Come si può sfuggire a un dolore esistenziale cieco e assoluto, che sembra spingerci all’apatia e non può conoscere fondo, fino a che ogni nostro sentimento non finisce per apparire sul nostro volto come qualcosa di “prosciugato”, “dipinto”, posticcio o quasi del tutto assente? Ce lo dicono, in modo timido ma sincero, dei bambini che parlano al cellulare, dopo circa 13-14 secondi dall’inizio della pellicola. Ce lo sussurrano quasi imbarazzati, come una cosa che dovrebbe esserci già risaputa: “però…dobbiamo volerci bene!!”. Solo che “volersi bene” implica una condivisione, un “lavoro di squadra interattivo”, do ut des, con le persone a cui si vuole bene. Qualcosa che crea nell’insieme di una vita condivisa, come da titolo italiano del film, qualcosa di simile a una sinfonia: un unico, grande “spartito della vita”.
Ma cosa succede quando questa sinfonia “non parte”? Non può più o non vuole “partire”, perché non si è più in grado di esprimerla o perché ci troviamo “sideralmente e irrimediabilmente lontani” gli uni dagli altri?
Ecco i presupposti di un ottimo film, comico e al contempo tragico, come la vita stessa.
Un film scritto come una medicina amara, al tavolo di un bar, da un regista/sceneggiatore di grido (amato e apprezzatissimo in Germania), che si trova in un momento eufemisticamente “infelice”. In brevissimo tempo padre controvoglia e poi orfano di entrambi i genitori.
Un uomo solo, che sfrutta per scrivere i “pit stop di qualche minuto” al bar limitrofo a un parco. La meta preferita dei tragitti fuori di casa consentiti dallo “spingere con il passeggino” il figlio neonato, all’aria aperta nei fine settimana assolati, nel parco di cui sopra, nella tratta per il riposino quotidiano, quando la sua novella ex moglie glielo concede. Un piccolo tempo per creare un piccolo legame, che autoironicamente nelle interviste il regista confessa di aver passato per lo più al tavolino sulla sceneggiatura, su blocco appunti a fianco del passeggino, più che altro all’inizio per scoprire/capire “che cosa fanno i genitori”. Nel momento infausto in cui “pure a te tocca diventare genitore”, non hai il libretto di istruzioni, in passato sei stato un po’ distratto e guarda caso hai appena perso chi ti poteva aiutare/guidare. Elaborando una specie di diario per auto-psicanalisi, il nostro autore cerca di ricordare cosa facevano i suoi, come erano i rapporti “non caldissimi” che aveva con loro, come si è sentito lui come figlio, facendosi giusto aiutare dalla fantasia per le parti che non ricordava bene. Da qui sembra essere partita una indagine più estesa, che ha inglobato pure il resto della sua famiglia, sua sorella, la sua compagna e infine lui stesso. Un lui stesso che in qualche modo narrativamente è stato “scisso” in due personaggi: un assente e quasi anaffettivo direttore d’orchestra e un folle compositore, passionale quanto crudele.
Il film che è arrivato a noi è in sintesi un “ecco cosa è successo e a cui non sono riuscito ancora a dare un nome”, perché al momento sprovvisto di tutta quella energia positiva posticcia del “però…dobbiamo volerci bene!!!” di quei dannati bambini.
Una roba che in breve, nella strana autonomia con cui prendono a volte vita le opere d’arte, ha preso la forma di un “ vi va se parliamo, un po’ allegramente ma non troppo, della circostanza di morire?”
Del resto “sterben”, il titolo originale di questo film in tedesco, nonostante curiose assonanze con il nostrano “star bene”, significa propio “morire”. Del resto parlare del “tema del “morire”, in estate, in fondo, non è qualcosa di strano. Anzi! Tutti i vari horror e simili che traboccano di morti, semi-morti e fantasmi, sono sempre pellicole richiestissime e caldissime in estate, principalmente per via dei loro effetti metabolici “freschissimi”: la paura, suscitata specialmente dalla “morte sulla scena”, stuzzica le ghiandole pilifere, si crea l’effetto “pelle d’oca”, arriva una specie di refrigerio. Così ci sembra per un istante guardando “Squali assassini 6” di avere un impianto di condizionamento termico interno, che a 28 gradi percepiti più umidità fa comunque comodo.
Così, armato delle migliori invenzioni, un giorno anche il tedesco Matthias Glasner riflette sul fatto che quella che sta scrivendo principalmente per se stesso può essere di fatto “un’idea ok” di dark-Commedy a tema morte, un po’ come il giovane Danny Boyle di Piccoli omicidi tra amici.
Va in scena così, dopo tanti appunti presi al bar da un padre rimasto single, una divertentissima famiglia tedesca, che poi è quella di Glasner stesso al netto di qualche “sofisticazione narrativa”, composta da membri che a vario titolo, guarda un po’, hanno sempre costantemente la morte negli occhi.
La morte va in scena.
La morte la guarda bene in faccia la madre del direttore d’orchestra (Corinna Harfouch), rimasta abbandonata dai figli a badare con i suoi mille acciacchi a un marito (Hans-Uwe Bauer) messo peggio di lei, così incasinato da essere già sulla strada inevitabile della casa di riposo. Lui sorride, gentile e con gli occhi sprizzanti di luce, ma si dimentica le cose dopo un istante, gira nudo, ha problemi con il pannolone ogni mezz’ora. Sarebbe già in istituto, con l’impellente e socialmente poco gestibile “problema cacca” nelle mani più esperte di professionisti, non fosse che per dannati burocrati che, questionando sull’effettivo “intervallo di tempo tra un pannolone e l’altro”, non vogliono conciliare su un grado di invalidità “che consenta l’impresa”, senza lo svenamento economico. Lei eroicamente ha retto fin troppo questa situazione, ma ormai si rivolge al marito come fosse un fantasma. È più che altro un pacco da spostare, spesso indesiderato. Non c’è più alcun amore oltre lo sforzo quotidiano di spingerlo oltre qualche barriera architettonica, da sola, di fatto azzerando quel “volume interno” che le permetterebbe comunque in qualche modo di dialogare ancora con lui. Forse consegnarlo alla casa di riposo avrà per conseguenza solo che lui, sempre sorridendo, di notte tornerà a piedi fino a casa, fermandosi sotto in pianerottolo in silenzio. Come un fantasma.
La morte fissa negli occhi, ricambiata, anche la scapestrata sorella del direttore d’orchestra (Lilith Stangenberg). Una bella ragazza in una continua ricerca di autodistruzione, che si trova a svegliarsi nei posti più improbabili del nord Europa, spesso nuda o coperta di sangue e vomito, dopo infinite nottate etiliche passate a ridere con sconosciuti o camminare scomposta in mezzo alla strada. Bere la aiuta a cantare bene, un suo talento sprecato, e lei ama cantare in modo incantevole nei pub. È il risveglio che è problematico: specie se per lavoro fa l’assistente di un dentista e poi le viene un attacco di sonno mentre questo sta provvedendo a un'otturazione. Finire con la testa dritta nella bocca aperta di una paziente con dentro un trapano, tra urla e sangue, può essere doloroso per più persone. Ma il dentista si innamora e potrebbe essere il primo non-sconosciuto che si avvicina a lei dopo tanto tempo. Solo che lui iniziando a frequentarla finisce per avere a che fare pure con la sua voglia di autodistruzione.
Il direttore d’orchestra (Lars Eidinger) dietro o suoi modi algidi e gli occhi grigi invece non sembra provare nulla. Di fatto “è vivo”, ma si comporta come se non lo fosse, da quando la sua compagna ha deciso di fargli le corna, una sera con un tizio a caso, per farsi ingravidare dopo anni di tentativi falliti con lui. Il matrimonio è saltato, soprattutto per la risposta apatica al tradimento, anche se la cosa sembra giusto provvisoria e l’ex moglie non ambisce a restare ex a lungo. “Tizio” si è rivelato un incredibile rompiscatole, ma pure una figura paterna super presente e in fondo “positiva”. Tuttavia il musicista si trova a fluttuare al di sopra di ogni relazione, distaccato, concedendosi di provare sporadiche emozioni giusto davanti ai musicisti, per mezzo della sinfonia che insieme sanno creare. Momenti piccoli e preziosi, ma che vengono puntualmente traditi, frustrati o negati dal compositore con cui sta lavorando (Robert Gwisdek). Dispotico, umorale al limite del sociopatico, “amico di sempre” ma decisamente ingestibile, con ampie e documentate tendenze distruttive e autodistruttive. La sua ultima opera, sfottuta da tutti come una specie di “colonna sonora per film con i vampiri”, lui la vede come una composizione perfetta: il testamento massimo della sua arte, la prova del massimo equilibrio in termini di “purezza” tra emozione e rappresentazione. È un’opera che si chiama guarda caso “Sterben”, “Morire”, e deve “a tutti i costi” essere in grado di descrivere quello stato d’animo, specifico e difficile, senza accondiscendenza, senza senso del grottesco: senza mischiarsi con altre emozioni, al punto che la musica diventi solo dolore, “senza altre scuse”.
Glasner, nelle interviste, non nega che in questa ricerca di purezza ed equilibrio a tutti i costi, una cifra stilistica da lui ricercata in molti lavori, si celi la sua passione/ossessione per il cinema essenziale e senza fronzoli di Bergman. Ma di fatto, forse anche inconsciamente, la circostanza che la vita personale di recente abbia “travolto con tanta ferocia” il regista ha magari cambiato gli equilibri del suo lavoro: Sterben è diventato un film che non vuole limitarsi a morire “ridendo della morte”, cercando invece in qualche modo tutte le strade possibili per vivere o meglio “far sopravvivere” quel sentimento fino alla fine. È interessante a questo proposito che il film nella sua versione inglese si chiami Dying, traducibile con il più battagliero “stare giusto, al momento, sul punto di morire (forse)”, al posto del già sepolto e lapidario “Morire”.
Il film vuole quindi sopravvivere quanto basta per capire “in punto di morte”, i segreti del ”volersi bene”, decantato da quei maledetti bambini al secondo 15 della pellicola. Questa esigenza/urgenza, di esplorare la “tenuta” delle relazioni umane in questo peculiare frangente, aggiunge alla nostra black comedy “a tema morte” delle sfumature da tragedia cupissima e disperata, che la rendono qualcosa di ancora diverso e originale. Perché, pur non negando l’umorismo amaro proprio di un mondo in cui domina sovente il nichilismo più puro, Glassner a ogni richiesta di affetto della nostra “famigliola felice protagonista” non può che corrispondere in cambio terribili stilettate l’odio e rancore. Ogni personaggio subisce e ricambia odio: a volte per “liberarsi dal peso” della relazione con l’altro, più spesso per “disilludere” l’altro da sogni o aspirazioni irrealizzabili. Sono “forme d’odio” che tendono a “uccidere ogni possibilità di legame” e a “oggettivare il prossimo e se stessi”, se vogliamo in virtù di quella che potrebbe essere letta come una ricerca di sopravvivenza individuale. Ma sono di fatto “bugie”: odio “finto” che nasconde un inesprimibile, quasi inopportuno, bisogno d’amore.
Un amore che può trasmettersi in assenza di parole con l’arte, con la musica. Una musica d’orchestra avvolgente meravigliosa, curata da Lorenz Dangel, portata sulla scena, nelle tante sequenze sulle prove, con registrazioni in diretta, mischiando attori con professionisti reali. Sono scene in cui il film si eleva, dove spesso il pathos sale al punto di “sciogliere” le emozioni anche dei personaggi più contratti e silenziosi. Oltre che un’ottima black comedy e un ottimo film drammatico, Lo spartito della vita è anche un prezioso film sulla musica: sulla sua esigenza di precisione e silenzio, sulla sua capacità di diventare veicolo di emozioni, sul piccolo mondo che si crea dietro una esecuzione tra palco e pubblico.
Glasner dipinge un affresco stimolante quanto complesso. Un film che fa ridere e piangere, riflettere e sognare fra psicanalisi e musica classica. Un’opera monumentale nei suoi 180 minuti, ma che scorre e affascina il pubblico tra mille stimoli, grazie anche al talento di ottimi attori, un montaggio fresco (con il sapore delle opere di Paul Thomas Anderson), una trama a tratti genuinamente imprevedibile.
Lo spartito della vita ci porta in un mondo sarcastico e super drammatico che finge di essere materialista allo stremo, dove il valore di una persona si può misurare unicamente in ragione di ciò che produce o dal ruolo che ha svolto, a prescindere da “come lo ha fatto” o di come ha vissuto. Scoprire ciò che si nasconde al suo interno è un piacere che non si può negare a uno spettatore in cerca di grandi storie e interpreti. Imperdibile per gli amanti della musica sinfonica e del bel cinema. Uno dei migliori film dell’anno.
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