venerdì 8 agosto 2025

Lo spartito della vita (Sterben): la nostra recensione del film “iper drammatico”ma pieno di ironia di Matthias Glasner. Un film sulla “chance di redimersi dai propri peccati” e “tornare improbabilmente felici”, attraverso la settima arte

Come si può sfuggire a un dolore esistenziale cieco e assoluto, che sembra spingerci all’apatia e non può conoscere fondo, fino a che ogni nostro sentimento non finisce per apparire sul nostro volto come qualcosa di “prosciugato”, “dipinto”, posticcio o quasi del tutto assente? Ce lo dicono, in modo timido ma sincero, dei bambini che parlano al cellulare, dopo circa 13-14 secondi dall’inizio della pellicola. Ce lo sussurrano quasi imbarazzati, come una cosa che dovrebbe esserci già risaputa: “però…dobbiamo volerci bene!!”. Solo che “volersi bene” implica una condivisione, un “lavoro di squadra interattivo”, do ut des, con le persone a cui si vuole bene. Qualcosa che crea nell’insieme di una vita condivisa, come da titolo italiano del film, qualcosa di simile a una sinfonia: un unico, grande “spartito della vita”. 

Ma cosa succede quando questa sinfonia “non parte”? Non può più o non vuole “partire”, perché non si è più in grado di esprimerla o perché ci troviamo “sideralmente e irrimediabilmente lontani” gli uni dagli altri? 

Ecco i presupposti di un ottimo film, comico e al contempo tragico, come la vita stessa.

Un film scritto come una medicina amara, al tavolo di un bar, da un regista/sceneggiatore di grido (amato e apprezzatissimo in Germania), che si trova in un momento eufemisticamente “infelice”. In brevissimo tempo padre controvoglia e poi orfano di entrambi i genitori. 

Un uomo solo, che sfrutta per scrivere i “pit stop di qualche minuto” al bar limitrofo a un parco. La meta preferita dei tragitti fuori di casa  consentiti dallo “spingere con il passeggino” il figlio neonato, all’aria aperta nei fine settimana assolati, nel parco di cui sopra, nella tratta per il riposino quotidiano, quando la sua novella ex moglie glielo concede. Un piccolo tempo per creare un piccolo legame, che autoironicamente nelle interviste il regista confessa di aver passato per lo più al tavolino sulla sceneggiatura, su blocco appunti a fianco del passeggino, più che altro all’inizio per scoprire/capire “che cosa fanno i genitori”. Nel momento infausto in cui “pure a te tocca diventare genitore”, non hai il libretto di istruzioni, in passato sei stato un po’ distratto e guarda caso hai appena perso chi ti poteva aiutare/guidare. Elaborando una specie di diario per auto-psicanalisi, il nostro autore cerca di ricordare cosa facevano i suoi, come erano i rapporti “non caldissimi” che aveva con loro, come si è sentito lui come figlio,  facendosi giusto aiutare dalla fantasia per le parti che non ricordava bene. Da qui sembra essere partita una indagine più estesa, che ha inglobato pure il resto della sua famiglia, sua sorella, la sua compagna e infine lui stesso. Un lui stesso che in qualche modo narrativamente è stato “scisso” in due personaggi: un assente e quasi anaffettivo direttore d’orchestra e un folle compositore, passionale quanto crudele.

Il film che è arrivato a noi è in sintesi un “ecco cosa è successo e a cui non sono riuscito ancora a dare un nome”, perché al momento sprovvisto di tutta quella energia positiva posticcia del “però…dobbiamo volerci bene!!!” di quei dannati bambini. 

Una roba che in breve, nella strana autonomia con cui prendono a volte vita le opere d’arte, ha preso la forma di un “ vi va se parliamo, un po’ allegramente ma non troppo, della circostanza di morire?” 

Del resto “sterben”, il titolo originale di questo film in tedesco, nonostante curiose assonanze con il nostrano “star bene”, significa propio “morire”. Del resto parlare del “tema del “morire”, in estate, in fondo, non è qualcosa di strano. Anzi! Tutti i vari horror e simili che traboccano di morti, semi-morti e fantasmi, sono sempre pellicole richiestissime e caldissime in estate, principalmente per via dei loro effetti metabolici “freschissimi”: la paura, suscitata specialmente dalla “morte sulla scena”, stuzzica le ghiandole pilifere, si crea l’effetto “pelle d’oca”, arriva una specie di refrigerio. Così ci sembra per un istante guardando “Squali assassini 6” di avere un impianto di condizionamento termico interno, che a 28 gradi percepiti più umidità fa comunque comodo. 

Così, armato delle migliori invenzioni, un giorno anche il tedesco Matthias Glasner riflette sul fatto che quella che sta scrivendo principalmente per se stesso può essere di fatto “un’idea ok” di dark-Commedy a tema morte, un po’ come il giovane Danny Boyle di Piccoli omicidi tra amici

Va in scena così, dopo tanti appunti presi al bar da un padre rimasto single, una divertentissima famiglia tedesca, che poi è quella di Glasner stesso al netto di qualche “sofisticazione narrativa”, composta da membri che a vario titolo, guarda un po’, hanno sempre costantemente la morte negli occhi.


La morte va in scena. 

La morte la guarda bene in faccia la madre del direttore d’orchestra (Corinna Harfouch), rimasta abbandonata dai figli a badare con i suoi mille acciacchi a un marito (Hans-Uwe Bauer) messo peggio di lei, così incasinato da essere già sulla strada inevitabile della casa di riposo. Lui sorride, gentile e con gli occhi sprizzanti di luce, ma si dimentica le cose dopo un istante, gira nudo, ha problemi con il pannolone ogni mezz’ora. Sarebbe già in istituto, con l’impellente e socialmente poco gestibile “problema cacca” nelle mani più esperte di professionisti, non fosse che per dannati burocrati che, questionando sull’effettivo “intervallo di tempo tra un pannolone e l’altro”, non vogliono conciliare su un grado di invalidità “che consenta l’impresa”, senza lo svenamento economico. Lei eroicamente ha retto fin troppo questa situazione, ma ormai si rivolge al marito come fosse un fantasma. È più che altro un pacco da spostare, spesso indesiderato. Non c’è più alcun amore oltre lo sforzo quotidiano di spingerlo oltre qualche barriera architettonica, da sola, di fatto azzerando quel “volume interno” che le permetterebbe comunque in qualche modo di dialogare ancora con lui. Forse consegnarlo alla casa di riposo avrà per conseguenza solo che lui, sempre sorridendo, di notte tornerà a piedi fino a casa, fermandosi sotto in pianerottolo in silenzio. Come un fantasma.

La morte fissa negli occhi, ricambiata, anche la scapestrata sorella del direttore d’orchestra (Lilith Stangenberg). Una bella ragazza in una continua ricerca di autodistruzione, che si trova a svegliarsi nei posti più improbabili del nord Europa, spesso nuda o coperta di sangue e vomito, dopo infinite nottate etiliche passate a ridere con sconosciuti o camminare scomposta in mezzo alla strada. Bere la aiuta a cantare bene, un suo talento sprecato, e lei ama cantare in modo incantevole nei pub. È il risveglio che è problematico: specie se per lavoro fa l’assistente di un dentista e poi le viene un attacco di sonno mentre questo sta provvedendo a un'otturazione. Finire con la testa dritta nella bocca aperta di una paziente con dentro un trapano, tra urla e sangue, può essere doloroso per più persone. Ma il dentista si innamora e potrebbe essere il primo non-sconosciuto che si avvicina a lei dopo tanto tempo. Solo che lui iniziando a frequentarla finisce per avere a che fare pure con la sua voglia di autodistruzione.


Il direttore d’orchestra (Lars Eidinger) dietro o suoi modi algidi e gli occhi grigi invece non sembra provare nulla. Di fatto “è vivo”, ma si comporta come se non lo fosse, da quando la sua compagna ha deciso di fargli le corna, una sera con un tizio a caso, per farsi ingravidare dopo anni di tentativi falliti con lui. Il matrimonio è saltato, soprattutto per la risposta apatica al tradimento, anche se la cosa sembra giusto provvisoria e l’ex moglie non ambisce a restare ex a lungo. “Tizio” si è rivelato un incredibile rompiscatole, ma pure una figura paterna super presente e in fondo “positiva”. Tuttavia il musicista si trova a fluttuare al di sopra di ogni relazione, distaccato, concedendosi di provare sporadiche emozioni giusto davanti ai musicisti, per mezzo della sinfonia che insieme sanno creare. Momenti piccoli e preziosi, ma che vengono puntualmente traditi, frustrati o negati dal compositore con cui sta lavorando (Robert Gwisdek). Dispotico, umorale al limite del sociopatico, “amico di sempre” ma decisamente ingestibile, con ampie e documentate tendenze distruttive e autodistruttive. La sua ultima opera, sfottuta da tutti come una specie di “colonna sonora per film con i vampiri”, lui la vede come una composizione perfetta: il testamento massimo della sua arte, la prova del massimo equilibrio in termini di “purezza” tra emozione e rappresentazione. È un’opera che si chiama guarda caso “Sterben”, “Morire”, e deve “a tutti i costi” essere in grado di descrivere quello stato d’animo, specifico e difficile, senza accondiscendenza, senza senso del grottesco: senza mischiarsi con altre emozioni, al punto che la musica diventi solo dolore, “senza altre scuse”. 

Glasner, nelle interviste, non nega che in questa ricerca di purezza ed equilibrio a tutti i costi, una cifra stilistica da lui ricercata in molti lavori, si celi la sua passione/ossessione per il cinema essenziale e senza fronzoli di Bergman. Ma di fatto, forse anche inconsciamente, la circostanza che la vita personale di recente abbia “travolto con tanta ferocia” il regista ha magari cambiato gli equilibri del suo lavoro: Sterben è diventato un film che non vuole limitarsi a morire “ridendo della morte”, cercando invece in qualche modo tutte le strade possibili per vivere o meglio “far sopravvivere” quel sentimento fino alla fine. È interessante a questo proposito che il film nella sua versione inglese si chiami Dying, traducibile con il più battagliero “stare giusto, al momento, sul punto di morire (forse)”, al posto del già sepolto e lapidario “Morire”. 

Il film vuole quindi sopravvivere quanto basta per capire “in punto di morte”, i segreti del ”volersi bene”, decantato da quei maledetti bambini al secondo 15 della pellicola. Questa esigenza/urgenza, di esplorare la “tenuta” delle relazioni umane in questo peculiare frangente, aggiunge alla nostra black comedy “a tema morte” delle sfumature da tragedia cupissima e disperata, che la rendono qualcosa di ancora diverso e originale. Perché, pur non negando l’umorismo amaro proprio di un mondo in cui domina sovente il nichilismo più puro, Glassner a ogni richiesta di affetto della nostra “famigliola felice protagonista” non può che corrispondere in cambio terribili stilettate l’odio e rancore. Ogni personaggio subisce e ricambia odio: a volte per “liberarsi dal peso” della relazione con l’altro, più spesso per “disilludere” l’altro da sogni o aspirazioni irrealizzabili. Sono “forme d’odio” che tendono a “uccidere ogni possibilità di legame” e a “oggettivare il prossimo e se stessi”, se vogliamo in virtù di quella che potrebbe essere letta come una ricerca di sopravvivenza individuale. Ma sono di fatto “bugie”: odio “finto” che nasconde un inesprimibile, quasi inopportuno, bisogno d’amore. 


Un amore che può trasmettersi in assenza di parole con l’arte, con la musica. Una musica d’orchestra avvolgente meravigliosa, curata da Lorenz Dangel, portata sulla scena, nelle tante sequenze sulle prove, con registrazioni in diretta, mischiando attori con professionisti reali. Sono scene in cui il film si eleva, dove spesso il pathos sale al punto di “sciogliere” le emozioni anche dei personaggi più contratti e silenziosi. Oltre che un’ottima black comedy e un ottimo film drammatico, Lo spartito della vita è anche un prezioso film sulla musica: sulla sua esigenza di precisione e silenzio, sulla sua capacità di diventare veicolo di emozioni, sul piccolo mondo che si crea dietro una esecuzione tra palco e pubblico. 

Glasner dipinge un affresco stimolante quanto complesso. Un film che fa ridere e piangere, riflettere e sognare fra psicanalisi e musica classica. Un’opera monumentale nei suoi 180 minuti, ma che scorre e affascina il pubblico tra mille stimoli, grazie anche al talento di ottimi attori, un montaggio fresco (con il sapore delle opere di Paul Thomas Anderson), una trama a tratti genuinamente imprevedibile.  

Lo spartito della vita ci porta in un mondo sarcastico e super drammatico che finge di essere materialista allo stremo, dove il valore di una persona si può misurare unicamente in ragione di ciò che produce o dal ruolo che ha svolto, a prescindere da “come lo ha fatto” o di come ha vissuto. Scoprire ciò che si nasconde al suo interno è un piacere che non si può negare a uno  spettatore in cerca di grandi storie e interpreti. Imperdibile per gli amanti della musica sinfonica e del bel cinema. Uno dei migliori film dell’anno. 

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lunedì 30 giugno 2025

Eternal - Odissea negli Abissi: la nostra recensione del film di fantascienza “intimista” di Ulaa Salim

 

Sono passati diversi anni da quando un terremoto con epicentro sulla costa danese ha provocato l’apertura di una misteriosa faglia, a centinaia di metri di profondità.

Da allora la frattura ha continuato a espandersi, andando progressivamente a destabilizzare il campo magnetico terrestre, innescando un meccanismo che, secondo gli scienziati, sarebbe stato in grado in pochi anni di portare all’estinzione umana.

Oggi la NPFA, la Northener Partnership for Fractural Activity, una squadra internazionale di studio, ricerca e intervento nato per studiare questo fenomeno, è pronta per dare inizio alla prima missione di “cicatrizzazione della frattura”.

Dal centro di comando Babylon il piccolo sottomarino biposto Fortune, comandato dal taciturno scienziato Elias (Simon Sears), scenderà nelle profondità oceaniche insieme ad alcuni droni di ultima generazione, comandati a distanza e dotati di componenti sperimentali. Il meglio della tecnologia più avanzata per curare quella che viene definita come una “ferita della Terra”, riportando il mondo a una nuova stabilità.

Nonostante il continuo contatto radio con la base, la discesa del mezzo, a ridosso di un infinito muro roccioso, è cupa e solitaria. I fari del sottomarino vengono continuamente avvolti da strane “nuvole nere”. L’arrivo all’obiettivo è sconcertante: dall’apertura più grande, simile a un lungo corridoio, a base rettangolare, viene sprigionata una luce dorata. Una luce che sembra viva e pare “guardare” i piloti del Fortune, come l’enorme occhio di un titano. Dal tunnel viene sprigionata una specie di onda d’urto, simile a una voce, che provoca il momentaneo Blackout dei sistemi di bordo e la perdita di sensi dell’equipaggio.

Elias si sveglia nella stanza di quando era ragazzo, a pochi mesi dal terremoto che aveva provocato la frattura oceanica e cambiato la vita di tutti.

È giovane, ha la testa sulla scrivania e circondato da schemi e grafici sul cambiamento climatico, dati in elaborazione sul pc, modellini in scala di sottomarini che sta studiando a fondo per prendere il brevetto di pilota. “Studia per diventare un eroe”, con passione e entusiasmo, ma quella sera ha più che altro voglia di una birra. La trova in un locale rumoroso del centro, insieme alla bella cantante Anita (Nanna Oland Fabricus). L’intesa tra i due diventa in pochi giorni qualcosa di profondo come il mare, anche se presto il destino li avrebbe portati a un bivio e a una inevitabile frattura.

Elias si riprende sul lettino della sala medica della Babylon, di nuovo più anziano e di nuovo eroe. Gli comunicano che grazie al suo copilota la prima fase della missione ha avuto buon esito, nonostante le interferenze elettromagnetiche che hanno messo a dura prova la comunicazione con i droni. Per celebrare l’evento, Elias e il suo copilota visitano il faro sulla costa da cui si è partito anni prima il terremoto, non troppo distante dai luoghi in cui viveva da giovane. L’eroe, inseguendo la visione avuta a centinaia di metri di profondità, la sera stessa va in cerca di Anita, nello stesso locale in cui la aveva incontrata per la prima volta anni prima. Il posto è appartato e buio, fumoso e solitario. Poi una luce e una voce guidano Elias verso Anita, che come allora canta accompagnata da un'orchestra. Il tempo non sembra averla cambiata molto. Si trovano e si riconoscono, organizzano un appuntamento per parlare del passato e riprendere a camminare insieme per la città. Lui è ogni giorno in televisione, non ha più frequentato nessuno, vive e lavora solo per ultimare la sua missione. Lei non sogna più di diventare una cantante professionista, insegna canto ai bambini, è spostata e ha un figlio che è super fan di Elias. Un figlio (Victor Hjelmsoe) che si chiama come avrebbe dovuto chiamarsi il figlio mai nato di Elias e Anita. Una tragedia che anni fa li aveva separati, facendo prendere a lui la decisione di partire per studiare in America e salvare il mondo, con quel gruppo embrionale che sarebbe diventato l’NPFA.

Scoprire che Anita ha un figlio, che poteva essere “suo figlio”, riapre una frattura interiore nel cuore dell’eroe. Elis pensa di aver sbagliato tutto nella vita, pensa che la sua missione fallirà e lui non avrà più uno scopo nel mondo. È come se si riaprisse in lui una frattura emotiva a lungo negata, ma che forse poco prima, a centinaia di metri di profondità, era già stata “rilevata da qualcuno” e usata contro di lui come un’arma. Forse per opera dalla misteriosa luce dorata. Nella seconda missione del Fortune quella stessa “arma psichica” avrebbe portato alla follia e morte del copilota di Elias.

Per potersi “difendere” dagli attacchi mentali di chiunque si nasconde al di là della faglia, Elias dovrà fare i conti con il suo passato, riparando quella frattura emotiva che tanto lo destabilizza, prima di finire distrutto dalla stessa. Il suo viaggio inizierà dallo scoprire qualcosa di più sul figlio di Anita. Dovrà lasciarsi tutto il dolore e il rimpianto alle spalle per salvare il mondo, ma Anita sarà in grado di aiutarlo. Le loro vite procedono da troppo tempo su binari lontani e le pretese di “tornare indietro nel tempo” sono difficili da realizzare. Troppo è stato perso a livello emotivo, da quando Elias ha deciso di salvare il mondo sacrificando però la loro relazione.

 


Il regista e produttore cinematografico danese Ulaa Salim, nato a Copenhagen nel 1987, dopo una serie di corti ha esordito al lungometraggio nel 2019, con il film Figli di Danimarca. Un film crudo e bellissimo sul “senso di appartenenza a un territorio”, che parlava dell’integrazione sociale (im)possibile tra i nuovi migranti e i “figli di Danimarca”, attingendo dal cinema sociale più ruvido e di denuncia, ma anche giocando bene con i registri del “cinema di genere”: sapendo mischiare il drammatico con l’horror e l’action. Per Eternal, il suo secondo film, che Salim nelle interviste descrive come una “riflessione su come le singole scelte possano cambiare una intera vita”, ma anche come “un viaggio all’interno delle sfumature dell’amore”, il regista ha deciso di farsi guidare dalla grande fantascienza di classici come 2001 Odissea nello Spazio di Kubrick e Solaris di Tarkovskj. Questo si sarebbe tradotto in una sorta di “odissea spaziale capovolta”, in cui il viaggio dell’eroe non punta alle stelle, quanto al centro della terra e della sua anima. Alla ricerca delle “radici esistenziali liquide” da cui derivano sogni, incubi, speranze e scelte individuali. Portandolo poi a esplorare i legami sottili e complessi con cui le scelte individuali vanno inesorabilmente a entrare il relazione e in conflitto con le scelte di vita di altre persone. Proprio durante la produzione del film, Ulaa Salim diventava padre: con temi come la genitorialità e il “futuro” che nella composizione dell’opera andavano ad aggiungersi e sovrapporsi con i timori del riscaldamento globale e del “futuro negato” alle nuove generazioni. sfumature che per lui portavano l’opera anche nei territori di Interstellar di Nolan.

Per interpretare Elias, Salim ha scelto l’attore Simon Sears, protagonista nel 2020 dell’action Enforcement e poi nel 2021 tra i protagonisti della serie Netflix Shadow & Bone.

Anita ha invece il volto di Nanna Oland Fabricius, conosciuta anche nel mondo della musica con il nome di Oh Land, nota per collaborazioni con Katy Perry e i Coldplay, Pharrell e John Legend. Nel film Salvation di Kristian Levring ha recitato a fianco di Mads Mikkelsen.

Victor Hjelmsoe è invece un giovane attore danese già attivo in alcune serie tv locali.

Per precisa volontà del regista, durante il film il ruolo di protagonista della scena si sarebbe alternato dal personaggio di Sears a quello della Fabricus: per offrire una diversa prospettiva dei fatti narrati e permette alla pellicola di mutare il suo registro narrativo dalla fantascienza al film sentimentale.

 


Ulaa Salim porta sulla scena la classica idea del “What if…?”, familiare a pellicole sentimentali molto amate come Sliding Doors di Peter Howitt, A family man di Bret Ratner e Stefano Quantestorie del nostro mai abbastanza celebrato Maurizio Nichetti, per poi “fonderla” con suggestioni di una fantascienza di stampo “esistenziale”, che passa da Kubrick a Tarkovskj, ma sembra trovare un territorio affine soprattutto con opere come Contact di Robert Zemeckis.

È una formula che effettivamente riesce bene sul “piano sentimentale”, con bravi attori che riescono in modo naturale a esprimersi al meglio sul lato emotivo, andando a raccontare un percorso di coppia e genitorialità tortuoso ma mai banale, ricco di molti spunti di riflessione e dotato di pathos quanto imprevedibilità.

Tuttavia il piano della “fantascienza” e della “avventura sottomarina” rimangono aspetti solo sfumati, quasi dimessi, relegati per lo più a un livello simbolico.

Sebbene durante la visione possiamo rimanere affascinati da tute di profondità che ricordano Sfera di Barry Levison, “mini-sottomarini ibridi/droni” che non sarebbero dispiaciuti a James Cameron e un discreto bagaglio di nomenclatura tecnico/scientifica volta a conferire “la giusta atmosfera”, c’è da dire che avremmo voluto sapere molto di più della missione della Babylon e dei suoi sottomarini.

Da fan dei “film sottomarini” da Leviathan a Creatura degli Abissi, passando per Abyss e il “dimenticato” Underwater, avrei preferito entrare un po’ di più nella “tana del Bianconiglio” che nasconde la frattura oceanica. Avrei voluto più dettagli sulle procedure di “fissazione della frattura”, magari immaginandole frutto di qualche studio sui testi scientifici, come quelle ricerche sulle tute di profondità alimentate da un liquido al posto delle bombole di ossigeno, che avevano ai tempi ispirato Cameron in Abyss. Avrei voluto più simulazioni ambientali, descrizioni sui droni, informazioni sulle procedure extra-veicolari. Il Fortune sul piano operativo più che un sottomarino a tratti pare una specie di ascensore con frequenti guasti elettrici.


Se il lato “tecnico” ha dei limiti, quello simbolico non è affatto male.

A livello visivo/psicologico ci appare forte e potente l’idea del “tunnel sotterraneo tra i mondi”. Una struttura megalitica quasi metafisica, che effettivamente profuma di Kubrick, ma che è anche un elemento centrale/spirituale in Figli di Danimarca di Salim. Un tunnel che lega uomini e territori, come natura e società, in modo indissolubile, quasi un cordone ombelicale o una radice. Salim “cita sé stesso” e in questo frangente funziona bene, affascina e forse ha trova il suo personale “monolite”.

Molto riuscito sul piano emotivo/sentimentale, forse solo accennato sul piano “fantastico”, Eternal risulta un film comunque interessante, originale e bene interpretato. Un film che parla di sottomarini in piena estate è poi sempre un grande classico del cinema: attraverso la fantasia e una sala ben arieggiata forse riusciremo a sopportare con meno fatica i terribili sbalzi termici di questa stagione. Romantico e rinfrescante.

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lunedì 23 giugno 2025

F1 – Il film: la nostra recensione del film sul mondo della F1 di Joseph Kosinski con Brad Pitt e Damson Idris


Premessa: Come reagirà una fan della F1 ad un film sulla F1? Andiamolo a scoprire per gradi.

Sono una fan della F1 leggermente atipica. Mi fanno paura le auto, la velocità e le piste ma adoro il mondo del “dietro le quinte” del paddock ed impazzisco per le strategie messe in atto dai vari ingegneri di pista. Tra i team radio da segnalare, Bryan Bozzi che si fa emozionare dalla vittoria di Charles Leclerc a Monza 2024 “ma come mi fai sognare!!”, Peter “Bono” Bonnington che mostra forza e rispetto a Lewis Hamilton “You’re the man”, Gianpiero “GP” Lambiase che rimbrotta Max Verstappen ed i suoi comportamenti “childhis” ed il tenerissimo Riccardo Adami che suggerisce a un emozionato Carlos Sainz di cantare “smooth operator” sono tra gli audio che preferisco in assoluto. L’uscita di un film dedicato alla F1 quindi mi ha incuriosito e spaventato in egual misura. Sarà possibile trasporre il clima e la sensazione che un gran premio trasmette ai tifosi? La risposta è sì. Sia per i non tifosi, che troveranno un film action piacevolissimo per trascorrere ben 2 ore e 35 minuti, sia per i tifosi che troveranno tutti i riti, le emozioni, i rumori e i veri protagonisti che sono abituati a vedere per la maggior parte dei week-end.

Sinossi: Ma qual è la trama del film? In un camper/van troviamo un uomo, Sonny Hayes (Brad Pitt), che sta dormendo sognando una gara di F1 di parecchi anni prima. Viene svegliato di soprassalto da un incidente nel sogno e da una assistente che lo chiama per prepararsi a correre la propria parte di gara nella 24 ore di Daytona. Con una guida “sportiva da ritiro di patente” il nostro Sonny riesce a risalire tutta la griglia di gara e a portare la sua squadra al trionfo. Sonny è una sorta di “randagio” del mondo delle corse, conosciuto negli anni ’90, perso negli anni attuali e sempre alla ricerca di una corsa, non tanto per soldi quanto per correre. Eccolo quindi rifiutarsi di correre con un “posto fisso” e partire per nuove avventure. Avventure interrotte dall’arrivo del suo ex compagno di corse, Ruben Cervantes (Javier Bardem) che in qualche modo riesce a convincerlo ad aiutarlo nella missione di salvare la sua squadra di F1, la APX, che viaggia da ormai un paio d’anni all’ultimo posto senza aver mai guadagnato un solo punto e guidata dal primo pilota Joshua Pearce (Damson Idris), un “rookie” più propenso a sponsor e soldi rispetto che allo sviluppo dell’auto. Accetterà Sonny questo duro compito di mentore/pilota salva squadra? E qui partono i titoli iniziali, tra un Lewis Hamilton produttore del film, un Toto Wolff produttore del film ed uno Stefano Domenicali consulente massimo… direi che le premesse si mettono proprio bene. E così entriamo da un punto di vista privilegiato nel fantastico mondo della Formula 1!

Da subito nel box iniziano i primi dissidi, un “pivello” contro un “fallito guru cow-boy”, un team principal ex meccanico alla posteriore sinistra che nessuno rispetta (Kim Bodnia), un direttore tecnico donna (Kerry Condon) che cerca di limare un decimo alla volta per far andare più forte l’auto, una giovane meccanica donna alle prime armi (Callie Cooke), un giovane race engineer dai capelli rossi (Will Merrick) pronto a comunicare le varie strategie “plan A”, “box, box”, “copy” per la gioia delle mie orecchie 😊 ed i fan dei team radio.

Prima gara, ed ecco che tutta la disorganizzazione e gelosia tra i due piloti saltano fuori, disastrosamente entrambe le auto vengono distrutte. Sonny, tramite una guida che ricorda molto il fu pilota Nicholas Latifi, famoso per incidenti e disastri totalmente evitabili, prende per mano la scuderia e traghetta tutti verso una nuova strategia, il famigerato e mai provato “plan C”… il “piano caos”! Assistiamo così a dei veri e propri GP, con protagonisti i nostri piloti ma come co-protagonisti anche i veri piloti, con riprese effettuate direttamente dalle F1 in pista e podi (con vittorie sempre pro Red Bull ma con Sergio Perez…) e paddock con le vere persone che vivono i week-end motoristici. Fantastico il cameo del “vecchio” Fernando Alonso che si complimenta con uno ancora più vecchio di lui (Brad Pitt)! E giungiamo così al gran premio che sta a cuore a tutti gli italiani: Monza. Succede un po’ di tutto a Monza, compreso quello che darà la svolta a tutta la squadra, ai rapporti tra i piloti e alla gestione del team. Nessuno spoiler perché non voglio rovinare nulla e lasciare il piacere della visione del film.


Cast: azzeccatissimo. Brad Pitt, che interpreta Sonny Hayes, è in uno stato di grazia e migliora e ringiovanisce col tempo, stile Benjamin Button. Centratissimo nel suo ruolo di pilota esperto, con vizi, scaramanzie e passione che ci vogliono per essere un mentore ed un leader. Azzeccato in un mix tra stilosaggine, tecnicismo e carisma che ricorda un Lewis Hamilton, il bravo Damson Idris. Fisico da fotomodello, lo rivedremo sicuramente. Il capo scuderia Ruben viene impersonato da Javier Bardem, che deve aver fatto qualcosa al viso perché ha dei lineamenti diversi… sarà la barba… ma attore poliedrico e centratissimo nel ruolo. Carry Condon è la parte femminile, impersona Kate, il direttore tecnico della scuderia, che non potrà essere neutrale quando si troverà davanti uno splendido Brad Pitt. Ma il cast è fatto anche da camei, apparizioni, sfondi, commenti di tutti i protagonisti del paddock F1. Quindi ecco che ci compare Roscoe, il cane sette volte campione del mondo di Lewis Hamilton, che ci porta a spasso tra i vari box. O Stefano Domenicali, gran capo della F1, che si complimenta coi vincitori. O Toto Wolff, CEO e team principal Mercedes, con offerte di lavoro per tutti. Senza dimenticarci un Max Verstappen che fa realisticamente Max Verstappen e si lamenta per essere stato spinto fuori o un George Russell che crea investigazioni, sua specialità in ogni GP che si rispetti. Divertentissima ma, soprattutto, verissima la battuta su Carlos Sainz, splendore che illumina il paddock. Poteva mancare Gunther Steiner? Direi proprio di no… così come la Ferrari è qui presente con Fred Vasseur e Charles Leclerc… anche se (spoiler alert) manco qui riesce a vincere… Sic! Gran finale con Lewis Hamilton e tutta la sua aurea mistica. Degno di nota anche l’apparizione del “mio” race engineer preferito, Bryan Bozzi, pronto a guidare Leclerc e la Ferrari.

Le riprese, la fotografia di Claudio Miranda ed il montaggio di Stephen Mirrione, sono fantastiche. Vivi proprio l’esperienza della velocità ed il fatto di essere dentro l’abitacolo e girare a 300 km/h in pista. Registrate direttamente nel corso di un paio d’anni in occasione di vari GP (da notare i cambi di tuta del team Ferrari che un occhio esperto non può non notare), rende il tutto ancora più realistico e immersivo.

Il regista e sceneggiatore, Joseph Kosinski, fa di nuovo centro dopo il gran bel lavoro fatto con Top gun: Maverick. Audio e colonna sonora strepitosi, grazie al tocco di Hans Zimmer. Da godersi un intero giro di pista a Yas Marina con la sola colonna sonora. Brividi. Energia, emozione, ritmo e tensione sono fondamentali per ogni film prodotto da Jerry Bruckheimer, re indiscusso dei film fracassoni.

Assolutamente da vedere per chiunque ami i film action e per tutti gli amanti della F1. Voto 4/5 per i non appassionati, anche alla luce di una trama un po’ ingenua che però visivamente e sul lato dall’azione funziona. Voto 5/5 per i fan di F1 perché è assolutamente imperdibile.  

B-Gis

mercoledì 18 giugno 2025

Black Bag: la nostra recensione del nuovo thriller firmato da Steven Soderbergh, con protagonisti Cate Blanchett e Michael Fassbender

 


Una Londra dei giorni nostri è sempre la casa degli 007 e dell’MI6 (il cui capo ha qui il volto, non a caso, di Pierce Brossnan).

Gli agenti segreti vivono costantemente tra bugie e negazioni, in ragione della difesa di un superiore “bene comune” in virtù del quale si può dire e fare di tutto, invocando a giustificazione anche delle cose più turpi il termine “Black Bag”. Questo zelo verso l’onestà assume la forma di una specie di  “malattia professionale”, in seguito alla quale gli agenti diventerebbero persone sempre più incapaci di resistere all’interno di una qualsiasi relazione basata sulla fiducia reciproca. Una eccessiva fedeltà verso il partner viene di conseguenza considerata in questo mondo distorto un “vulnus”, un punto debole di cui il nemico può facilmente fare uso. In questo clima, anche solo realizzare “una sera a casa di amici” non può che essere una situazione con ovvi secondi fini contro-spionistici. 

Una “serata di divertimento e giochi”, in compagnia della coppia formata dall’austero specialista degli interrogatori al poligrafo George (Michael Fassbender) e dalla lunare dirigente di alto livello Kathryn (Cate Blanchett). Una cena a sei, a casa di George. 

Questa è la singolare “proposta dell’ultimo minuto” a cui devono far fronte due coppie di agenti più giovani. Una coppia è formata dalla irritabile e umorale specialista al controllo satellitare Clarisse (Marisa Abela) e dal narcisista e cinico agente Freddie (Tom Burke). L’altra è formata dall’infantile e rancoroso agente operativo James (Rege’-Jean Page) e dalla infelice e gelida psicologa Zoe (Naomie Harris). 

Tutto il ricco menù è opera delle mani esperte di George: con una pietanza in particolare piena di una droga simile al siero della verità che toglie inibizioni e aumenta l’aggressività. 

George con i suoi manicaretti sta guidando a quel tavolo di un bellissimo soggiorno signorile, una delicatissima e pericolosa “caccia alla talpa” dalla quale dipende tutta la geopolitica futura. Le persone sedute accanto a lui, compresa sua moglie, sono tutte finite su una lista che le ritiene possibili traditrici del loro paese. Uno di loro nello specifico avrebbe venduto a dei dissidenti russi una arma di nome “Severus”: un virus informatico in grado di far esplosioni a distanza il nucleo di una centrale nucleare, forse vicino al Cremlino, forse dando inizio così alla Terza Guerra Mondiale. 

George è un uomo così composto e calcolatore da sembrare quasi una macchina. Scruta ogni dettaglio, detesta chi mente quanto trovare le più piccole macchie che rendono un vestito da sartoria sporco. Il suo metodo investigativo è simile al suo modo di pescare all’alba sul lago. Per attirare le sue prede ama creare “stimoli emotivi” come preparare ogni singola azione. Lancia l’amo lontano per poi lentamente avvicinarlo: come riavvolge il mulinello “rielabora” nella sua mente ogni risposta incerta, distratta e forse colpevole di chi inevitabilmente verrà pescato in fallo. 

Per dare brio quanto stimolare risposte violente, per la serata ha preparato un gioco di gruppo: ognuno dei commensali dovrà esprime “cosa si augura” per la persona che siede alla propria destra del tavolo. 

Le droghe hanno subito effetto e rivelano segreti fin troppo intimi, anche per le spie. I sorrisi si fanno in pochi minuti tirati, gli occhi e le frasi sempre più cattive. Emergono insoddisfazioni sul piano sessuale, tradimenti malcelati e discriminazioni per l’età o il carattere “troppo debole” del proprio partner. Il gioco e la serata terminano con qualcuno che si prende una coltellata nell’ego e pure al centro della mano. Ferite superficiali che arrivano forse “troppo presto”, ma da cui George ha capito qualcosa di importante sulle fragili dinamiche di ogni coppia. Può da qui iniziare a intessere nuove trappole e strategie, di sorveglianza e ricatto, per mettere nuovamente alla prova tutti i presenti.

George saprà farsi prestare i super tecnologici “occhi satellitari” e arrivare fino ai più classificati contatti del MI6. Fino a che l’agente, spinto verso più vicoli ciechi, inizierà a dubitare anche delle più piccole certezze che da sempre lo hanno guidato, nella vita e nel lavoro. E dire che in passato, nel nome della lealtà e della patria, non si era fatto problemi neppure a rovinare la vita e carriera di suo padre. Facendo emergere un suo scandalo sessuale nel mezzo di una festa di compleanno: foto di amplessi proiettate nel filmino del taglio della torta.

Kathryn inizierà allo stesso tempo a preoccuparsi per per il suo uomo: la numero 2 dell’MI6, con tutto il suo potere e influenza, pari intensità e ossessione, dimostrerà forse come il “vero amore tra agenti”, ai tempi delle Black Bag, abbia per fondamento inevitabile una cappa di infinite suggestioni paranoidi atte a preservare il rapporto.  

Riuscirà George a fidarsi di Kat al punto di essere disposto, come chiede di prometterle, anche “ad uccidere per lei”? La “tenuta” delle altre due coppie sarà più funzionale agli interessi del partner o al bene del proprio paese? 


Lo sceneggiatore David Koepp è una autentica leggenda di Hollywood. Per Spielberg ha adattato il Jurassic Park di Crichton, scritto i più recenti Indiana Jones e La guerra dei mondi. Per De Palma  ha lavorato su Carlito’s Way, il primo Mission: Impossibile e Omicidio in diretta. Per  Howard ha adattato i romanzi di Dan Brown:  Angeli e Demoni e Inferno. Ha dato vita a una nuova versione del Jack Ryan di Tom Clancy per Branagh, per Zemeckis ha scritto La morte ti fa bella e ha adattato anche opere tratte da Stephen King. Per i fan degli action anni ‘80 ha scritto pure il piccolo (s)cult Arma non convenzionale.

Nel 2024 lavora con Stephen Soderbergh a Black Bag e in contemporanea al thriller soprannaturale Presence, tra poco nelle sale.

Con Black Bag Stephen Soderbergh sembra quasi tornato ai temi del suo esordio con Sesso, bugie e videotape del 1989. Dinamiche di coppia funzionali e disfunzionali, intriganti, qui “ricoperte” di un grande fascino da spy movie e “rese preziose” da una messa in scena divertente, ricca di un suggestivo “senso tragico”. C’è l’azione, i “giochi di prestigio” degli spy movie, ma Soderbergh vuole inchiodarci a quel tavolo, come fosse un fulcro dell’universo.

Il regista che più di tutti ha fatto del ritmo e del montaggio incrociato una delle sue principali cifre stilistiche, ormai da anni sta infatti cercando, da vero iconoclasta, di smarcarsi da una definizione/etichetta che sente per lui troppo “opprimente”.  Black Bag, per il modo in cui “inchioda sulla scena” e sempre al centro dell’azione i personaggi, non sfigurerebbe a teatro. La telecamera quasi non si muove, se non con piccolo “voyerismo”. I caratteri si rivelano attraverso un ricco linguaggio non verbale e dialoghi particolarmente brillanti. Ogni spettatore diventa a suo modo un detective e rimane afferrato al racconto dall’inizio alla fine. È sempre un film di spie, anche se i duelli con le armi da fuoco fanno forse meno male di velenosissime e non meno “mortali” invettive. Ogni dialogo, dal più ingenuo al più tecnico/tecnologico, dal più sarcastico al più psicanalitico, sa trasformarsi in una vera e propria “arma”. Qualche volta sembra di assistere a una variante da 007 di Perfetti Sconosciuti di Paolo Genovese e il gioco funziona bene soprattutto in quei frangenti. 


Ottimi tutti gli interpreti, che qui felicemente e con autoironia, in un modo gioiosamente meta-cinematografico, sembrano portare sul set qualcosa dei loro ruoli del passato. 

Fassbender, che forse non riesce ancora a “togliersi la maschera” del gelido robot David di Alien Covenant, regala al suo George un sincero e profondo, quasi goffo, “smarrimento”. 

Blanchett con la sua Kat prova a essere “intima e sensuale”: gioca con sguardi intensi, ma sembra non riuscire a togliersi quella “avvenenza maestosa ma fredda”, che la ha pluri-celebrata negli anni come regina degli elfi (Il signore degli anelli), poi regina di Inghilterra (Elizabeth), donna forte al comando (Tar), dea norrena (Thor Ragnarok), addirittura “reincarnazione spirituale” di Katarine  Hepburn (The Aviator) e pure “il femminile” di Bob Dylan (Io non sono qui). 

Fassbender e la Blanchett in questo gioco di rimandi, vizi e difetti sanno trasmettere a pieno ogni emozione, sfumatura e sfuriata delle loro complesse e complessate spie. Creature machiavelliche e manipolatorie, “glaciali” per natura (lui) o anche sono per estetica (lei), ma in fondo umanissime e umanamente adorabili in quanto legate tra loro da un sentimento autentico. Un sentimento che, goffamente, non riescono a dichiararsi senza “esternazioni inquietanti” che sotto l’occhio divertito di Soderbergh e la penna precisa e irriverente di Koepp ci paiono degne di Gomez e Morticia Addams. Personaggi che le costumiste Sarah Bosshard ed Ellen Mirojnick, giocando con i noti cliché degli spy movie, rendono quasi bartoniani, quasi a livello del Gru di Cattivissimo Me: ci si affeziona, nonostante, tutti i terribili intrighi, doppi giochi e complotti internazionali in cui finiscono dentro durante tutta la vicenda. Li adoriamo anche quando snocciolano un ricchissimo gergo spionistico così soverchiante di sigle e tecnicismi da risultare “esagerato”, ma che lo sceneggiatore Koepp sa rendere sempre giocosamente  credibile. Dettagli infiniti uniti a una ottima prova di tutto il cast che rendono Black Bag originale quanto stimolante per più visioni future. 

Black Bag mette in scena il modo in cui una crisi di coppia sia in grado di trasformarsi in crisi internazionale.

La nuova impostazione “teatrale” di Soderbergh diverte e conquista, forse strizzando felicemente l’occhio ai Perfetti Sconosciuti di Genovese. 

Ottima la messa in scena, brillanti e sempre ricercati e ammiccati i dialoghi, bravissimi tutti gli interpreti coinvolti. 

Soderbergh firma un altro piccolo capolavoro. 

Talk0

lunedì 16 giugno 2025

Lilo e Stitch: la nostra recensione del live action Disney diretto da Dean Fleischer Camp

Lilo (Maya Kealoha) è una bimba orfana che vive nelle isole Hawaii dei giorni nostri con la sorella Nani (Sydney Elizabeth Agudong). Perspicace, sensibile ma risoluta, ha amici “particolari” come il pesce Pudge, a cui spetta un sandwich ogni giovedì, e compagne di scuola non sempre “allineate” alla sua visione del mondo.

Stitch è l’esperimento generico alieno, in numero 626. Per vari motivi è stato ritenuto “pericoloso” e per questo viene esiliato sulla Terra, un pianeta il cui 71% è formato da acque, quando l’acqua per lui è una specie di kryptonite per Superman. Per pura fortuna, dopo essere scappato su una navicella rossa (la mia mamma dice sempre “5 lire in più ma rossa”… come darle torto), si salva atterrando sulla terra, proprio alle Hawaii. Il suo creatore, il dott. Jumba Jookiba (doppiato in originale da Zach Galifianakis), si offre volontario per recuperarlo. Ma la Terra è un pianeta insidioso, per cui viene accompagnato da Pleakley (Billy Magnussen), super esperto del pianeta e amante delle zanzare. 

Lilo e Nani si barcamenano in quella che potrebbe essere una vita “normale” ma, purtroppo, senza grandi risultati… indi per cui l’assistente sociale che li ha in gestione (Tia Carrere), per l’affidamento a estranei della sorellina più piccola, indica delle azioni correttive per fare in modo di non separare le due sorelle, magari facendosi aiutare anche dalla vicina di casa.

Lilo e Nani si promettono di esserci sempre l’una per l’altra, che le cose sarebbero presto migliorare. Quale migliore auspicio di una stella cadente per esprimere questo desiderio? La stella cadente, in realtà, è la navicella di Stitch che arriva sulla terra… 

Ed ecco che Lilo e Stitch si incontrano… magari un “cagnolino” può aiutare Lilo a sentirsi meno sola e l’esperimento 626 viene di fatto scambiato per una strana specie di cagnolino… e da lì ecco partire le avventure del film!


Live action che riprende a grandi linee il favoloso cartone animato che quest’anno compie 23 anni, ma talmente adorabile che sembra uscito un mese fa. Tra gli attori “in carne ed ossa” si segnala la brava bambina esordiente Maia Kealoha, davvero molto tenera nell’impersonare la piccola Lilo. Come “chicche” per gli appassionati, in nuovi ruoli, ritornano Tia Carrere (nota per la serie tv Relic Hunter) e Jason Scott Lee (Dragon, Mowgli). La prima nel cartone era la voce di Nani e qui diventa l’assistente sociale. Il secondo era la voce originale del ragazzo di Nani e qui è nei panni di un ristoratore. Il regista Dean Fleischer Camp, ma soprattutto gli sceneggiatori, si prendono alcune libertà che, rispetto al cartone,  lasciano a tratti lo spettatore un po’ stupito. Tra queste si segnala una particolare “invadenza” della vicina di casa, personaggio del tutto nuovo e forse poco centrato, ma ciò che più dispiace è  l’assenza della figura e della musica di Elvis Presley, che nel cartone diventava un vero e proprio “modello comportamentale” per “trasformare in un buon terrestre” il piccolo Stitch. Il ruolo della CIA diventa ancora più centrale nella vicenda, mentre il mitico e carismatico cacciatore di taglie spaziale non è più presente nella trama. 

Alcune scene sembrano non rispettare una narrazione lineare e lo spettatore purtroppo può trovarsi spaesato durate la visione. 

Buono il comparto effetti speciali, che da vita a una “versione live action” particolarmente riuscita di Stitch: coccoloso ma narrativamente molto più “cattivello” di quanto ci ricordavamo. 

Interessante l’idea della trasformazione dei personaggi alieni in attori in carne ed ossa: un Zach Galifianakis in particolare stato di grazia ed un simpatico Billy Magnussen. 

Film adatto ad una serata coccolosa con la famiglia. Anche se il cartone ha degli insegnamenti e dei momenti di commozione che il live action non riesce a toccare. 

B-Gis.

domenica 15 giugno 2025

Milarepa: la nostra recensione del film “spirituale” di Louis Nero

Ci troviamo in un luogo alla fine del tempo: un’isola ai confini di un mondo futuro diventato desertico, medioevale, pieno di miseria e complotti, maghi e streghe.

Qui le donne non hanno più il diritto di leggere o studiare, si occupano di campi rinsecchiti e vivono all’ombra di stazioni ferroviarie in disuso, aspettando di essere sposate per suggellare patti di potere. Un giorno il nobile capo di un villaggio, padre di due figlie, viene colpito gravemente in un agguato. Le ultime disposizioni sono che gli zii succedano al comando, fino a che la sua figlia più grande, Mila (Isabelle Allen), sarà in età da marito. Ma gli anni passano e i patti non vengono rispettati. La madre (Iazua Larios) e le due figlie vengono cacciate dal palazzo insieme al nonno Oyun (Frank Murray Abraham). La madre vuole vendetta, taglia i capelli di Mila come quelli di un maschio e la manda a studiare arti oscure, che le permettano di distruggere con la mente i palazzi e rendere aridi i campi usurpati. Sotto la guida del saggio Yuguntun (Hal Yamanouchi), Mila impara la scienza e i fondamenti della magia, forse sogna per sé un futuro felice, ma la vendetta che reclama a gran voce la madre la porta a diventare agli occhi di tutti un’arma spietata: una strega.

La ragazza scopre di essere potente ma al contempo si macchia di colpe indicibili. Cerca il Lama Marpa (Harvey Keitel), per arrivare a una crescita spirituale che la renda ancora più forte. Ma la guida, trattandola come un manovale, non fa altro che chiederle di costruire e distruggere torri, senza mai farla accedere alla sua sapienza.

La ragazza cade presto in un vortice di disperazione, dal quale può forse uscire grazie all’aiuto di un misterioso viandante (Franco Nero).

 


Arriva a otto anni di distanza da The Broken Key il nuovo film di un autore originale, “spiazzante” e profondo come Louis Nero. Nero ha uno stile registico che può ricordare, per suggestioni/assonanze visive, ricchi costumi e intrecci dal sapore di favola, il Pasolini più esoterico. Gira spesso in low budget, ricercando e ricreando un senso di fantastico che gli viene offerto dalla rielaborazione, con fotografia ed effetti visivi, di scorci reali e celebri dell’Italia dei giorni nostri. Crede a un’idea di cinema senza confini e sul set predilige la lingua inglese e dialoghi semplici, quasi religiosi. Tratta temi che spaziano dal fantasy (Golem) alla psicanalisi (Hans), affondano nelle radici della multiculturalità (Il mistero di Dante), sfiorano la fantascienza unita al sacro (The broken Key). Sono molte le star internazionali che, nel tempo, sono state attirate dal suo talento, anticonvenzionale quanto “alieno” da molte meccaniche produttive ritenute ormai “standard” nella settima arte. Louis Nero offre per questo un cinema profondamente autoriale e difficile, volutamente “imperfetto” e non adatto ai giusti delle ampie platee. Per qualcuno risulta davvero bizzarro se non forse “troppo fuori standard”, ma Lous Nero riesce a essere un artista sempre ricco di suggestioni e passione.

Non fa eccezione questo suo ultimo lavoro, che racconta e reinventa in una chiave nuova, “femminile”, la storia di un mistico tibetano dell’anno 1000, rimmaginandolo in un luogo futuro/apocalittico che Nero ha ricercato per due anni tra i paesaggi, i colori e i canti corali della Sardegna. Come sempre sul lato visivo l’autore sorprende e affascina, qui per un grande lavoro di ricerca volto a mettere in assonanza, tra Oriente e Occidente, la “funzione” di alcune costruzioni del passato: come nuraghe che si trasformano in tombe tibetane. Anche i canti della tradizione corale sarda sanno mischiarsi in modo suggestivo con le litanie tibetane.

Sul lato narrativo il discorso è diverso e più complesso.

La storia del mistico Milarepa (raccontata anche da Jacques Bacot in un libretto per la collana Adelphi) è una vicenda che aveva colpito e appassionato il regista fin da quando era un ragazzo di 20 anni (quell’età magica in cui anche il Siddhartha di Hermann Hesse affascina tanti lettori), andando a influenzare i suoi studi sui miti e le religioni antiche. Nel 2025, in un periodo in cui sentimenti come la rabbia e la vendetta sembrano esplodere su tutto lo scacchiere mondiale, inasprendo ogni relazione umana, Nero ha sentito l’urgenza di portare in sala un adattamento del racconto che invitasse il pubblico a “superare la rabbia”, accettando la spiritualità e la meditazione come una vera e propria cura dell’animo umano.

Un progetto ambizioso, quasi “sciamanico”, pur con qualche licenza in molti passaggi vicinissimo alla storia ufficiale. Una storia simile a una favola oscura che prende la forma di un viaggio unico, curioso e strano. Sulla scena; temi come la morte e la rinascita, l’immenso ma effimero potere offerto dalla vendetta, il duro e amaro cammino verso il perdono di sé stessi.

Nero decide di giocare con tanta, troppa mitologia e simboli, spesso a discapito di una direzione degli attori più chiara, di un montaggio più sintetico. Nella messa in scena, per precisa volontà dell’autore, i personaggi spesso risultano “rigidi”, “straniti”: quasi fossero racchiusi in una gabbia simbolica troppo impenetrabile, che rende difficile empatizzare con loro.

Isabelle Allen dà vita a un personaggio che dovrebbe vivere di molte trasformazioni, ma che per una ricercata fissità espressiva risulta quasi assente. Il Lama di Harvey Keitel è così trattenuto e indurito da sembrare una statua, anche quando dovrebbe portare alla luce la forte contraddittorietà delle sue azioni: cambia umore e viso all’istante, quasi fosse un giano bifronte. Ogni relazione umana diviene di conseguenza un processo estremamente meccanico, più simile a una preghiera che a un dialogo.

Tuttavia, proprio questo “senso di alienazione” rende i personaggi di Nero particolarmente affascinanti, inconsueti.

Così come il film vuole essere a modo uso esattamente una “preghiera”, al punto che dal 19 giugno sarà proiettato in 100 sale in accordo con associazioni legate allo Yoga e alla Crescita Spirituale. Insieme alla visione, saranno organizzati momenti di riflessione e meditazione collettivi.

Siamo nell’area della “lezione” più che della “rappresentazione”, del “racconto corale” più che del cinema nella sua forma più canonica. Uno spettatore non adeguatamente preparato può rischiare di perdersi tra mille domande e uscire magari sconfitto dalla visione, “insoddisfatto” da un messaggio che può non essergli arrivato con la dovuta chiarezza. 

Ma se ricercate un film fuori da ogni schema, che tradisce/ignora moltissime delle convenzioni narrative della settima arte scegliendo liberamente di esprimersi con un linguaggio proprio, spesso imperfetto, spesso compresso e troppo esteso, siete nel posto giusto. Anche senza conoscere il mito di Milarepa, è possibile approcciarsi all’opera osservandola come uno “strano oggetto filmico non identificato”, sorvolato nelle nostre sale, nel mezzo dell’estate del 2025, in un modo non diverso da come l’anno scorso abbiamo avvistato L’impero di Bruno Dumont. Entrambe pellicole fieramente non accomodanti, a loro modo entrambe “fantasy”, frammentate ma stimolanti, genuine quanto forse accessibili in pieno solo al loro autore. Se vi ha colpito lo stranissimo film di Dumont, un giro su Milarepa di Louis Nero lo potete fare.

Se vi aspettate un film stile Piccolo Buddha di Bertolucci o magari Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera di Kim Ki-duk, vi trovate qui davvero su una galassia lontana lontana.

Se tutto questo vi spaventa più che stimolarvi, vade retro.

Del resto, in genere, gli Ufo cinematografici e non da sempre spaventano, per mille validi motivi.

Ma se sarete abbastanza audaci, pronti a farvi stimolare, sconvolgere e appassionare, da un autore complesso e unico nel suo stile come Louis Nero, potreste trovare in sala qualcosa di felicemente inaspettato. 

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lunedì 9 giugno 2025

Mani nude: la nostra recensione del film drammatico, diretto da Mauro Mancini, tratto dal romanzo di Paola Barbaro, con protagonisti Alessandro Gassman e Francesco Gheghi

Nel cuore della notte un camion con rimorchio gira più volte, in tondo, lungo il piazzale di una cava di sabbia. 

Un uomo dallo sguardo severo (Alessandro Gassman) osserva questa strana manovra costante, composto e immobile, fumando una sigaretta. 

Nelle vicinanze c’è una discoteca dove si muovono al ritmo di musica techno giovani avvolti in una luce verde. Un ragazzo biondo (Francesco Gheghi) si allontana dalla massa per espletare un bisogno fisiologico, contro la flora del giardino,  quando due uomini lo placcano, lo stendono con un analgesico, lo ficcano in un bagagliaio.

Gli occhi del biondo si aprono confusi in quella cava, con l’uomo dallo sguardo severo che aprendo il bagagliaio sentenzia: “A volte capita di incontrare le persone sbagliate. Stavolta tocca a te”. 

Il tir si ferma.

Il biondo rintronato e trasportato come un pacco dentro al rimorchio. Il portellone si chiude sferragliando, rimane il buio, il veicolo ricomincia a girare, in tondo. Una voce giovane, umana, forse simile alla sua, certifica al ragazzo che nel buio non è solo. Poi iniziano i pugni. 

Al di fuori l’uomo torna a fumare, in attesa del tempo necessario perché il camion torni a fermarsi dopo uno o più giri nello stesso punto, come se il camion sul piazzale disegnasse lo scorre del tempo come la lancetta su un orologio. 

Il viaggio finisce, il portellone si apre. Il biondo è in piedi, ricoperto di sangue. Tiene con i gomiti la guardia alta, precisa e plastica come un pugile. Chi era con lui è a terra, anche se in un attimo anche il biondo sviene. 

Il risveglio è nella stiva metallica e piena di tubi di una nave mercantile, ancorata al molo, con un medico che stima a due settimane il tempo di recupero. Per il biondo una stanza/prigione con sbarre ai vetri, un giaciglio consunto, un orinatoio e una porta metallica chiusa. Extra non trattabili. Da uno spioncino l’uomo che fumava lo osserva severo: allunga una ciotola di riso da un'apertura bassa simile a quella da cui possono passare i cani, comanda di mangiare. Il ragazzo non vuole, non capisce, suggerisce accordi disperati. I suoi parenti sono ricchi e potrebbero pagare, qualcuno avrà avvertito le autorità e poi, soprattutto, “perché lui?”. Risposte poche e confuse invitano a rassegnarsi: lui è già come morto, “ha già ucciso”, è diventato ormai “proprietà di qualcuno”.  

Il ragazzo non ha mai più alcuna fame, viene “imboccato con la forza”, più per preservarlo come capitale che per una qualche forma di umanità. 

Di nuovo controvoglia in piedi, finisce in un’altra ala della nave: una palestra gremita di ragazzi e uomini dall’aria persa e incattivita. L’uomo che fumava si fa chiamare “Minuto” e non ha altri minuti da perdere. Butta il biondo al sacco da boxe, gli butta contro pure un ragazzo tatuato di nome “Puma” come sparring. L’allenamento prevede pugni, calci, immersioni “forzate” dentro una tinozza d’acqua per sviluppare resistenza. Tra un incontro e l’altro il tempo passa in fretta e il biondo torna sul camion, diretto verso combattimenti clandestini sempre più violenti ed estremi, nel cuore di nuovi alberghi in costruzione o in ville di ricchi sadici. Incontri in cui è tassativo: “solo uno può uscire vivo”. Le cicatrici post match incoronano il biondo come grande incassatore, gli scommettitori iniziano a richiederlo. Puma, uno strano amico ormai, spiega che per ora loro due sono “cani minori”, ma che potrebbero essere promossi presto a “cani maggiori”, arrivando a guadagnare i soldi necessari per liberarsi dai debiti. Puma è in quella situazione per via di debiti chiarissimi, ma il biondo in fondo non ha ancora capito perché si trovi lì. Perché Minuto ha deciso di tenerlo separato dal resto del gruppo? Che forse il legame tra il biondo e Minuto sia simile al vincolo che lega Minuto al vecchio boss della criminalità, con un occhio solo come Odino, che organizza da sempre tutti i combattimenti clandestini (Renato Carpentieri)? 

Le risposte presto arriveranno e potrebbero essere particolarmente amare, ma insieme al tempo che passa il ragazzo sta diventando ormai un cane di razza maggiore: un carnefice che fiuta il sangue delle sue prede, forse già incapace di tornare al mondo reale. Ma una donna del passato e una del “presente” riusciranno forse a cambiare il corso degli eventi. 


Dal dinamico e disperato romanzo omonimo. vincitore del premio Scerbanenco nel 2008, scritto dalla celebre autrice di Dylan Dog Paola Barbato, il regista di Non Odiare ricava le vibrazioni giuste per il secondo capitolo della sua personale e (sempre più) possibile “trilogia dell’odio”, che non a caso suona e risuona come la celebre trilogia di Park Chan-Wook. 

Mani Nude, oltre a celebrare al meglio l’ottimo testo della Barbato,  “omaggia” l’autore di Old Boy (l’Old Boy coreano) con una trama parimenti criptica quanto crudele, ma che in una sinfonia costante, di ossa e vite “rotte a favore di pubblico”, risuona anche della narrativa esistenziale, psicanalitica e conflittuale (dis)umanità  del personale  Fight Club di David Fincher. 

Non accontentandosi di questo, Mancini sa pescare con intelligenza e affetto temi e luoghi di una celebre elegia alla Van Damme come Lionheart- Scommessa Vincente. Sa creare gustosi collegamenti marziali e visivi con l’action alla Besson più “cinico” (termine filosoficamente con casuale), quello di Danny The Dog con Jet Li, per poi fondere sapientemente  il tutto insieme con “altri tre Dog Man”:  quello di Matteo Garrone, quello di Stivaletti (anche se questo si chiamava, più in romanesco, Rabbia Furiosa - Er Canaro) e quello più recente e bellissimo di Besson. 

In fondo sono tutte storie di “Uomini e cani”, non distanti idealmente neanche dalla recente e apprezzabilissima Crime Story dell’omonimo romanzo di Omar Di Monopoli. Uomini trasformati in cani da combattimento un po’ per gioco e un po’ per vendetta, tanto per soldi e forse pure per amore (disilluso) verso un “cinismo” alla Diogene. Materiale favoloso come base per action movie dove la bestialità della lotta a mani nude viene nobilitata dalle arti marziali e dove Mancini ha lavorato molto bene sulle stesse (ottimi i combattimenti): rendendo eloquente e diretto l’adagio latino “homo homini lupus”. 

In estrema sintesi, Mani Nude è un film di botte cinematografiche che funzionano in quanto feroci e sarcastiche, a tratti “politiche”, dure e cattive ma ma mai superficiali. Un film dove le ecchimosi fanno male anche nel profondo, nell’emotività, grazie all’ottima prova di attori capaci come Francesco Gheghi e Alessandro Gassman. 

Gassman lavora tutto in sottrazione: incombe come presenza funerea sulla scena  e quando parla lesina poche e letali battute che lo rendono simile agli anti-eroi di Clint Eastwood. Gheghi ha lo sguardo confuso giusto ma sa adottare una postura da vero guerriero: riesce benissimo a metterci nei panni di un ragazzo dall’animo frammentato e fratturato. Il Biondo e Minuto: due anti-eroi alla corte e nelle arene di qualcosa di molto simile a un dio “crudele e guerriero” come Odino, impersonato da un Renato Carpentieri perfetto, elegante, giustamente teatrale. Terribile quanto “inesorabile” in un mondo che gestisce con malinconica disillusione.

Sono tre attori straordinari che è un vero piacere vedere interagire tra loro, con dinamiche a volte da fratelli, in alcuni casi di padre e figlio, spesso come nemici mortali

Mancini tiene bene il ritmo per tutta la prima parte, quella più dura e carica di contusioni, una “overdose di botte”, per poi trasformare il tutto in un secondo tempo carico di fantasmi del passato e introspezione. Una seconda parte che suona come un altro film, ma che come nel caro vecchio Old Boy diventa “parte integrante”, irrinunciabile della messa in scena.  Il gioco è ardito, forse troppo veloce, ma riesce. Anche perché alla fine esplora in un modo diverso lo stesso tipo di “cattiveria” di cui la pellicola è imbevuta. 

Non è un film adatto a tutti. La violenza visiva è molta, anche se mai davvero gratuita. 

Non è un film consolatorio. 

L’ultimo lavoro di Mancini è una rasoiata sincera che dimostra come realizzare degli ottimi action in Italia è ancora possibile, e forse pure “necessario” per risollevare un po’ un cinema diventato troppo asfittico e autoreferenziale. 

Una bella ventata d’aria fresca, che arriva leggera come un pugno sui denti. 

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