mercoledì 1 ottobre 2025

Le città di pianura: la nostra recensione del tragicomico “western crepuscolare postmoderno e molto etilico” di Francesco Sossai


Ci troviamo nel Veneto quando ancora non era diventato lo “Zaiastan”, dalle parti di inizio duemila, prima della grande crisi.

Ai tempi Cavalieri e megadirettori si spostavano in elicottero, con orgoglio sopra i loro operai e impianti/ruderi “ma ancora validi” dell’era industriale, dispersi per i campi e i sassi come vecchi accampamenti indiani. Un elicottero scende a terra per alzare in modo spettacolare un piccolo tornado di sabbia e per riconoscere il valore vero di un operaio, prossimo alla pensione ma che lavora per loro instancabile dall’inizio, “il primo”, di nome guarda caso Primo. Il premio, un orologio con dedica, oro, abbinato a grandi sorrisi, pacche sulle spalle e forse una rivelazione importante, solo per le sue orecchie, tipo il senso della vita. Ma la rivelazione viene “dispersa” dal rumore di fondo assordante delle pale dell’elicottero che iniziano già a girare. Di sicuro girano già da molto pure le “pale” di Eugenio, detto “il genio” (Andrea Pennacchi). Operaio della stessa ditta leader nella produzione di occhiali, ma a tempo sempre più pieno contrabbandiere a giro internazionale dei medesimi. La crisi si avvicina quanto il suono delle manette e l’Argentina diviene per il Genio la meta tra sogno e realtà da inseguire. Debitamente “viaggiando leggero”, dopo aver lasciato il frutto del contrabbando sepolto in un luogo segreto come un tesoro dei pirati, in attesa che le acque si calmino. 

Gli anni passano e le acque si sono così calmate da essersi svuotate: si parla ora solo di vino, birre e superalcolici. Due amici di sempre, complici/colleghi di lavoro del Genio hanno già bevuto tutto l’inimmaginabile nelle ore d’attesa che li separano dall’arrivo all’aeroporto con il vecchio amico. Per un attimo hanno pure scoperto il senso della vita forse sussurrato a Primo anni prima. Ma il tempo di attesa di un volo dall’Argentina è ancora tantissimo e tantissimi sono pure i bar, bettole, Night club et similia lungo il cammino al terminal, a patto di ricordarsi se l’aeroporto giusto è Treviso o Venezia. Dopo essersi autoinvitati a un paio di feste e addii al nubilato, la coppia, al secolo il baffuto Carlobianchi detto “Charlie” (Sergio Romano) e l’intraprendente Doriano detto “Doriano” (Pierpaolo Capovilla), decidono di imbucarsi pure a una festa di laurea. La ragazza con corona d’alloro in testa è bellissima, ma il ragazzo che più spasima per lei, lo studente di architettura Giulio (Filippo Scotti), è tristissimo, un uomo devastato dalla timidezza, dalla imbranataggine e un po’ dalla sfiga. Quando la serata passerà per lui dalla tragedia allo psicodramma, Doriano e Carlobianchi decideranno di “adottarlo” come un cagnolino raccolto dalla strada sotto l’acqua, per innaffiarlo con loro on the road, nel resto del giro etilico programmato a caso in attesa del “Genio”. Giulio è così devastato a livello esistenziale che accetta al volo qualunque cosa, pure Doriano e Carlobianchi. I tre sperimentano effluvi alcolici in luoghi e posti assurdi ma verissimi per almeno un paio di giorni. Alla ricerca di un “Genio” , di un “Tesoro sepolto”, di un amore che forse è già perduto a vantaggio di spasimanti meno timido. Alla ricerca di un futuro, di se stessi e forse di una spalla a cui appoggiarsi e continuare fiduciosamente, insieme e insonni, a camminare lungo una lunga notte. Tra vecchie osterie, castelli che forse diventano autostrade, monumenti funebri post-moderni meta turistica di giapponesi e lungo così tante strade e bar desolati e desolanti che pare di stare nel Texas. O altri luoghi che forse non esistono se non nell‘immaginazione. Come Rovigo. 

Esiste sempre più, grazie al coraggio di alcuni amabili pazzi contemporanei, un cinema che va a esplorare il nord est dell’Italia per quello che è sempre stato anche se poco ci è stato raccontato: è il nostro personale Far West, pieno di miti e leggende ancora troppo poco raccontate. Si è innamorato pochi anni fa dei suoi spazi sterminati, rigogliosi di verde ma quasi sinistri, il regista e cantante Zampaglione, raccontandoli come “casa nel bosco” di un Freddie Kruger tutto nostrano nell’ottimo e mai abbastanza celebrato Shadow, nel 2009. È da sempre cantore degli infiniti silenzi delle sue città “abbandonate e abbandonabili” arrancate sui monti, da frontiera quasi metafisica, l’ottimo Lorenzo Bianchini, che nel 2013 firma il suo capolavoro, Oltre il Guado. Autori come Silvio Soldini (con La lingua del Santo, del 2000), Matteo Oleotto (Zoran, il mio nipote scemo, nel 2013, la serie tv Volevo fare la rockstar) come Emilia Mazzacurati (Billy, del 2023) hanno cercato di incanalare l’animo vivace, sognatore, romantico e sarcastico proprio del nord Est e su questo stesso solco va a collocarsi oggi Francesco Sossai per la sua irresistibile commedia on the road ad altissimo tasso etilico. Un film, che Sossai scrive insieme a Adriano Candiago, che è più Paura e deliro a Las Vegas di Terry Gilliam che Via da Las Vegas di Mike Figgis. Un film generoso e ondivago che insegue un’infinita “ora dello spritz” come momento massimo, quasi sciamanico, per mettere a nudo i sentimenti umani migliori, come l’amicizia e la comprensione, senza tutti i legacci delle inibizioni. Non però uno stordimento da super alcolico costante, cosa che forse ci porta in territori più bonari e meno autodistruttivi del film di Gilliam, quanto una “giustificazione liquida bassa gradazione”, per prolungare la voglia di stare insieme a tirare tardi, allontanando la testa e il cuore dai drammi di tutti i giorni quanto più si riesce. Sossai dietro il giallo paglierino delle pinte i drammi non li nasconde per niente, anzi dà voce con la sua macchina da presa a scenari fatiscenti, ristoranti con la serranda abbassata, sui personaggi tutti i segni di una vita che tira avanti con pochi lussi e tanti sacrifici. Scenari e vite che parlano da soli di un tempo di crisi ormai diventato troppo lungo, in cui persino i campi e gli stabilimenti chiusi in breve sono diventati non lontanissimi dall’Australia di Mad Max. Scenari sui quali i nostri protagonisti, tutti perdenti, un po’ codardi e un po’ truffatori, ma molto romantici, non hanno la forza di camminare dritto. Preferendo “barcollare” tra sogni, alcol e realtà, ma sostenendosi a vicenda, amici e complici, senza perdere quello stato mentale collettivo, quasi fanciullesco, che forse rende meno gravoso il loro incedere. 


Anche se la meta è fosca e il tragitto pieno di deviazioni, è quindi un “naufragare dolce” perdersi con Doriano, Carlobianchi e Giulio nel loro on the road a zonzo tra Venezia e la realtà, senza capo né coda pieno di strade aride ma pure di meravigliosi bar con musica dal vivo, sempre perfettamente azzeccata alla descrizione di stato d’animo generale e disgrazie varie. 

Grazie a un’ottima scrittura e ottimi interpreti, il viaggio si fa presto anche per il pubblico, chilometro dopo chilometro, birra dopo birra, l’immagine cristallina del solo, primordiale bisogno di “state insieme”. Uno “stare insieme” che riesce a filare bene nello stomaco dello spettatore come un buon digestivo: appagante, dolce ma anche debitamente amarognolo. Al netto di qualche “flashback narrativo” che forse non convince in pieno, la storia dei nostri eroi sa sempre trascinarci nel loro mondo in modo cristallino, generoso e stralunato.

Un piccolo grande film. 

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lunedì 22 settembre 2025

Demon Slayer: il Castello dell’Infinito - la nostra recensione del primo dei tre film che chiude la saga animata realizzata da Ufotable, tratta dal manga di Koyoharu Gotoge

Premessa 

Demon Slayer: il Castello dell’Infinito è il primo di tre film cinematografici con cui lo studio Ufotable ha scelto di raccontare in forma animata l’ultimo arco narrativo del manga scritto da Koyoharu Gotoge. Gli eventi narrati in questo primo capitolo seguono direttamente quanto raccontato nella quarta stagione dell’anime, andata in onda la prima volta su Fuji Tv nel 2024 dall’inizio di maggio alla fine di giugno. 

Il secondo film, salvo cambi di calendario è previsto in uscita nel 2027, il terzo nel 2029. 

Tutto l’anime è reperibile in italiano sul canale streaming di Crunchyroll, con la relativa versione Home Video già disponibile negli store curata da Dynit. Il manga, uscito originariamente in 23 volumi dal 2016 al 2020, è stato integralmente portato in Italia da Panini, sotto l’etichetta Planet Manga.


Sinossi

Sembra ieri che Tanjiro, ritornando a casa in una giornata assolata, trovava tutta la sua famiglia trucidata da un demone dopo una notte di mattanza. Sua sorella Nazuko era miracolosamente sopravvissuta, ma il mostro l’aveva morsa, dando inizio alla sua fase di mutazione in demone. Il cacciatore di demoni che era sulle tracce di quella sanguinaria creatura, il “Pilastro dell’acqua” Giyu Tomioka, era arrivato troppo tardi, ma aveva comunque il dovere di eliminare il nuovo demone che stava nascendo. Tanjiro, solo su una distesa di neve coperta di sangue con Nazuko in grembo, commosse il guerriero. Se esisteva, Tanjiro avrebbe cercato una cura. Ad ogni modo, sarebbe diventato anche lui un cacciatore di demoni: avrebbe provveduto personalmente a ucciderla al termine della metamorfosi. 

È così che cominciò il viaggio di Tanjiro e Nazuko attraverso un Giappone sospeso tra incubo e realtà. I due avrebbero presto condiviso la strada con l’insicuro ma coraggioso Zenitsu e con il “ruvido” Insuke. Nazuko, diventata ormai una creatura notturna, avrebbe cercato di dominare i suoi nuovi poteri da demone senza perdere la sua anima, aiutata anche dalla scienza medica dell’epoca. I tre ragazzi si sarebbero uniti agli spadaccini Hashira, i più potenti cacciatori di demoni, diventando  ogni giorno più forti come spadaccini ed esorcista. Tra molte difficoltà e amare vittorie, sono tutti in breve tempo diventati adulti. 

Ormai è giunto il tempo del grande scontro finale tra i Demon Slayer e i demoni capitanati dal pericoloso Muzan Kibutsuji. Una autentica guerra destinata a compiersi nell’arco di una sola notte, che vedrà tutti in prima linea, maestri e reclute, contro migliaia di demoni e i loro potenti comandanti, le dodici Lune Demoniache. Una guerra che sarà combattuta in pieno territorio nemico, in un luogo in cui le regole del mondo fisico non hanno alcun valore: il Castello dell'Infinito. Una struttura sorretta da una magia ancestrale potentissima, in grado di espandersi o moltiplicarsi per interi chilometri, mutando continuamente i suoi spazi interni creando in un istante vicoli ciechi, trappole e baratri. 

Sarà uno scontro disperato, anche se i cacciatori di demoni hanno più di un asso nella manica per riuscire nell’impresa.

Dovranno però tenere i nervi saldi: non cadere nella pazzia e mettere tutta l’anima in ogni scontro. Dovranno accettare la possibilità di cadere in battaglia, pur di favorire la corsa dei loro compagni verso il terribile Muzan. 

Riusciranno gli Hashira e i membri della Demon Slayer Corp a sopravvivere? 



Breve storia di Ufotable 

Fondato nel 2000 nel quartiere Suginami di Tokyo, da ex animatori di TMS Entertainment guidati dal produttore Hikaru Kondo, lo studio Ufotable si dice abbia preso il nome dalla forma, definita “simile a un ufo”, dello stranissimo tavolo che Kondo si fece realizzare, proprio per il suo nuovo ufficio, da un celebre artista scandinavo. Con questo “simbolo” a guidarli, lo Studio non poteva che imporsi come qualcosa di strano, rivoluzionario e originale fin dal suo esordio. Una eccezione assoluta o, se vogliamo, proprio uno strano “oggetto volante non identificato” nel panorama dell’animazione Giapponese moderna. Commissionando quel tavolo, Kondo  non sognava solo di viaggiare verso “lo spazio profondo”. Dalla circolarità dell’oggetto voleva sollecitare nell‘osservatore anche “afflati Arturiani” che lo avrebbero reso idealmente vicino alla celebre Tavola Rotonda. Ufotable non avrebbe avuto una struttura lavorativa tradizionale: “verticale”, settoriale e granitica, con un solo capo al comando. Sarebbe stato prima di tutto un luogo di studio interdisciplinare “tra pari”, un posto in grado di favorire l’ascolto e confronto di animatori di età ed esperienze diverse. Una fucina di idee e progetti a cui tutti avrebbero dato vita  lavorando insieme, sostenendosi come un’unica squadra che a fine partita vanno a festeggiare insieme. Un po’ come in una bottega artigiana, ogni ufficio era studiato per permettere a quattro animatori di lavorare a stretto contatto, su un unico grande tavolo centrale, veterani a fianco di nuove leve. Un po’ come in un albergo, alle spalle di ogni animatore c’era il classico “spazio di riposo nipponico”: un tatami (lettino), per “stimolare a produrre” anche durante le ore notturne, senza rincasare, in caso di “scadenze imminenti” secondo il classico stile di dedizione al lavoro giapponese. Dal 2006 gli animatori in Ufotable hanno ottenuto anche un innovativo “spazio sindacale”, cosa per nulla comune nel campo dell’animazione nipponica. Potevano concretamente entrare nei comitati di produzione degli anime, per diventare parte attiva del processo e gestione di tempi e qualità del lavoro. 

Dal 2010 lo Studio si era reso del tutto indipendente, arrivando a curare nella sua sede tutti gli aspetti del prodotto finale, dal disegno a mano alla animazione digitale, dal montaggio alla colonna sonora, dal doppiaggio alla promozione. Per questo si era dotato di un nuovo “spazio”: un vero e proprio studio di incisione, in grado di scovare tra le nuove voci dei talenti come il gruppo “Kalafina”. Non poteva mancare giusto il settore della ristorazione e infatti al primo piano dello Studio di Suginami,  dal 2006 era già stato allestito un bar/ristorante, specializzato nel servire inizialmente piatti ispirati alle serie animate di Ufotable. All’inizio era una mensa per dipendenti ma presto si è aperto al pubblico come ristorante a tutti gli effetti, diventando in breve una meta turistica obbligatoria per le legioni di fan degli anime che si recavano e si recano tuttora in pellegrinaggio a Tokyo. Ad oggi esistono vari “Ufotable Cafe’ “ e pure un ristorante di lusso,  “Ufotable Dining”,con code anche di sei ore di attesa in caso di mancata prenotazione. Ma non dimentichiamo che il “piatto forte” di Ufotable, il motivo principale per cui è così tanto amato da pubblico e critica, specie in un periodo di forti “delocalizzazioni all’estero” e  “crisi interne” del settore anime giapponese, rimane pur sempre la cura che Ufotable ripone nella sua produzione animata.  


Agli esordi, lo Studio si è occupato tra le varie cose della parte animata legata alla produzione dei videogame delle serie Namco Tales of e God Eater: giochi di ruolo amatissimi in Giappone, che oggi stanno riscontrando uno straordinario successo anche a livello internazionale grazie alle animazioni dello Studio. Al contempo, Ufotable è stato scelto (forse non a caso) dal prestigioso Studio Ghibli come studio di sopporto per le animazioni del film di esordio di Goro Miyazaki, I racconti di Terramare, tratto dalla celebre saga fantasy di Ursula Kroeber Le Guin. Dal 2009 al sodalizio con Namco si è aggiunta la collaborazione con Aniplex, per il film tratto dalla serie-cult Puella Magi Madoka Magika, ma soprattutto è nata una duratura collaborazione con un’altra casa di videogame a tema fantasy: la produttrice di Light Novel Type-Moon. Per lei, Ufotable si è occupata della trasposizione della saga di Fate/Stay Night a partire dal 2011, con la serie prequel in 25 episodi Fate/Zero. Il grande successo di Fate/Zero ha portato poi alla messa in cantiere della trasposizione animata del “ciclo completo”, in 26 episodi, di  Fate/ Stay Night: Unilimited Blade Works. Un progetto che ha raccolto immensi consensi di critica e pubblico, a cui è seguito, dal 2017 al 2020, la trasposizione in animazione Fate/Stay Night : Heaven’s Feel. Una serie che la casa ha scelto di sviluppare in tre film cinematografici usciti a cadenza annuale. Inoltre, lo studio ha sopportato Type-Moon anche nella parte animata del gioco Fate/Grand Order, come da anni ha fatto con Namco. 

Proprio nelle produzioni legate a Fate, Ufotable inizia a esprimere davvero al massimo tutto il suo straordinario potenziale artistico e tecnico, distinguendosi anche per un modo di lavorare davvero “fuori dagli schemi”. Ci sono episodi che in barba alle convenzioni delle serie tv sono della durata di quaranta minuti o di un’ora, diventando a tutti gli effetti dei “mini film”: una scelta  per non spezzettare la forza evocativa del racconto originale. Nei film di Heaven’s Feel invece spesso vengono saltati a pie pari i passaggi narrativi di eventi già raccontati in Unlimited Blade Works: una scelta molto apprezzata dal pubblico dei fans, anche se percepita da altri come qualcosa di “criptico”. Ufotable non voleva “lucrare” in termini di minutaggio su qualcosa che aveva già prodotto in passato ed era ben reperibile.

Sul piano tecnico e artistico la “formula produttiva di Ufotable” ha permesso nelle sue opere un approccio così ricco di dettagli e sfumature da sfiorare quasi il certosino. Come se ogni componente del gruppo di animazione facesse a gara a mettere in risalto la sua professionalità. Sulla scena viene curato ogni singolo aspetto naturalistico e climatico del paesaggio. Viene riprodotto mattonella per mattonella ogni edificio. Viene considerata  la rifrazione del sole. Se il character design originale ha delle semplificazioni nel tratto, questo viene arricchito pur con tratti leggeri, quasi invisibili: per permettere di dare risalto a ogni piccola sfumatura emotiva dei personaggi. Una cura “ugualmente folle” viene riservata alla messa in scena dei combattimenti. Che siano con spade, fucili, pugni o raggi di energia, i combattimenti appariranno sempre chiarissimi, di facile lettura sul piano del montaggio e dell’impatto nonostante torme di lampi, detriti, vortici. Lo “stile di “ripresa dell’azione” sarà sempre dinamico anche quando corpi e colpi andranno a fondersi tra animazione classica a mano e tridimensionale. 

Tuttavia non di sole “botte da orbi” vivono gli anime, e quindi lo Studio sa anche costruire un regia accurata per un contesto drammatico: il ritmo dell’azione sa passare con un'ottima coordinazione dall’indiavolato al calmo, arrivando quasi allo spirituale. Non è raro che scene di stampo drammatico rubino a volte la scena a quelle più spiccatamente “cinetiche”. 

Pur se il prodotto finale è destinato alla visione domestica, si respira quindi in ogni istante una attenzione e cura non inferiore a quanto offre una grande produzione di stampo cinematografico. 

Nel 2019 sono iniziati per Ufotable e il suo fondatore dei guai finanziari protrattisi per qualcun anno e con qualche sentenza pesante…ma rimaniamo qui sul “piano artistico”.

Dal 2019 Ufotable si è occupata, in coproduzione con Aniplex, con tutta la cura e passione di cui è capace, quasi esclusivamente della trasposizione animata della saga di Demon Slayer. Di fatto “facendo sua” la già discreta opera di Gotoge, fino a renderla uno dei massimi punti di riferimento dell’animazione contemporanea. Contribuendo di riflesso, fin dall’inizio della serializzazione televisiva, a portare anche la piccola serie manga di Gotoge a inaspettate vette delle vendite, con felici ricadute anche a livello internazionale sul cartaceo. Ma questo forse non sarebbe stato possibile, se la piccola serie di Koyoharu Gotoge non avesse avuto al suo interno qualcosa di profondo e speciale.



Ufotable incontra Koyoharu Gotoge 

La giovane fumettista della prefettura di Fukuoka Koyoharu Gotoge, che nei suoi fumetti ama ritrarsi come un buffo coccodrillo con gli occhiali, a soli 24 anni partecipava con una storia breve alla 70esima edizione di un celebre concorso per esordienti della rivista Jump. Il racconto, intitolato Kagarigari, vinse il primo premio. Quella storia, dai tratti “delicati ma sanguigni” e dallo sviluppo semplice ma accattivante, nel 2016 divenne la base della sua prima serie lunga, Kimetsu no Yaiba (letteralmente “La spada dell’ammazzademoni”), conosciuta a livello internazionale come Demon Slayer. Si raccontava a tappe il lungo viaggio di due fratelli che, “colpiti da una maledizione”, da un piccolo mondo contadino arroccato sui monti, quasi bucolico, venivano spinti a confrontarsi con una società che, metro dopo metro, appariva sempre più complessa, crudele e forse “corrotta”, da forze misteriose. Una società che per sopravvivere aveva assunto contorni militareschi, trascinando anche i più giovani e indifesi in giochi di potere crudeli: situazioni in cui “il credo della forza” andava sempre a schiacciare ogni forma di umanità. Capitolo dopo capitolo Gotoge sviluppava una storia di formazione, dal sapore action forse convenzionale ma raffinata nei dettagli, dotata di un forte senso del drammatico e del malinconico. Una storia che non aveva paura di addentrarsi in territori squisitamente horror o in veri drammi sociali specchio della arcaica “società a caste” nipponica. Alla formula Gotoge aggiungeva geniali momenti ironico/surreali, che sapevano spiazzare quanto mettere in luce aspetti caratteriali  particolarmente originali dei personaggi. La presenza di una “maledizione” che incombeva sui due fratelli protagonisti, rafforzandone il legame e il senso di responsabilità reciproca per la vita dell’altro, diventava la forte matrice emotiva del racconto, con felici “assonanze” con il capolavoro Full Metal Alchemist di Hiromu Arakawa (che nei fumetti ama ritrarsi come una tenera mucchina con gli occhiali). L’ambientazione ricca di creature del folklore, dai tratti eterei quanto dall’animo animalesco, quasi ingenuamente crudele, ha offerto all’autrice l’occasione di sviluppare in modo piuttosto complesso anche i demoni, facendone figure tragiche affascinanti quanto sfuggenti, irrisolte. 

Tutto questo materiale stimolante è arrivato allo studio Ufotable, che sotto la guida del regista responsabile del progetto Haruo Sotozaki era chiamato a affinare, rileggere e semplificare il tutto per la tv. Uno degli obiettivi dell’adattamento è stato “sfoltire” una narrativa per vignette che appariva a tratti un po’ troppo concitata e “densa”. Un’altra sfida era conferire al tratto molto femminile della Gotoge delle linee più “dure”, ma che sarebbero state maggiormente funzionali ad offrire il giusto afflato cinematografico di una storia di samurai crepuscolari. 

La caratterizzazione grafica dei personaggi, affidata ad Akira Matsushima, aveva per questo come indicazione di dare maggiore enfasi ai tratti scuri dei disegni originali, a partire dall’intensità dei contorni dei volti, seguendo un approccio non dissimile da quello scelto dallo studio Wit, per la trasposizione in animazione de L’attacco dei giganti. Riprodurre con fedeltà gli elaborati kimono e i ricchissimi dettagli grafici di cui era infarcito il manga si sarebbe rivelato un lavoro particolarmente complesso, richiedendo più volte uno studio supplementare della scena per legare al meglio i movimenti con i tessuti. Per enfatizzare poi al meglio l’effetto dei colpi più spettacolari, al dipartimento di grafica tridimensionale capitanato da Kazuki Nishiwaki è stato chiesto di ispirarsi allo stile del movimento artistico Ukio-e: ibridando il disegno a mano delle onde con una colorazione digitale. 

Ad ogni modo, il regista Sotozaki ha dichiarato di essersi sempre fatto guidare nella costruzione delle scene, dalle più comprese e concitate alle più drammatiche, dallo storytelling lineare quanto preciso della Gotoge.

Demon Slayer proprio per questo non si più considerate “solo” come un ottimo anime a base di azione e mostri ricavato da un piccolo fumetto. 


In sala

Il Castello dell’Infinito si apre in modo vertiginoso, lanciando tutti i cacciatori di demoni in picchiata, lungo le pareti in continua mutazione di un Castello Infinito che appare come una struttura dove la gravità si confonde, uscita direttamente da un quadro di Escher. Il castello, spostando le sue stanze come fossero le carte di un mazzo da gioco, all’inizio ambisce letteralmente a “togliere il suolo sotto i loro piedi”, aprendo le pavimentazioni piano dopo piano, creando baratri fino a farli spiaccicare nel terreno alla base. Gli eroi devono cercare di arrampicarsi a qualcosa, per sperare di fermarsi almeno su uno dei livelli inferiori, ma a quel punto verranno assaliti da centinaia di demoni, che li ingaggeranno in veri e propri scontri campali a meno che gli eroi non si trovino nei pressi di uno dei “boss”, ossia le 12 lune. In quel momento inizia un vero e proprio duello, con il Castello che andrà a trasformare l’area in una specie di arena. Allora la narrazione si fa più convenzionale, come nelle puntate classiche della serie: scontri in cui gioca un ruolo importante la tattica più che la forza bruta, approfondimenti sui “motivi etici” alla base di ogni duello per ambo le fazioni, flashback che si allungano a volte come mini/episodi (ricordiamo che il film dura due ore e mezza) con “momenti drammaturgici” davvero riusciti. Tutto come sempre è rappresentato da Ufotable con enorme cura, dal piano narrativo al visivo, dall’ottimo comparto sonoro alla buona recitazione dei doppiatori. Ma il vero spettacolo, quello che ci inchioda dal primo all’ultimo minuto al maxi schermo del cinema, è vedere le tantissime scene in cui il Catello si muove e trasforma di continuo, con suggestioni alle mega-strutture di Inception di Nolan o le città “moltiplicate” in Doctor Strange di Derrickson. Scene a livello tecnico spettacolari e spesso mixate con scene in cui orde di demoni si gettano all’attacco di cacciatori che danno lustro a tutte le loro tecniche di lotta e sopravvivenza, come se fossimo in una variazione estrema del concetto alla base del film The Raid di Gareth Evans. Pura adrenalina. 

Naturalmente il film copre solo una parte della grande notte dello scontro con Muzan e i suoi accolti, ma il senso di appagamento dopo la visione di ogni “capitolo” rimane enorme, anche perché sulla scena compaiono alcuni dei “demoni più amati” dai fan. Dire di più sarebbe un peccato, lo spettacolo va scoperto in sala, ma mi sento di aggiungere che anche uno spettatore occasionale, che non conosce la saga e capita per caso nella sala di proiezione, non potrà che essere conquistato da una messa in scena che rimane sempre accessibile anche ai “non addetti ai lavori”. Magari uscendo dalla visione con la voglia di recuperare le puntate delle quattro serie che precedono gli eventi del film.

Finale 

Demon Slayer: Il Castello dell’ Infinito è uno degli anime action più belli degli ultimi anni, la riprova dell’immenso talento dello Studio Ufotable unita alla raffinatezza e profondità dei personaggi ideati da Gotoge. L’adrenalina scorre a fiumi nella concitata battaglia campale, che viene rappresentata su schermo con un uso incredibile di ogni tipo di tecnica di animazione, ma al contempo non viene mai sacrificata la complessità emotiva dei personaggi, che più volte si ritrovano al centro di momenti narrativi davvero di grande cinema.

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giovedì 11 settembre 2025

Una pallottola spuntata: la nostra recensione del film comico diretto da Akiva Schaffer, prodotto da Seth MacFarlane, che porta sulla scena, con il volto di un divertito Liam Neeson, l’esilarante e politicamente scorrettissimo figlio del leggendario tenente Frank Drebin


Ci troviamo in una Los Angeles dei giorni nostri, assolata e caricaturale come si conviene a una commedia demenziale anni ‘80. 

Una banca del centro è presa d’assalto da un intero esercito di criminali con armi pesanti, con centinaia di ostaggi e un piccolo plotoncino disorganizzato di polizia pronto al poco convinto all’assedio nell’ingresso. Nessuno ha il coraggio di farsi avanti, a parte una bambina con divisa delle scuole medie, con treccine e lecca lecca, che varca l’ingresso canticchiando e saltellando nello stupore generale. I criminali provano ad avvicinarsi sconcertanti, scoprendo prima con orrore che il lecca lecca è in realtà un’arma acuminata e poi che la bambina, mingherlina e di un metro e venti, è in realtà un astuto travestimento del numero uno della Squadra di Polizia di Los Angeles, il tenente Frank Drebin Jr (Liam Neeson). Un uomo aitante di due metri, con incredibili capacità di lotta, in grado in pochi secondi di stenderli tutti, far esplodere tutto, quanto apparire smagliante, credibile ed eroico ancora vestito da scolaretta: con tanto di una gonna corta che non nasconde gambe pelose e delle enormi e virili mutandone con i cuoricini. 

Ma qualcuno dei malfattori è riuscito comunque a scappare indisturbato sul retro, dove lo attendeva per la fuga un’auto sportiva, portando con sé un oggetto preziosissimo e  misterioso che era stato custodito in una cassetta di sicurezza: il “P.L.O.T.” (letteralmente in italiano “la trama”, potevano adattarlo come T.R.A.M.A.). Frank Drebin jr rientra in centrale e insieme ai colleghi inizia a sorseggiare un numerino sproporzionato di tazzine di caffè, una ogni cinque secondi. Quasi sepolto da una montagna di bicchierini di plastica, Frank ascolta una accorata ramanzina del capo, che lo rimprovera del fatto che a seguito del suo ingresso in banca siano arrivati all’ospedale centinaia di persone ferite in modo più o meno grave, tra cui criminali, passanti, varie ed eventuali. Tutte spese che verranno affrontate dalla collettività e quasi dello stesso importo dei danni procurati dai malfattori. Viene quindi assegnato a un caso apparentemente più tranquillo e lontano dal P.L.O.T., in cui dovrà indagare sulla strana morte di un informatico, annegato in un laghetto mentre era alla guida di un nuovo modello di auto elettrica assegnatagli da poco dalla multinazionale per cui  lavorava, la EdenTech del magnate Richard Cane (Danny Huston). Inciampando da un indizio all’altro, Frank verrà a conoscenza di altri strani accadimenti in cui sono coinvolti dei dipendenti EdenTech, legati tutti guarda caso ad auto elettriche che impazziscono e fanno fuori il rispettivo conducente. Fino a che la Squadra di Polizia non assegnerà anche a lui un'auto elettrica: un dono del sempre più ambiguo magnate Richard Cane, che minuto dopo minuto assumerà sempre più i contorni di qualcuno interessato proprio al P.L.O.T.. Ma Frank non ha tempo per verificare la tenuta di strada (probabilmente rivolta verso un laghetto) della sua nuova auto elettrica guidata da IA: insegue curve ben più pericolose. Le curve mozzafiato della biondissima sorella dell’informatica portano infatti il volto di Pamela Anderson: una donna esplosiva che canta in un Night Club, con una voce sexy ma stranissima, e sembra non vedere l’ora di “infornare il biscotto di Frank”, offrendogli così la colazione della vita. Sarà l’inizio di un grande amore che porterà entrambi lontanissimi dal P.L.O.T., in vacanze lontane, in una baita innevata dove una sera troveranno in soffitta una tavola Oui-Ja, forse evocheranno un demone che, impossessatosi di un pupazzo di neve, vorrà fare con loro giochi sessuali a tre nella vasca idromassaggio. Ma il P.L.O.T. alla fine  forse troverà un modo per imporsi, con tutte le sue forze, nella scombinata successione di eventi di una delle storie più anarchiche e divertenti che la recente filmografia comica abbia mai prodotto.


Ho riso “abbestia”. 

Non mi capitava da anni.  

Ho apprezzato il bravo regista Akiva Schaffer fin da quando confezionava quel piccolo gioiello di comicità demenziale di Hot Rod, passato purtroppo quasi inosservato in Italia. 

Ho riso tanto per Family Guy, American Dad, Ted e le altre strampalate opere del produttore di questo film, Seth MacFarlane, al punto che per “completismo” ho riso pure per il suo stralunato “Accalappiadenti” con The Rock nei panni di una fata dentina. 

Ero pronto a ridere qui pur con una smorfia malinconica, perché sulla scena non può più purtroppo esserci quella maschera comica incredibile che era Leslie Nielsen, nonostante in qualche modo “appaia”, come una sorta di “lunare” controparte/simbolo dell’aquila americana. 

Sognavo da anni un film con al centro “lo spirito” di un film dei fratelli Zucker, e non sto certo certo parlando di Ghost con Whoopi Goldberg e Patric Swayze, ma degli storici Top Secret!, L’aereo più pazzo del mondo. Piccoli mondi filmici in cui tutti i generi narrativi venivano sovvertiti e mischiati, mischiati e amalgamati in nome del più semplice e onesto meccanismo comico. La prima sceneggiatura di Jarry Zucker, che sarebbe diventata nel 1977 un film di John Landis, aveva già il titolo di un manifesto programmatico: Ridere per ridere. In quegli anni, carichi delle opere geniali e citazioniste di Mel Brooks, del talento camaleontico di Peter Sellers, dei primi vagiti della National Lampoons, effettivamente “si poteva farlo”: si poteva creare qualcosa con il solo fine di “ridere di tutto”, mettere alla berlina tutto, dal perbenismo alla pubblicità, dalla politica al gender, dall’istruzione “decadente” al servilismo del mondo del lavoro, dalla psicologia allo sport al sesso. Perché sì, si poteva anche parlare di sesso senza di diecimila tabù odierni, infarcendo di doppi sensi e pure parolacce, senza incombere nel forcone di qualche censore indignato. Si poteva ridere per ridere fino all’eccesso, con meccanismi comici sempre più folli e simili a skatch umoristici, che andavano a sovrapporsi e deflagrare su canovacci “canonici” dal sapore debitamente dimesso e polveroso, portarono in questo impatto alla definizione di “cinema demenziale”. 

Era un naufragare dolce in un mare di pazzia che i benpensanti scambiarono per l’anticamera del nichilismo ed edonismo che si sarebbe poi affermato negli anni ‘80, e Una pallottola spuntata è stato infatti un fierissimo film demenziale targato 1988. 


Ma ogni volta che la comicità demenziale sarebbe tornata alla ribalta, peraltro con enormi (e quindi “preoccupanti”) incassi ai botteghini, come per la saga degli Scary Movie, si è sempre avvertito il pericolo intellettuale di spegnere subito i “fuochi sovversivi”: come se chi “si abituasse troppo” del concetto di “ridere per ridere” potesse poi diventare un pessimo cittadino, magari meno “terrorizzabile dal potere costituito”. Temendo con Nietzsche che con “una risata sarebbero stati sepolti tutti”, i produttori spinsero il cinema verso forme di risata più trattenute. I “piccoli sussulti garbati” da salotto per bene. Le “boutade sarcastiche” da commedia sofisticata francese. I risolini a scatto, forse un po’ nevrotici, da commedia psicanalitica. Le “gonfie di risate gonfie di gioia infantile”, da Cartoon, offerte da buffi, ma in fondo innocui, attori con facce di gomma (che però sotto sotto erano molto più profondi e meno innocui di quanto si aspettassero). 

Ma ecco che nonostante tutto, comprese critiche preventive e finestre di lancio forse infelici, la grande commedia demenziale torna in sala oggi con questo Una pallottola spuntata versione 2025. 

Un film che trova in Liam Neeson un interprete semplicemente eccezionale e versatile nel passare con gusto e disinvoltura da maschera seria a maschera comica. Come Nielsen era passato da ruoli seri in film catastrofici della saga Airport alla loro parodia diretta, con uguale naturalezza e senso del divertimento, Neeson si diverte su set al punto da trovare, tra una risata e l’altra, una bellissima intesa con la sua co-protagonista: una Pamela Anderson recentemente “rinata” dopo la straordinaria e struggente interpretazione nel bellissimo The Last Showgirl di Gia Coppola. Pamela è così raggiante e sorridente che tra lei e Neeson sembra sia nata una piccola ma forse grande love story. In sala si vede bene come duettino; in dialoghi convenzionali che diventano subito brillanti con piccoli giochi di sguardi, scene che dovrebbero essere sexy che in realtà si rivelano buffamente tenere, momenti di puro non-sense che raccontano invece una storia. Loro funzionano e funziona con loro anche tutto l’intreccio che cerca continuamente di “sfuggire” alla storia, funziona un montaggio votato non allo spiegare quanto al confondere con ironia le carte, funzionano i tanti comprimari compresi quelli che sembrano sul set assolutamente per caso come Dave Bautista. Funziona la Detective Story mischiata all’umorismo gioiosamente surreale che da sempre era la cifra della saga di Frank Drebin. E sì, ci sono anche le parolacce: che saranno pur figlie di una “libertà espressiva” triviale, che per qualcuno suonerà solo “un po’ vintage”, ma funzionano. 


Sarebbe letale svelare sulla trama di più di quanto già detto in sinossi, è un film da scoprire da soli o in compagnia, in sala, tra amici magari attempati che vogliono solidalmente ridere “come ai vecchi tempi”, stando attenti magari a non soffocarsi con i popcorn e la coca cola tra una risata e l’altra.  Ma potrebbe piacere anche ai giovani, cresciuti magari con South Park, Rick e Morty e I Griffin e per questo oltremodo desiderosi di scoprire che “c’è anche un film” sboccacciato ed esilarante come quelle serie animate.

È di sicuro un film che fa bene alla muscolatura facciale, sollecitando la mobilità della cavità orale, spingendola in elasticità ad ampliarsi in modi più “completi”, che possiamo ritenere utili anche per accedere a una più corretta pulizia dentale. Ridere fa bene, dovremmo farlo di più. Anche il vostro dentista apprezzerà. 

Che la stella di Leslie Nielsen vi guidi verso la sala o lo streaming più vicino, per riprovare ancora una volta la piccola magia di ridere di gusto, di “ridere per ridere” al cinema come una volta. In attese che torni dallo spazio anche Mel Brooks.  

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lunedì 8 settembre 2025

Locked - In trappola: la nostra recensione del claustrofobico thriller di David Yarovesky, con protagonista assoluto un brillante Bill Skarsgard accompagnato sulla scena dalla “voce” di un cattivissimo Anthony Hopkins

America dei giorni nostri, dalle parti di un quartiere di periferia di una grande metropoli. 

Con occhiaie di tre giorni, una trasandata tintura di capelli giallo punk da rifare, una brutta felpa rosa sporca e un cielo plumbeo che non promette nulla di buono, lo scombinato Eddie (Bill Skarsgard) cerca di elemosinare, da una losca officina, il ritiro post riparazione del furgone “multi-problematico” con cui lavora e sul quale probabilmente vive. Ovviamente mancano i soldi, non si fanno prestiti e tutto ciò di cui dispone Eddie è un sorriso storto e un biglietto della lotteria, che forse potrebbe essere vincente ma “non basta”.

Riavere il furgone serve soprattutto per alzare due spicci e comprare un regalo per il compleanno imminente della figlia, che ormai vive da tempo con la sua ex, non vede più da giorni e forse non vedrà del tutto in ragione di prossimi trasferimenti. 

È l’ultima occasione per almeno sembrare di essere stato un buon padre e per Eddie c’è solo una strada da percorrere, quella “cattiva”: alleggerire qualcuno di un’auto.

Lavoro poco nobile di cui Eddie un tempo era forse esperto, ma che oggi è complicato: troppi allarmi, troppe telecamere, strade troppo affollate. Ma dal nulla, in un brutto parcheggio periferico compare lei: un SUV “Dolus” nero metallizzato: Full Optional, rivestimenti in pelle, vetri oscurati. Costerà un occhio e il fesso del proprietario non ha nemmeno guardato che fosse chiusa a chiave. Eddie non entra, ci si tuffa. Di istinto, anche solo per portare via lo stereo e telare al volo.

Ma le porte si chiudono. 

Eddie è in trappola.

Una trappola architettata da un vecchio medico ospedaliero di nome William (Anthony Hopkins), con tanto tempo libero, il complesso del giustiziere e la voglia morbosa di osservare un topo in una gabbia, la “sua gabbia”, grazie alle tante telecamere interne istallate nella “Dolus”.  

William ha lasciato che il caso scegliesse la vittima della sua vendetta contro una “società alla deriva”, non si accontenterà del sorriso storto e del biglietto della lotteria di Eddie per cambiare idea. L’interno dell’auto è blindato quanto l’esterno. 

Ben nascoste, forse delle razioni di sopravvivenza. Un microfono permette ai due di “comunicare”, anche perché per “empatizzare” servirebbero presupposti migliori e William si diverte di più a sparare nei timpani di Eddie la musica della radio a tutto volume o ad abbassare e alzare la temperatura interna da 40 a -20 gradi, con un climatizzatore effettivamente non “di serie”.

L’idea è vedere quanti giorni resisterà.

Eddie all’inizio scalcia dappertutto, sbraita, sibila minacce. Poi inizia a ferirsi cercando vie di fuga sotto la moquette o il quadro elettrico, arrivando a farsi male sempre più gravemente, in modo compulsivo come un cervo in una tagliola. Qualche volta perde i sensi e quando si sveglia si trova bendato e medicato. Non può uscire, piange. William si diverte, sordo a qualsiasi preghiera, attaccato come un bambino al suo nuovo “gioco”.

Per scappare l’unica alternativa che ha Eddie è forse rovinare quel gioco. Ma come fare?


Conosciamo e stimiamo il resista David Yarovesky da un piccolo film del 2019, prodotto da James Gunn, chiamato Brightburn. Una pellicola che immaginava una variante giovanissima e fuori controllo di Superman, per collocarla in un universo narrativo supereroistico condiviso con il personaggio di “Saetta Purpurea” del Super di Gunn, un film del 2006. Oggi Gunn dirige il Superman canonico DC, ma già in quel caso aveva permesso a Yarovesky di dimostrare un particolare talento nello sfruttare al meglio un budget ristretto, giocando con con scenografie e inquadrature, una buona direzione degli attori e ottime capacità di editing. 

Questa volta il produttore dì Yarovesky è Sam Raimi.

Bill Skarsgard è uno degli attori più interessanti e curiosi degli ultimi anni. Elegante, giovane e “ribelle” in Atomica Bionda e John Wick 4. Appropriato nel ruolo del diabolico Pennywise nel dittico It di Muschietti, non sfigurando davanti a Tim Curry, maestoso come Conte Orlok nel Nosferatu di Eggers. La sua spiccata fisicità non lo fa sfigurare neanche in action splatter folli come Boy Kills World o nell’ultimo Corvo (che lui a parte non è riuscito in effetti benissimo). 

Ci era piaciuto particolarmente però in una parte più “fragile” di quelle menzionate finora: il ruolo di “vittima designata” nel bellissimo horror psicologico Barbarian di Cregger.

Non ha bisogno invece di alcuna presentazione Sir Anthony Hopkins, che qui si diverte a fare al telefono la voce di un matto come il suo caro e mai scordato psicologo/cannibale Hannibal Lecter. Nella versione italiana del film ha la voce del doppiatore di Robin Williams Carlo Valli.

La sceneggiatura, ad opera di Michael Arlen Ross, si basa su un soggetto degli argentini Mariano Cohn e Gaston Duprat, diventato nel 2019 il film 4x4, a sua volta ispirato a un direct to video del 1998 di Peter Liapis, Captured. Possiamo trovare però alcune affinità visive anche con il “più fantascientifico” fumetto di Uzzeo e Ceccotti Monolith, diventato a sua volta una interessante pellicola di Ivan Silvestrini nel 2017, ma Locked ci ha fatto più che altro pensare a un’altra pellicola.


Fare film ambientati in spazi angusti è qualcosa di estremamente difficile quanto stimolante, tanto per gli attori che per i tecnici del montaggio e delle riprese. A volte più lo spazio è piccolo più alta è la sfida, così ci piace mettere in relazione Locked con una pellicola ambientata in un luogo ancora più piccolo di un’auto: la vecchia cabina telefonica a gettoni di quel piccolo gioiello thriller di In linea con l’assassino, di Joel Schumacher. 

In quel caso la “vittima” era un meravigliosamente spaesato, arrogante ma fragile Colin Farrell, mentre il carnefice dall’altro capo del telefono era il luciferino e istrionico Keifer Sutherland. Il “legame” tra i due, la circostanza che non faceva uscire il primo dalla cabina telefonica, era la lucetta rossa del puntatore laser di un fucile, con cui il secondo teneva sotto tiro Il primo, con tanta voglia di parlare al telefono con lui del destino, del futuro, del “più e del meno”.

Il gioco di “sopravvivenza”, del gatto con il topo in trappola, per sua natura narrato teatralmente in modo “statico”, si colorava grazie a brillanti dialoghi e improvvisazioni per la durata, condivisa da questo Locked, di circa 80 minuti. Solo che in Locked è più spazioso di una cabina il tetro SUV della immaginaria “Dolus”. È un casermone lussuoso: un’elaborazione fantasiosa di un SUV Defender che nell’insieme risulta comunque affascinante al punto che magari immaginiamo già idealmente una produzione in serie, magari in successivi capitoli di quello che potrebbe benissimo diventare una serie. Resistentissimo a ogni tipo di colpo, proiettile, scontro. Perfettamente insonorizzato, top privacy con i vetri oscurati, il meglio della tecnologia domotica e comandi a distanza applicati. Insieme a Skarsgard e Hopkins il Dolus è a ragione coprotagonista della pellicola. È divertente quando sarcastico, osservare quanto tutto gli optional che in genere servono per rendere il viaggio su un’auto il paradiso, vengano qui usati per allestire un piccolo inferno in terra. Il Dolus diventa arma massima di tortura: in grado di impedire ogni tipo di fuga, arrostire, congelare o elettrificare il “passeggero”, renderlo sordo con musica a tutto volume. Il povero ma bravissimo Bill Skarsgard si dimena in continuazione, in modo credibile, facendoci percepire tutto il dolore che il suo personaggio patisce. Il personaggio di Hopkins lo guarda arrostire/ibernarsi/impazzire come si osserverebbero svogliati delle lasagne che cuociono sui microonde. 

Semplice ma terribile, il film funziona. 


Funziona la chimica che si viene a creare tra gli attori. Funzionano degli effetti visivi molto realistici, la fotografia “plumbea”, quasi “sepolcrale” di Michael Dellatorre, la musica ossessiva di Tim Williams.

Ci sentiamo anche noi come pubblico, piano piano, trasportarti in un ambiente in cui si fa fatica a respirare e ragionare. Almeno finché la pellicola decide di “cambiare regole”, diventando di fatto qualcosa di diverso, forse di “meno estremo”. È una svolta che è perfettamente funzionale alla trama e presenta anche dei passaggi  tragici e visivi interessanti, anche splatter, ma che in qualche modo fa perdere di potenza alla narrativa. È al contempo qualcosa che forse può davvero aprire il film a nuovi sviluppi, che dei sequel appropriati saprebbero magari cogliere e valorizzare. Tuttavia è una svolta che ci porta in un film diverso, “meno teatrale”, che potrebbe piacervi come risultare magari lontani dalle aspettative maturate. 

Ad ogni modo rimane un film che sa divertire e risulta perfetto come horror da gustare al cinema con tanti popcorn.

Locked al netto di un cambio di prospettiva che forse ci ha spiazzato ci è piaciuto e ci ha convinto.

Nel paragone con In linea con l’assassino perde forse il confronto, ma con onore: come nel film di Schumacher, anche qui sono tante e interessanti le idee, la qualità dei dialoghi è alta, l’intesa tra gli attori è buona. 

Forse, se ben gestito, il punto di inizio di una saga. Chissà. 

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giovedì 4 settembre 2025

The Conjuring: il rito finale - la nostra recensione del nuovo capitolo della saga horror sui demonologi Warren di James Wan, diretto da Michael Chaves


America, anni ‘60. Una notte cupa e piena di fulmini. Il primo caso di due giovanissimi e inesperti Ed e Lorraine Warren li vuole nell’ufficio di un antiquario, trovato misteriosamente impiccato nel magazzino, dopo i molti strani accadimenti avvenuti pochi giorni prima in seguito all’arrivo in negozio di uno strano specchio. Alto più di un metro, nero, molto pesante, sormontato sulla cornice in alto da tre putti dall’aria triste, in basso da decorazioni di tipo floreale. La commessa dell’esercizio, durante la registrazione del primo incontro con i Warran, appare confusa: parla di porte e luci che si accendevano e spegnevano in modo anomalo, oggetti trovati in luoghi diversi, voci sinstre, un forte senso di oppressione che ha caratterizzato senza sosta i giorni antecedenti, dando la sensazione di un pericolo imminente. Mancano troppi dettagli per procedere, ma una Lorraine agli ultimi giorni di gravidanza decide istintivamente di affrontare da sola l’oggetto maledetto: al buio, nel suo territorio, senza troppi preamboli. Quasi sfidandolo, con un senso di “urgenza”: avvertendo vicino a lei nel magazzino la presenza addolorata dell’antiquario, ancora dondolante alla trave su cui era stato rinvenuto appeso. Lo specchio però è troppo potente. La attacca appena lei si avvicina troppo alla sua superficie riflettente, nel modo più subdolo e spietato. La colpisce con strane visioni, accelerando le contrazioni del suo parto. Ed è costretto a portarla via e correre sotto la tempesta in auto nel primo ospedale possibile. In sala parto è chiaro che l’influenza dello specchio non è ancora finita: una creatura di color cenere si palesa a Lorraine in travaglio tra le ombre del soffitto o dietro medici e infermieri, con i suoi occhi grigi penetranti, allungano le sue mani oscure fino al ventre della partoriente. Urla e lampi. Salta la corrente e non parte il generatore di emergenza. Cade di colpo un surreale silenzio. La piccola viene estratta senza vita, con il cordone ombelicale stretto con forza sul collo, “impiccata”, proprio come l’antiquario. Judy nasce morta, ma dopo un intero minuto di preghiere torna alla vita. Una vita in cui fin da piccola dimostra di avere lo stesso “potere” della madre: la capacità innata di vedere spiriti e demoni. Lorraine non ha mai voluto che sua figlia vivesse le sue quotidiane ed estenuanti lotte contro gli spiriti, come non ha mai preteso che la piccola partecipasse o credesse alle loro indagini paranormali. Per aiutarla, le ha insegnato una buffa filastrocca per allontanare le visioni, l’ha sempre incoraggiata a non dare ascolto alle voci moleste e imploranti dei morti, fino a darle la consapevolezza di poterli ignorare del tutto: con la sola volontà togliergli ogni potere, relegarli a nulla di più che uno sporadico attacco d’ansia.

Ma ora, nel pieno degli anni ’80, Judy (Mia Tomlinson) è diventata una ragazza adulta, forse a livello di una medium potente come lo era nel 1966 Lorraine. Con voci dall’aldilà che ormai la affliggono quotidianamente, anche se non riesce a confessarlo alla madre per paura di spaventarla. Vive insieme al timido Tony (Ben Hardy), che per uno strano scherzo del destino è un ex poliziotto proprio come lo era suo padre. Lui ha saputo da subito capire e aiutarla nella sua strana condizione, è innamorato dal primo momento che l’ha vista e oggi è impacciatissimo all’idea di essere presentato a tutta la famiglia, per la ricorrenza del compleanno di Ed.


Judy ha ormai la stessa età di quando la madre ha incontrato lo specchio nero per la prima volta. L’artefatto, intanto, di rigattiere in rigattiere e di tragedia in tragedia, è finito in Pennsylvania, nella casetta di periferia di una grossa zona industriale in cui vivono, piuttosto stretti, gli 8 membri della famiglia Smurl. È stato comprato a prezzo bassissimo con l’idea futura di restaurarlo, ma intanto è stato subito impacchettato e offerto come regalo di cresima per la figlia maggiore. Un regalo sgradito e inquietante, al punto che nottetempo le ragazze hanno provato a disfarsene affidandolo come “ingombrante” agli uomini della nettezza urbana. Ma proprio mentre lo specchio è finito tra le fauci del tritarifiuti, la ragazzina ha iniziato inspiegabilmente a vomitare sangue misto a pezzi di vetro, finendo in ospedale. Sono seguiti per tutta la famiglia giorni inquietanti e carichi di rumori, voci, apparizioni spettrali: fenomeni così terrificanti e numerosi che presto sono arrivati alla stampa, trasformando la piccola abitazione degli Smurl come la casa più infestata d’America. Una situazione che non è sfuggita a Padre Gordon (Steve Coulter), lo storico amico e collaboratore dei coniugi Warren, che proprio durante la festa di compleanno di Ed, tra un torneo di ping pong e la grigliata del gruppo di investigazione soprannaturale prova a proporre un intervento alla coppia. Ma ormai Ed (Patrick Wilson) e Lorraine (Vera Farmiga) si sentono troppo vecchi e malandati per affrontare un nuovo caso. Anche se lo nega, Ed ha grossi problemi al cuore da anni, dopo l’ultimo tragico “scontro” con il soprannaturale. I due si sono ritirati da anni dall’attività di indagine e dagli ultimi convegni appare evidente che l’interesse e la credibilità del loro lavoro non vengono più presi in grande considerazione. Ormai si sentono come vecchi comici del Saturnday Night Live, con giusto ogni tanto qualche avventore ancora interessato a fare un giro nel loro “museo degli oggetti maledetti”, magari per dare una sbirciata alla terribile bambola maledetta Annabelle. Hanno ormai appeso bibbia e crocefisso al chiodo. Per Judy però è diverso. L’urgenza di aiutare il prossimo, che potrebbe in parte aiutarla a stare meglio, la fa subito interessare alla storia degli Smurl. Senza dire una parola a nessuno parte così verso la Pennsylvania per incontrare la famiglia.

Questo darà il via a una battaglia terribile con le forze dell’aldilà.

 


La zona di confine tra la tragedia famigliare e il paranormale

Una delle scene più inquietanti di La Loorona - Le Lacrime di Sangue, del 2019, il primo lungometraggio di Chaves, reso “in corsa” dalla produzione targata Atomic Monster di James Wan uno “spin - off” del Conjuring Universe dopo l’apprezzamento del corto The Maiden del 2016 (si trova anche in rete), si svolge giusto nei primi minuti della pellicola. Un’assistente sociale trova dei bambini rinchiusi a chiave in uno sgabuzzino, da una madre problematica “già nota ai servizi”. I bambini piangono, sono disidratati, è buio. La madre sostiene di averli rinchiusi lì dentro per non farli prendere da un fantasma. Già dal prologo, così come nel corso della visione, ci viene mostrato con dovizia di effetti visivi e una buona direzione artistica “chi è il mostro”: una creatura che agisce come un animale, seguendo un preciso schema predatorio ricorrente. Ha la sua “zona di caccia”, vittime designate, limitazioni nei movimenti dettate da precisi vincoli ambientali. Esistono per affrontarla precisi “oggetti mistici” e “rituali codificati”, in grado di contenerla o scacciarla, che se vogliamo ci portano all’interno di uno scenario quasi fantasy: rendono il mostro simile alla creatura magica di un gioco di ruolo, trasformano ogni azione in una stimolante partita tra “chierici e demoni”. Chaves dimostra di conoscere bene la “grammatica” di questi “scontri soprannaturali”: inquadra con particolare enfasi gli oggetti mistici, tiene conto nelle inquadrature di tutte le regole e i confini in cui possono muoversi le creature, ha un convincente senso estetico, a tratti gioiosamente patinato, che sa rendere la messa in scena accattivante anche al di là di alcuni presupposti narrativi già visti. Tuttavia, il colpo da vero maestro è la scena dell’assistente sociale e dei bambini chiusi a chiave dalla madre. Una scena che inconsciamente continua a rimbalzarci nella mente, in modo sottile, come se in quel contesto la “giustificazione paranormale” non ci bastasse ad “accettare i fatti” e al contempo forse evidenzi una fragilità umana inedita, dai contorni terribili. Come non ci bastava un tale tipo di giustificazione nel precedente film della saga, del 2021, The Conjuring – Per ordine del diavolo, diretto ancora una volta da Michael Chaves. Anche perché in questo caso la vicenda era “tratta da una storia vera” e aveva avuto pure dei risvolti processuali concreti. A monte, una reale tragedia familiare ben narrata in tutta la sua ambiguità. Anche grazie alla interessante sceneggiatura di David Leslie Johnson-McGoldrick: autore della saga sui Warren dal secondo fino a questo capitolo, ma anche ai tempi del suo esordio professionale, del 2009, autore di un’ottima pellicola “tra realtà e orrore” come il thriller di Jaume Collet-Serra Orphan.

Come già evidenziato negli altri capitoli della saga sui Warren scritti da Johnson-McGoldrick, nella scrittura si avvertono magari delle “piccole indecisioni”, relative principalmente alle scene di esorcismo, che nell’economia generale rendono questi momenti a parere dello scrivente meno incisivi del resto della storia. Sono tuttavia momenti che vengono ben compensati nel resto della narrazione da scene ben gestite dal forte impatto visivo e soprattutto da dialoghi in grado di affrontare con molta cura la complessità della psicologia umana.

Chaves ad ogni modo sa sempre portarci su una bellissima “giostra”. Nello specifico qui protagonista assoluta de L’ultimo rito è una bella casa degli orrori piena di figuranti terrificanti e specchi deformanti, pareti che crollano di colpo e pavimenti che si sgretolano. Dotata di tutti i migliori trucchi visivi e sonori per spaventarci e scenario pieno di spunti per scena d’azione ancora una volta avvolgenti, gioiosamente ludiche e divertenti. Ma al contempo la pellicola sa offrire il dubbio, se non il “disincanto” delle ragioni profonde che muovono gli eroi stessi sulla scena. Ed e Lorraine diventano così un po’ anti-eroi pittoreschi e decadenti, da western crepuscolare, vistosi e forse innocui “intrattenitori” come Il cavaliere elettrico di Sydney Pollack con il volto di Robert Redford. Anti-eroi umanissimi, come lo sono sempre stati del resto in tutta la saga i personaggi dei bravi Wilson e Farmiga; ma in più piene di dubbi, su sé stessi e sui loro stessi casi passati. Persone che riflettono, ragionando sulla loro vita, sul fatto di aver aiutato tante persone per lo più solo parlandoci al telefono: ascoltando, tranquillizzando, magari dirottando verso uno psicologo. Anti-eroi che nel pieno dell’edonismo e vuoto spirituale degli anni ’80, lo scenario di questa vicenda, per le nuove generazioni diventano sadicamente, per i super-sadici Chaves e Johnson-McGoldrick, meno credibili dei Ghostbusters.


Se Willson e la Farmiga ormai indossano con assoluta naturalezza i panni di Ed e Lorraine Warren, conferendo sempre molta credibilità e “cuore” ai personaggi, appaiono ugualmente convincenti anche Mia Tomlinson e Ben Hardy (visto nei panni di Roger Taylor in Bohemian Rhapsody). I nuovi personaggi si integrano bene all’interno di una trama che diventa generazionale, portando con loro nuovi dubbi e speranze, in certi frangenti riuscendo anche a toccare straordinarie note di leggerezza e ironia. La “continuity” funziona, alimentando un divertente gioco di specchi nel film sui Warren che più di tutti parla di “specchi”, opposti e contrari, luci e ombre interiori.

La colonna sonora ad opera di Benjamin Wallfisch (It, Blade Runner 2049, L’uomo invisibile) funziona molto bene nel sottolineare l’arrivo sulla scena di ogni “spavento”, valorizzando in pieno il montaggio serrato, quasi a “ghigliottina” di Elliot Greenberg (Chronicle) e Gregory Plotkin (Get Out – Scappa). Le scenografie di John Frankish (Gosford Park), solide e piene di piccoli dettagli grotteschi, unite all’ottimo lavoro svolto dal reparto effettistico, del trucco e dai chiaroscuri della fotografia di Eli Born, conferiscono all'abitazione degli Smurl un fascino tutto particolare che la rendono diversa e unica rispetto alle precedenti “case infestate” protagoniste della saga. Menzione d’onore proprio per lo “specchio maledetto”: a tutti gli effetti un “villain da favola”, misterioso e “immortale”, sinistro e solo all’apparenza “immobile”.

 

Finale

The Conjuring: L’ultimo rito è una pellicola che ci ha convinto, grazie alla interessante e ricca messa in scena, al talento di attori convincenti e a un bel numero di scene terrorizzanti che ci hanno accompagnato dall’inizio alla fine, facendoci vivere in prima persona l’atmosfera di una casa stregata. Il nuovo capitolo della saga horror di James Wan attraverso l’occhio del regista Chaves si fa poi a tratti quasi western crepuscolare, malinconico e struggente, a tratti leggerissimo, a tratti drammatico: andando a raccontarci in modo credibile e non scontato la complessità della parabola umana dei protagonisti.

La trama presenta alcune piccole sbavature che risultano però ben compensate da scene dal grande impatto visivo e una sceneggiatura ben congegnata, che pur cavalcando un genere molto noto riesce a esprimersi anche con spunti originali e inaspettati momenti introspettivi. Davvero ben riuscito il “villain”.

Se avete amato la saga creata da James Wan, un film semplicemente imperdibile.

Sarà davvero l’ultima avventura cinematografica per i coniugi Warren?

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martedì 26 agosto 2025

Dangerous Animals: la nostra recensione del divertente horror estivo a base di squali e pazzi di Midnight Factory, con per matto mattatore un sorprendente Jay Courtney. Regia del grande Sean “Devil’s Candy” Byrne, nuovo talento dell’horror australiano.

Tempo di vacanze in Australia, dalle parti di una delle coste più belle ed amate dai surfisti di tutto il mondo. 

In cerca dei brividi estremi nella più torrida delle stagioni estive, una coppietta molto legata e molto lontana da casa (interpretata da  Lian Greinke e Ella Newton) non si accontenta di guardare coloratissimi pesci tropicali negli acquari di Sea World, ma decide di stare a fissare gli squali “senza vetro”, direttamente a pochi centimetri dalle loro zanne, guardandoli reciprocamente nelle palle degli occhi, in immersione, dentro una gabbia metallica. 

Tutto sicuro o quasi. 

La barca che offre questo servizio è un catafalco rugginoso ma solido. La loro “guida”, Bruce Tucker (Jay Courtney), un torvo omone pieno di muscoli, dal discutibile umorismo, ma dagli occhi gentili.

L’argano è mezzo rotto, ma la gabbia è spessa e soprattutto è una bellissima giornata di sole.

Al largo il motore si ferma, al centro del nulla, calma e silenzio assoluto. 

Bruce da secchiacci enormi e logori getta in acqua delle frattaglie di pesce miste a budella e tanta, tantissima emoglobina, per attirare i predatori.

Il mare inizia a tingersi di sangue e la coppietta di colpo ripensa ai vantaggi di Sea World. La barca un po’ trema e lo fanno pure i suoi ospiti.  Bruce tranquillizza tutti intonando con loro “Baby Shark” e quando i sorrisi tornano sul volto partono le procedure di immersione: tute da sub, imbracature di sicurezza, bombole e macchine fotografiche per souvenir. Inseriti tra le comode sbarre di metallo e calati lentamente dall’argano. 

Sotto il tetro velo di acqua cremesi, tutto però è bellissimo. Un piccolo branco di squali si avvicina calmo e armonioso: si muove con la grazia in un balletto classico, hanno occhioni da Pokémon, quasi allungano una pinna in segno di amicizia. 

La coppietta a fine tour è davvero al settimo cielo. Al ragazzo viene spontaneo abbracciare con gioia e gratitudine il torvo barcaiolo, come fosse il migliore amico che la vita gli ha messo davanti. 

Bruce sorride, ricambia.

Poi accoltella. 

Il ragazzo cade, mezzo morto e mezzo incredulo è a terra, come alcuni dei pesci, pezzi e frattaglie usati per richiamare gli squali che ancora sono sul ponte. La ragazza urlante spezza il meraviglioso silenzio di quell’angolo di mondo e grida ancora mentre è trascinata sotto coperta come un quarto di bue, in una specie di prigione segreta, dove viene legata a un letto metallico. 

Non ha invece mai amato prigioni e legami di qualsiasi tipo una surfista bionda che si fa chiamare Zephyr (Hassie Harrison). Libera come il vento e tutte le ventenni, forse da troppo tempo, batte la costa da sola, con il suo furgone pieno di tavole da surf e musica rock, in cerca di onde e forse nient’altro. 

Forse nascondendo qualcosa di inconfessabile. 

Ogni tanto le si avvicina tra i flutti qualcuno come l’imbranato surfista per caso Moses (Josh Heuston): un tipo buffo e gentile, ma pressante, che fa troppe domande personali che la fanno inevitabilmente scappare. All’ennesima fuga da un Moses poco romantico ma “particolarmente pressante”, che inizia a cercarla  quasi come un serial killer confrontando targhe di furgoni nei database della motorizzazione e provando a visionare videocamere poste vicino ai parcheggi delle spiagge, Zephyr finisce in un parcheggio decisamente isolato, in piena notte. Un luogo da lupi dove viene inevitabilmente stordita, rapita e poi portata sulla sua barca per turismo proprio da quel vecchio lupo di mare di Bruce. 


Zephyr si sveglia legata a un letto di ferro in una stanza che abbiamo già visto. Al suo fianco, su un altro letto una ragazza in fin di vita che forse riconosciamo. Incisi alle pareti tanti, troppi nomi, di donne che come loro sono state lì: per poi diventare parte dei “veri show” che Bruce ama filmare professionalmente con la sua telecamera: niente roba per turisti, qualcosa forse da rivendere nel dark web. Spettacoli in cui il barcaiolo attacca a un gancio metallico come quarti di bue vittime umane ancora vive, per poi farle calare in acqua lentamente, gocciolanti, “al sangue”, senza gabbie di ferro che possano infastidire la masticazione degli squali. Bocconi così ghiotti che, per assaporarli, qualche squalo è pure disposto a saltare a favore di camera più in alto del solito, come un delfino davanti al pubblico. Chi voleva andare a Sea World? Chi vuole ora cantare insieme Baby Shark? 

Riuscirà Zephyr a sopravvivere, magari facendo affidamento su qualche skill che le ha donato la sua vita solitaria? 

Ma soprattutto, se mai arriverà Moses a salvarla, sarà davvero una condizione migliore che finire sulla barca di Bruce?


Questa estate Midnight Factory, per tornare trionfalmente in sala nel periodo più amato dai fan dell’horror, ha deciso di puntare su un cavallo decisamente vincente: il regista australiano Sean Byrne, autore di quello straordinario Devil’s Candy che da tempo è uno dei più pregiati titoli del loro catalogo. Un film divertente, psichedelico, chiaro e preciso nella costruzione della tensione. In Devil’s Candy soprattutto Byrne si è dimostrato molto bravo nella costruzione della messa in scena e nella direzione degli attori, regalandoci un “villain” davvero speciale, che ha saputo valorizzare al meglio la fisicità ambigua e la recitazione sottile del mai troppo celebrato Pruitt Taylor Vince: un attore caratterista già apprezzatissimo (come nello psico-thriller Identità) che qui per la prima volta riesce a porsi al centro della scena, regalando una performance davvero unica. 

Per Dangerous Animals Byrne sceglie come villain di puntare sul bravo ma poco fortunato Jay Courtney: un attore “grosso” ma dallo “sguardo fanciullesco” ,che nonostante le partecipazioni a serie come Spartacus, Terminator e Die Hard non è mai riuscito a emergere, finendo anche lui per lo più in ruoli da caratterista.

In Dangerous Animals tornano di fatto molti degli elementi della crew che hanno reso così grande e iconico Devil’s Candy: dall’autore della sua straordinaria colonna sonora “dark metal”, Michael Yezerski, al direttore del suo montaggio “sincopato/subliminale” Andy Canny, fino al direttore della sua “psichedelico/mistico” fotografia Simon Chapman.

Questa volta Byrne non si occupa direttamente della sceneggiatura, affidandosi all’esordiente Nick Leopard.

Per “final girl” è stata scelta invece Hassie Harrison, attrice che si è fatta notare nella serie Yellowstone ma anche nel 2015 per quella piccola bomba horror australiano/lovecraftiana di Southbound (che potete trovare anch’essa nel catalogo Midnight Factory).

In sala, Dangerous Animals conferma molte delle buone sensazioni che riponevamo nella pellicola. 

Un horror fresco, semplice nella costruzione ma in grado di essere diretto e incisivo,  pieno di colpi di scena quanto “gioiosamente sanguinolento”, divertente e autoironico, in grado di tenerci attaccati allo schermo dal primo all’ultimo minuto grazie a un'atmosfera che non cala mai. La sceneggiatura di Leopard nella costruzione del villain strizza un occhio a un altro classico dell’horror australiano, il Wolf Creek di Greg McLean, con un Jay Courtney che sa giocare bene e amabilmente nell’alternare affabilità quando spietatezza, umorismo e cinismo, vulnerabilità e disumanità. Il suo è un vero e proprio One Man Show ed è un vero piacere guardarlo giganteggiare davanti a una telecamera che lo segue così da vicino che quasi non riesce a contenerlo, allo stesso modo in cui appare quasi troppo grosso e impiccato tra gli stretti corridoi in metallo della sua nave-prigione. Una nave-prigione grottescamente bellissima: che ci racconta la “sua storia” tra i mille dettagli della scenografia, tra quadri ricavati da vecchi quotidiani e scritte sui muri realizzati da unghie umane cariche di angoscia, troppi liquori e una vasta collezione di archivi video realizzati, all’inizio, forse in cerca di grandi “domande esistenziali”. Uno scenario da tragedia, ma anche da incubo, che spesso viene percorso dagli occhi e muscoli tesi di una bellissima e convincente Hassie Harrison: in cerca di vie d’uscita impossibili mentre da spettatrice è chiamata più volte ad assistere sul ponte a performance degne del grand guignol che di sicuro faranno la felicità degli amanti dello splatter. In attesa di un confronto con l’enorme personaggio di Jay Courtney, che fin dall’inizio ci appare davvero impari. Sul piano visivo e sonoro la crew di Byrne si conferma eccezionale quanto versatile: Dangerous Animals ha colori e suoni molto differenti da Devil’s Candy, ma il livello è sempre alto, convince e conquista attraverso una visione e ritmo ancora una volta precisi, distintivi. Ci sembra quasi di avvertire la puzza di frattaglie, di sentire i polsi legati al letto di ferro in una morsa che non tende a cedere. Dal mare sentiamo emergere e circondarci alla cintola denti bianchissimi di squalo.

Un piccolo gioiello per tutti gli amanti dell’horror “balneare” più “slasher” e ludico. Imprescindibile se amate i film ad alta tensione e magari siete un po’ orfani di quel “florido filone” su persone distratte che a vario titolo finiscono di punto in bianco in mare, senza poter tornare indietro. Qui però non ci sono tempi morti e soprattutto siamo in compagnia di un barcaiolo terribile di lusso. 

Un tuffo nel blu rosso sangue per chi apprezza ancora uno slasher vecchia scuola anni ‘80. 

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