confine, infinito quanto crepuscolare, come ne Il Toro con Abatantuono. 

C’è soprattutto una intelligente e non scontata riflessione sulla Storia, ironica ma precisa, in grado di far riflettere su realtà a noi vicinissime eppure quasi ignote dal cosiddetto “mainstream”, European Song Contest a parte.

Pisu ci parla con trasporto anche del “valore morale” di spalancare gli occhi, allontanarsi dal nido-casa-Italia e attraversare il mondo, in cerca anche di se stessi. È quindi un cinema in parte del passato, ambientato nel passato e con riferimenti alla bella commedia del passato, la musica del passato, i “sogni del passato”. Ma al contempo è un'occasione per guardare al futuro, grazie a attori simpatici e perfettamente in parte, una ambientazione unica e tutta da scoprire grazie a una bella fotografia e un montaggio non scontato.

La storia forse non brilla come nel primo capitolo e qui e là “vacilla”, ma l’aria picaresca c’è ancora, i personaggi funzionano ancora, il senso di avventura è immutato.

Siamo felici di ritrovare in splendida forma i personaggi interpretati da Matteo Gatta, Lodo Guenzi e Jacopo Costantini. Aspettiamo nuove eroiche avventure, nella speranza che la commedia italiana riesca infine ad abbandonare definitivamente le “storie depresse”, ambientate tutte dentro il solito raccordo anulare, con sempre gli stessi tre registi e interpreti. Forza Cesena! 

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lunedì 24 marzo 2025

Il nibbio: la nostra recensione del film diretto da Alessandro Tonda, scritto da Sandro Petraglia e interpretato da Claudio Santamaria e Sonia Bergamasco, che racconta la storia del direttore dei SISMI Nicola Calipari e dei ventotto giorni del sequestro di Giuliana Sgrena

Viene chiamato in codice “il Nibbio” (Claudio Santamaria). Come il rapace “milvus  linnaeus”, detto “nibbio reale”. Come il capo dei Bravi dell’Innominato di Manzoni. Forse come un supereroe, anche se non ha l’aspetto “classico” di un supereroe. Pochi capelli in testa, due baffi folti, fisico regolare e l'aria rassicurante, pacata di un professore di filosofia del liceo. È una persona così calma che qualcuno lo definisce “un pacifista sotto copertura”, sebbene operi avventurosamente nei servizi segreti, da così tanto tempo che può parlare in prima persona, nell’interesse dell’intero paese, da generale. 

Il Nibbio, in un giorno assolato dell’inizio del 2005, voleva solo partire in auto per una gita con moglie, figlia diciottenne e figlio dodicenne. Magari trovare lungo la strada un luogo dove fare belle immersioni in estate, come in quella vacanza di tanti anni prima. Il telefono lo riportava con la mente alla realtà, costringendolo a spiegare le ali altrove, verso i palazzi di Roma, il SISMI. 

Avevano rapito a Bagdad una giornalista del Manifesto (Sonia Bergamasco): una veterana sempre vicina ai teatri di guerra, che in giorni particolarmente bollenti era in Iraq per incontrare in una moschea delle donne velate. Le avrebbero raccontato delle bombe, della vita difficile seguita alla deposizione di Saddam, ma la guida aveva accorciato la conversazione: la situazione fuori dalla moschea era ormai  “troppo calda”. 

Inutile la breve corsa in auto. Il veicolo subito fermato da uomini con il turbante armati di mitragliatori. Spinta a forza in un veicolo anonimo mentre sparavano in aria, la donna veniva portata chissà dove, senza saper parlare una sola parola di arabo. Ai figli il Nibbio diceva solo che la gita era sospesa, attirandosi lo scontento generale e la critica di essere un padre sempre assente, quasi noioso. 

Quasi nello stesso momento il Manifesto veniva avvisato del rapimento e il suo direttore si iniziava a muovere: avvertiva del fatto il marito di Giuliana, Piero, prendeva contatto con un loro inviato esperto in medio oriente che avrebbe potuto scoprire qualcosa. Ma il giornalista era già stato avvicinato dai servizi segreti: lo attendevano entro pochi minuti con i bagagli fatti alla reception del suo hotel: scorta personale verso l’aeroporto, sicurezza nazionale.

Il Nibbio iniziava a dirigere i lavori seguendo “il suo schema”: evitare colpi di testa, blitz, azioni di forza che possano mettere in pericolo militari, ostaggi e civili. Trovare canali di comunicazione discreti, magari con quei sunniti maggiormente al corrente delle attività “di guerriglia” iniziate con l’arrivo degli americani. Lasciare calmare gli animi prima di accenderli troppo.

Il giornalista del Manifesto usciva dal retro dell’hotel, si metteva in contatto con una sua fonte: provava a essere più veloce e utile possibile per salvare la collega. L’uomo dei servizi sotto copertura “Tiberio” lo intercettava presto, lo fotografava, inviava tutto al Nibbio che subito si trovava al telefono con la redazione del Manifesto: aprire a una collaborazione, volare in Iraq. 

Non esporre il giornalista del Manifesto a Bagdad, mediare lui stesso con le fonti e riferire. 

In breve scopriva che chi aveva informazioni chiedeva in cambio dei generatori per la corrente da pochi dollari, ma che gli permettevano di irrigare i suoi campi devastati dopo il conflitto. La trattativa era vicina, quando il Nibbio veniva avvicinato sul campo dalla CIA: lo stimavano, anche se il suo pacifismo “non piaceva”. Non era per i suoi metodi ritenuto “utile per il conflitto”. 

Gli americani informano che avevano già preso una strada diversa rispetto alla compravendita di generatori per irrigazione: dopo aver torturato un sospetto per una notte intera, avevano ottenuti i nomi dei rapitori e il luogo. Erano pronti a irrompere quella notte stessa, armati, rapidi, veloci. 

Dicevano ridendo al Nibbio che era ormai “cosa fatta”: zero dialoghi scomodi, repressione dura per dare l’esempio, vittime collaterali già messe nel conto. 

Ma l’informazione americana si rivelava non accurata. 

Sbagliavano di poco l’obiettivo, di pochi metri. Nessun ostaggio, tanta rabbia e rapitori resi solo più sospettosi e agitati. Iniziava alla luce di questo caos la strategia del Nibbio: lenta ma precisa, nella sua ricerca di contatti. 

La giornalista in quei 28 giorni di trattative, blitz, azioni e contrordini viveva in una stanza chiusa a chiave, cercando come poteva di comunicare. I suoi carcerieri erano agitati quanto lei: per calmarla le prestavano da leggere un libro in arabo, che ovviamente lei non poteva tradurre. Dopo un po’ di contrattazione, riusciva a farsi dare dei prodotti per l’igiene intima.

I giorni procedevano tutti uguali dietro una saracinesca blindata, ma qualcosa iniziava a muoversi.  

Grazie ai lavori sottotraccia del Nibbio, i rapinatori  giravano un video, in cui la giornalista per la sua liberazione  richiedeva il ritiro delle truppe. Nello stesso video lei chiedeva al marito di divulgare i servizi sui danni collaterali alla popolazione, dovuti alle bombe a grappolo americane. L’appello funzionava, il servizio veniva presto trasmesso e visto in tv anche dai rapitori, che iniziavano ad avere di lei un’opinione differente, più positiva. 

Il Nibbio sapeva che quel “video di riscatto” era in realtà una formula standard di negoziato: nessuno pretende per un ostaggio il ritiro di tutte le truppe da un paese. Era piuttosto “il segnale” che la controparte era pronta a trattare. Con  l’interlocutore migliore che si trovava in un albergo di Dubai. 

Il Nibbio lavorava  h24 tra gli uffici e Bagdad, i contatti con il Manifesto e un’occhio alla situazione internazionale, permettendosi solo qualche serata in compagnia della moglie, magari per andare insieme al cinema. Lui preferiva i film d’azione. Lei quelli iraniani di denuncia sociale, belli anche se noiosissimi. Alla fine vinceva quasi sempre lei e il Nibbio si accoccolava al suo fianco, dormendo in sala, anche solo per alcuni attimi, felice.

Il giorno dello scambio si avvicinava, ma molte delle parti in causa cercavano più che altro di far esplodere un polverone. 

Anche in Italia qualcosa si muoveva: la figlia del Nibbio voleva andare ai cortei per la pace e la liberazione delle giornalista. Il padre non era contentissimo, anche perché in quei cortei potevano sempre esserci situazioni di pericolo, ma la figlia lo rassicurava che quello era il suo modo di combattere. Il padre era fiero di lei. Ormai era adulta e voleva fare la sua parte con le parole, come nello stile di famiglia. Purtroppo la Storia spesso preferisce parlare con le pallottole. 

La liberazione della giornalista avrebbe avuto dei risvolti inaspettati.


Il giovane Alessandro Tonda, aiuto regista nelle serie tv Gomorra e Romanzo Criminale, regista in The Shift del 2020 e co-regista di Suburraeterna nel 2022, porta in sala una sceneggiatura del grande Sandro Petraglia, l’autore di opere come La Piovra, La messa è finita, Il toro, Mery per sempre, Il muro di gomma, Il portaborse, Romanzo Criminale. La sceneggiatura, realizzata con la collaborazione del Manifesto, ricostruisce i 28 giorni del sequestro di Giuliana Sgrena con il supporto del DSI dell’AISE, della Polizia di Stato e di un partner culturale come la fondazione Med-Or.

Petraglia ha sempre raccontato magnifici “eroi civili”: eroi reali della Storia come personaggi “etici”. Nessun supereroe, solo qualcuno che ha fatto fino in fondo la sua parte, per il bene comune e per il senso di verità. Come sceneggiatore ha raccontato le loro storie in un paese come l’Italia, che fin dalla sua Unità guarda con troppa diffidenza e quasi un po’ di paura a qualsiasi figura eroica. Quasi si temessero più le “conseguenze amare dell’eroismo”, più che il valore morale e sociale che incarna in modo disinteressato un eroe. 

“Che cos’è un eroe? È un individuo che sceglie sempre il bene al posto del male. Soprattutto è un individuo che sacrifica se stesso per gli altri e ha sempre, o quasi, tutto da perdere e nulla da guadagnare”. 

Questa era più o meno la definizione di eroe offerta da Lo chiamavano Jeeg Robot, ma sono parole che possiamo benissimo estendere alle figure di Nicola Calipari e Giuliana Sgrena, così come qui ci vengono raccontate da Sandro Petraglia nella bella pellicola di Alessandro Tonda. 

Una pellicola dalla scrittura asciutta, essenziale, dal taglio quasi documentaristico. Una pellicola che avrebbe tutto il diritto di essere un film spettacolare alla Michael Bay ma che come Il muro di gomma non vuole esserlo, preferendo una cronaca fedele dei fatti a ogni tipo di iperbole. È una pellicola dal montaggio avvincente, anche con una colonna sonata incalzante, ricca di dettagli gustosi anche per gli appassionati di tattica militare e negoziazione. Ma sempre con al centro “quel lato umano” senza il quale ogni eroe forse perderebbe il suo “senso più intimo”, diventando un vero spartiacque nella Storia. 

È soprattutto una pellicola che accoglie come valore la complessità dei fatti narrati, esponendoli anche nella loro contraddittorietà. Elaborando più punti di vista che permettano di squarciare la retorica del “buoni contro cattivi”, “bianco contro nero”, “noi contro loro”, che oggigiorno sembra sempre più con prepotenza imporsi nel cinema, ma soprattutto nell’ informazione.

Sia Santamaria che la Bergamasco danno vita a personaggi carichi di sfumature quando credibili, frutto di un attento lavoro sulle fonti originali, interviste e incontri personali con le persone coinvolte nei fatti.

Tutti gli interpreti e tecnici hanno lavorato al massimo nei rispettivi campi, dando prova di grande dedizione in una ricostruzione storica quanto più fedele possibile dei fatti narrati.     


Il Nibbio è la coraggiosa dimostrazione che possiamo fare ancora in Italia il cinema di denuncia: quello di opere come Il muro di gomma, Il Giudice ragazzino, Un eroe borghese. Un cinema che può ancora sollevare il nostro standard dalla melma di troppe storie intimo/psicanalitiche, ambientate su improbabili terrazze romane, che ormai sono diventate solo autoreferenziali.

Che un vecchio leone come Petraglia si accompagni a un nuovo promettente regista come Tonda, trovando come protagonista l’interprete di Lo chiavano Jeeg Robot, è il miglior segnale possibile di questo inizio 2025. 

Se amate il lato più realistico delle atmosfere alla Tom Clancy, se amate la Storia italiana e la sua analisi anche attraverso il cinema, se amate gli “eroi civili”, Il Nibbio è una pellicola da non perdere.

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