testo: Di Gregorio
disegni: Ripoli
Lapponia. Terra
nota per i popolari frutti di bosco e per i pali della luce. È la
fine di novembre del 1933. Le strade sono invase dalla neve mentre
una vettura incede silenziosa verso un posto sperduto, un albergo per
la cura termale. Ian Stevenson annota meticolosamente ogni dettaglio,
le sue lettere sono destinate alla sorella Lucille. È catturato
dalla stranezza del paesaggio quanto dagli strani ospiti con cui
dividerà il soggiorno. Non sa per quanto tempo si protrarrà la
assenza da casa, ma le terme, l'idroterapia, dovrebbero giovare alla
sua schiena malandata e il medico, il dottor Growall, pare una brava
persona. Si dice che il freddo aiuti a ritemprare corpo e anima, ma
non sempre si può curare tutto. Soprattutto quando paure, angosce e
ossessioni scaturiscono dalla mente. Ma se un luogo si riempie di
follia dove si può fuggire, se oltre la soglia dell'ingresso non c'è
altro che una infinita distesa di neve?
La collana “Le
storie” muta di nuovo pelle, la storia narrata nell'undicesima
uscita è dramma-horror dalle tinte smorzate, quasi una ghost story,
un intreccio che si insinua sotto la pelle riportandoci in questi
giorni ancora di sole il presagio del pungente gelo invernale. La
sceneggiatura, opera del bravo Di Gregorio, una delle migliori penne
di Dylan Dog, incede con calma e ordine nella descrizione di un
meccanismo narrativo circolare, semplice quanto brutale. Ognuno dei
personaggi è strettamente funzionale all'economia del racconto,
ognuno costituisce un indizio per il lettore, prezioso quanto
inizialmente fuorviante ed è una vera gioia perdersi tra le pieghe
del narrato, rincorrere il significato finale, limpido e coerente
come non mai. Come l'acqua delle terme, verrebbe da dire, specchio
rivelatore, forse l'unico elemento in tutto il racconto al quale
possiamo credere senza indugio. È nell'acqua che sono davvero a nudo
i personaggi. Un'ottima prova d'autore quella di Di Gregorio. Il
disegno dell'ottimo Ripoli vive dell'effetto totalizzante
dell'immensa distesa bianca dei paesaggi, dalla neve alle acque
termali ai camici degli inservienti. Scenario e dettagli mettono così
a nudo, come colpiti dalle luci sul palco di un teatro, gli strani
personaggi in scena, brandelli di umanità persi in se stessi,
incapaci di guardare al di fuori delle proprie piccole e spaventose
prigioni mentali. Vittime-carnefici che gelosamente lottano per
continuare a esistere, per non finire risucchiati dal bianco
infinito. L'albergo costituisce personaggio a sé. Parco di
rifiniture ma asettico, sulle sue superfici, ornamenti e finestre
regna una ossessiva ricerca di perfezione geometrica, i corridoi non
possono che riportarci a Shining. Ma quello che davvero colpisce è
il tratto. nSi gioca sull'identità grafica del racconto, lo stile muta
e tratteggia in una geniale intuizione i tre piani del “reale”.
Guardate il tratto usato per il racconto fin dall'inizio, il classico
“italiano” alla Bonelli che si sposa con suggestioni del fumetto
francese, elegante e preciso, ricco di dettagli ossessivi palesati,
per esempio, nel ricercato disegno degli abiti, nelle levigature del
legno. Osservate come muti nello stile che riproduce le foto, dove
appare la mezzatinta e la colorazione a matita. Confrontate infine
come trasfiguri nelle scene che mettono in luce il passato, tra le
pieghe dei ricordi del protagonista, con le linee che si fanno vive e
imprecise, con i dettagli che si sfocano. Eccezionale.
Faccio sempre
maggiore fatica a sistemare la mia personale top 10 dei migliori
racconti della collana “Le storie”. Il lungo inverno è
l'ennesima perla di questa collana e un fumetto imperdibile per
tutti.
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