sabato 6 dicembre 2025

The smashing machine: la nostra recensione del film biografico/drammatico sulla star dell’MMA Mark Kerr, scritto e diretto da Benny Safdie, con protagonisti Dwayne Johnson ed Emily Blunt

 


Alla fine degli anni ‘90 il lottatore Mark Kerr (Dwayne Johnson) era per i suoi avversari sul ring una vera e propria “macchina di distruzione” (in inglese: smashing machine). Che si trattasse di wrestling, Vale Tudo o qualsiasi forma di arti marziali miste (MMA), i suoi incontri erano autentici concentrati di adrenalina racchiusi in pochi secondi. Il gong suonava e dopo i primi scambi di calci e pugni il rivale era travolto dai colpi, spinto a cadere.  Kerr che gli era sopra prima che toccasse terra, lo immobilizzava con le gambe. Seguiva una scarica di pugni veloci e letali come piccoli uragani, che si diradavano solo con la perdita dei sensi dell’avversario: KO tecnico. 

A ogni match il copione si ripeteva, fulmineo e drammatico, sempre più inebriante. 

Kerr raccontava ai giornalisti di come in quei momenti convulsi di lotta era investito da qualcosa di trascendente, “mistico ed eroico”, a tratti anche erotico. Una sensazione di onnipotenza, che allontanava ogni forma di compassione in ragione dell’estasi. 

A fine match qualcuno rimaneva “inevitabilmente a terra”, forse per sempre. A pezzi, tra ecchimosi e fratture varie, a volte in uno stato confusionale per i troppi colpi rivolti alla testa. Per un attimo osservare quelle poltiglie umane straziava il cuore, ma Kerr tornava subito imbattuto e felice, “ancora una volta in piedi”, acclamato. Pieno di medaglie, sulle copertine, e nei talk tv, con una nuova villa con piscina nel cuore della metropoli, una macchina di lusso, una donna bellissima e sempre sorridente che lo adorava sempre al suo fianco, Dawn (Emily Blunt). 

Rimanere sulla cima del mondo sembrava facile: doveva solo “tenere il ritmo”. Non abbassarsi mai a una forma fisica meno che perfetta. Curare spasmodicamente l’alimentazione con strani frullati iperproteici, costiere il corpo con ore di palestra e affinare lo stile con allenamenti costanti, in sempre nuovi stili di lotta. Se le forze lo abbandonavano, bisognava rialzarsi sempre, subito, anche dopo aver subito troppi colpi. 

Nei primi tempi gli antidolorifici diventavano per lui amici discreti: sotto prescrizione medica curavano giusto le botte e alleggerivano la testa dai pensieri, aumentando insieme velocità di ripresa e buon umore, fluidificando le relazioni pubbliche.  

Con il tempo, con prescrizioni mediche sempre più numerose e “dubbie” da fornire in farmacia, gli antidolorifici avevano finito per curare anche “tutto il resto”, facendosi percepire sempre più indispensabili e inefficaci. Per sopravvivere e tenere insieme quell’immagine eroica di se stesso, Kerr aveva finito per lasciarsi trascinare dai farmaci da un luogo all’altro come uno zombie, perennemente confuso, nei momenti più felici come nei più brutti, come trascinato dalla marea. 

Ma Dawn viveva forse nella stessa madre: era sempre con lui, ancora felice, forse più di prima. Mark sembrava ascoltarla più di quanto non avesse mai fatto, appariva gentile e soprattutto non le faceva pesare troppo il “suo” di vizio: l’alcol. 

Dawn, per sopravvivere alle sue insicurezze delle vita pubblica e di un uomo forse troppo orgoglioso, che ogni giorno veniva coperto da “lividi per lavoro”, aveva trovato nel bere una “compagnia liquida” ideale. Dawn sentiva quasi di potersi prendere cura del marito, di poterlo capire di più. 

In qualche modo la vita girava bene, almeno fino al grande torneo di arti marziali di Tokyo: il Pride Grand Prix del 1999. 


Un evento unico al mondo, la prima volta che combattenti occidentali si contendevano il titolo con i più grandi maestri di arti marziali miste asiatiche. Mark era chiamato a essere il pioniere di una nuova era della lotta professionista, per arrivare al meglio al suo incontro con la Storia era partito per l’Oriente in volo business class a fianco del suo amico e compagno di lotta di sempre: il silenzioso e premuroso, spesso “inascoltato”, Mark Coleman (Ryan Bader). Solo che a Tokyo con loro c’erano anche gli antidolorifici, con Mark che firmava contratti, alzando i pugni e stringendo mani in costante stato di ebbrezza: lo stato ideale per non comprendere a pieno la realtà e i suoi tranelli. 

Per quella che può essere intesa come una “incomprensione culturale”, nelle regole dello scontro venivano accolti dai giudici di gara anche dei colpi proibiti cui Mark era impreparato. 

Al primo match, lui andava a terra senza potersi rialzare, per la prima volta nella sua vita. Colpito da così tanti pugni alla testa che non si potevano contare: tanti quando quelli che di solito era abitualo a dare lui agli altri. 

Sconfitto, non solo sul ring: la questione degli antidolorifici veniva a galla, con l’obbligo morale/contrattuale di una riabilitazione di mesi, in un centro specializzato, per continuare a combattere e riprendersi parte dell’onore svanito. 

Dawn arrivava a Tokyo con un volo low cost per raccoglierlo da un letto di ospedale, preoccupata, incazzata e come sempre alticcia. Saettando parole di odio per Mark Coleman: che non aveva impedito che quella situazione accedesse, che non aveva evitato che Mark si riempisse di antidolorifici come sempre. 

Coleman, dopo essersi scusato, in punta di piedi sarebbe tornato l’anno successivo in Giappone, per vincere lui quel titolo mancato dall’amico. Mark sarebbe invece andato a disintossicarsi per tornare a tirare pugni come una macchina di distruzione “per bene”. Per tornare ancora a Tokyo appena possibile, dopo aver ripreso in mano la sua vita senza antidolorifici, affrontando dolori che da anni non provava più a sopportare.  

Sentandosi molto più debole e meno tollerante di quanto lo era mai stato.

Affrontando anche il dolore e le responsabilità di non esserne più “allineato” con Dawn, che intanto non aveva fatto i conti con il bere. Mark e Dawn erano in un rapporto di coppia sempre più difficile, che fino ad allora si era sostenuto e tollerato grazie al barcollare fiducioso in una “dipendenza reciproca”. Come sarebbe stato il futuro?


A24 e il regista e sceneggiatore Benny Safdie, regista dell’interessante film drammatico Good Time, del 2017, sulla base di alcune interviste e con la partecipazione del vero lottatore Mark Kerr adattano per il grande schermo uno dei momenti più difficili della sua vita reale da combattente: anche per offrire all’ex lottatore e ora attore  Dwayne “The Rock” Johnson la “parte della vita”. Forse la sua prima reale opportunità di entrare nella rosa dei migliori attori ai prossimi festival internazionali. 

Sembra chiara l’intenzione di seguire con quest’opera in solco di classici del cinema come Toro Scatenato di Scorsese, la saga di Rocky di Stallone, The Wrestler di Aronofsky, The Fighter di O’Russell, Hurricane di Jewison, ma si avverte anche la voglia di raccontare gli sport di lotta in una “chiave nuova”. 

Una chiave narrativa che la casa di produzione A24 ha scelto di raccontare a partire dal fenomenale The Iron Claw del 2023, scritto e diretto da Sean Durkin, con protagonisti degli ottimi Zack Efron, Jeremy Allen White e Dennis Dickinson, che prosegue proprio con The Smashing Machine: trasporre cinematograficamente  storie reali di combattenti di wrestling. Partire dalla radice “eroico/simbolica” di questi uomini, per molti considerati alla stregua di gladiatori moderni, per raccontarne dolori/fatiche che questi atleti hanno sperimentato oltre alle “contusioni” del ring. Portando con la stessa convinzione (e proporzione), sul palcoscenico, spettacolo muscolare e dramma umano.  

Se, oltre a magnifici combattimenti, in The Iron Claw andava in scena una storia familiare e sportiva con il “sapore e dolore” della tragedia greca, in The Smashing Machine ci troviamo davanti a un film di combattimenti ma anche intimo e drammatico. Un film “sul fallimento e sulla dipendenza” che entra spesso in felici assonanze con il pluripremiato Via da Las Vegas del 1995, di Mike Figgis con protagonista Nicolas Cage. 

Le similitudini partono dal piano visivo, dalla scelta di immagini “sgranate e  sfocate” dal direttore della fotografia Maceo Bishop, che seguono idealmente l’approccio “evocativo/simbolico” di Declan Quinn per Via da Las Vegas di Figgis. Sono immagini da “paesaggio impressionista”, ideali per raccontare una “storia sospesa”, più sul lato cromatico/emotivo che realistico. 

Quinn dipingeva una Las Vegas cromaticamente dai toni neri di “un’eterna notte senza uscita”, resa sopportabile da “fioche luci (di speranza) artificiali”: color oro acceso, “rilasciante” da non-luoghi come la stanza di albergo come dal colore del whisky e degli  altri liquori “co-protagonisti” sulla scena.  

Bishop in Smashing Machine dipinge invece cromaticamente una realtà duale tra Giappone e America. La città di Tokyo ha palette di giallo acido e ombre nette: è una Tokyo di fine anni ‘90 ma ancora con il sapore di quella degli anni ‘70, del Catch di Antonio Inoki (o dell’Uomo Tigre animato). È una Tokyo “severa e giudicante”. A contrario, abbiamo un’America patinata e pastellata dai colori accesi rossi e blu: “iconografica”, apparentemente “gentile” ma ugualmente “lontana”. Anche lei forse uscita da un’altra epoca: quella dei telefilm di primi anni ‘80. L’America del primo grande successo in tv del Wrestling e degli Action Movie muscolari, in un clima culturale di apice e crisi definito di “nuovo edonismo”. È una America “accondiscendente e plasticosa”, dal sapore precario quanto malinconico. 

Posto visivamente questo dualismo e questo approccio più emotivo che realistico al contesto, la “dipendenza” da antidolorifici del personaggio di Dwayne Johnson, come quella da alcol del personaggio di Nicolas Cage, si impone “di pari passo” sulla scena: prendendosi i primi piani, attenuando l’intreccio, i personaggi di contorno e tutto il resto. La performance del protagonista, il “soggetto che viene agito” dalla dipendenza che lo possiede, diventa così l’unico punto di riferimento chiaro. Anche se in questo caso il film non parla di una singola dipendenza, ma di due: con il personaggio di Emily Blunt che non si accontenta di certo del ruolo di contorno, volendo imporsi con pari forza sulla scena. Emily Blunt, da grandissima attrice, pur potendo contare di meno scene su schermo, riesce sempre a far emergere, con incredibile forza e trasporto la complessità e il tormento de suo  personaggio, fino a “sottrarre il riflettore” a Dwayne Johnson. 


Ed eccoci quindi a parlare di Dwayne Johnson. È il protagonista di un film che vuole un “One Man Show”, annebbia (quasi) tutto il resto e lo pone al centro dell’immagine, a nudo e per la maggior parte del tempo “non protetto” dalla classica armatura di muscoli, ironia e autoirona che di solito lo aiutano sullo schermo. Vulnerabile e senza filtri, potendo contare prevalentemente sul proprio dolore ed emotività, come lo era stato per Cage, che per Via da Las Vegas portò a casa un Oscar.

Johnson poteva capire i dolori fisici di una vita da lottatore professionista come Kerr, perché anche lui era stato a lungo lottatore di Wrestling, avendo vissuto lo stress degli incontri settimanali in giro per il mondo, gli infortuni, la necessità di un allenamento costante e le difficoltà di una vita sempre sotto i riflettori. Inoltre, seppure in termini e portata diverse da Mark Kerr, anche Dwayne Johnson sta forse vivendo, oggi, un periodo di crisi. Johnson si è rivelato un autentico re Mida di Hollywood fin dall’esordio, con La Mummia 2. È stato con successo protagonista di molte piccole pellicole muscolari, si è messo alla prova in ruoli anche ironici come Be Cool L’acchiappadenti, ha rivitalizzato le saghe di Fast & Furious e Jumanji ed è riuscito a trovare il “ruolo perfetto” in Pain & Gain di Michael Bay, Johnson. Sembrava “invincibile al botteghino” come lo era stato negli anni ‘80 Arnold Schwarzenegger, ma poi sono arrivati i primi insuccessi. Gli screzi con Vin Diesel (per qualcuno il “nuovo Sylvester Stallone”). Il più grosso e doloroso flop, con il colossal Black Adam che ha finito la corsa non raccogliendo che le briciole del suo costo di produzione. 

Johnson con Smashing Machine idealmente “si rialza”, ripartendo da zero e dalla lotta professionistica: un mondo che ben conosce, dal quale è stato “celebrato e inebriato” come era successo al vedo Mark Kerr. Le scene in cui dà il massimo sono ancora quelle di lotta e di “allenamento alla lotta” (ce ne è pure una con in sottofondo My Way di Sinatra), che affronta con tutta la grinta e spettacolarità che da sempre porta sullo schermo, ma è qualcosa di del tutto nuovo vederlo interagire con tanta spontaneità ed espressività al fianco di Emily Blunt, che è già stata al suo fianco sul set dell’ottimo action per famiglie Jungle Cruise di Jaume Collet-Serra (regista con cui The Rock subito dopo ha condiviso in flop di Black Adam). I due recitano insieme con una grande intesa e complicità, dando luogo a momenti davvero molto teneri (la sequenza al luna Park), quanto sorprendentemente è riuscitamene drammatici (il meraviglioso finale). Inoltre Johnson sceglie con grande attenzione di recitare di sottrazione, prediligendo i silenzi, lavorando molto sulla gestualità del corpo e facendosi aiutare dal montaggio e dalla colonna sonora della brava Nalo Sinephro. Sa di essere “ancora indietro” per essere considerato a tutti gli effetti un grande attore drammatico: punta ad apparire quanto meno “genuinamente reale”, raccontando una parabola umana che poteva essere benissimo anche la sua. Per “contenere come riesce” quell’enorme corpo muscoloso che incarna, spesso sceglie di presentarsi sulla scena “a terra senza forza”, “scarico”, emotivamente spento. Ha l’umiltà di indossare un trucco che ne modifica fortemente i connotati, risultando a un primo sguardo quasi irriconoscibile: di fatto è forse la prima volta che The Rock non appare a tutti gli effetti “uguale a se stesso.” Ma soprattutto Johnson ha la forza di guardare in faccia il mostro della “dipendenza”, che per lui forse è diventato con il tempo una “fame di fama” davvero importante e ingombrante. Un mostro che decide di affrontare sulla scena con tutte le difficoltà che questo comporta sul piano recitativo quanto umano. Anche a costo di “abbattere” quell’immagine da supereroe che da sempre pare indossare con la spontaneità di un pigiama. 

L’impegno c’è ed è evidente. La pellicola fa di tutto perché la performance emotiva migliore occupi il centro della scena ed Emily Blunt è una partner perfetta, sempre inappuntabile, la conferma di un enorme talento. 

Tuttavia The Smashing Machine, come ogni “titano” nei miti dell’antichità, non riesce del tutto nella sua impresa, seppur “combattendo come un leone” fino a i titoli di coda. 

Il film presenta alcune increspature estetiche che possono per qualcuno renderlo forse troppo “pomposo” (come il già citato montaggio stile Rocky con in sottofondo My Way di Sinatra, che per alcuni può sembrare “troppo”), la trama a tratti si sfilaccia rinunciando di raccontarci scene che potrebbero essere importanti (come il periodo di riabilitazione di Kerr), la lunghezza complessiva è forse troppo imponente, con momenti che rischiano di diventare ridondanti (tutta la sotto-trama su Mark Coleman). 

Tutte imperfezioni che forse non permettono a The Smashing Machine di entrare nella storia come Via da Las Vegas di Figgis o come Rocky, ma difetti che ci rendono comunque ancora più sincero, umano e “imperfetto” il The Rock cinematografico. The Smashing Machine è un film a cui ci si può affezionare e di sicuro è il felice risultato di un impegno encomiabile. 

Talk0

mercoledì 26 novembre 2025

Dracula - l’Amore perduto: la nostra recensione della nuova incarnazione cinematografica del vampiro scritto da Bram Stoker, firmata questa volta da Luc Besson e con il volto di Caleb Landry Jones

La storia è nota e riprende molto da vicino le pagine di Stoker, ripercorrendo una visione estetica/simbolica vicina a quella di Francis Ford Coppola e lontana dalle produzioni vampiriche Hammer. L’occhio e il cuore di Besson però vanno altrove e scelgono di rileggere la materia nella chiave estetica e crepuscolare del fumetto europeo: attingendo a piene mani dalle atmosfere satiriche, barocche e sovraccariche  delle opere di JodorowskyMoebius, ma soprattutto dalla “favola medioevale amara”, Thorgal di Jean Van Hamme (lo stesso autore di Valerian).   

Su una scena sfavillante ma polverosa (una “polvere nobile” che ricorda le prime scene del Gattopardo), il mito del vampiro torna “fantasma” del potere aristocratico nel medioevo passato alle prese con l’epoca dei lumi dell’età moderna. Un Dracula autentico iconoclasta (in senso “molto più che figurato”, già dalle prime scene) che mette da parte armature lucenti e abiti polverosi di un potere secolare/morale ormai fuori moda e accoglie qui, come sua nuova casa, una Parigi “rinnovata e illuminata” da una “nuova cattedrale” edificata proprio per l’esposizione internazionale: la torre Eiffel

Un’opera simbolo di una Parigi moderna, sfavillante e inclusiva, per un Dracula ugualmente moderno. 

Un “succhiatore di sangue” per necessità, pragmatico e concreto: uccide di mala voglia per questioni di sopravvivenza genetica e senza particolari vanti. Una creatura che predilige nella caccia usare le arti di seduzione e consenso  (come un profumo che porta all’euforia dionisiaca/cannibale, che pare uscire da un romanzo di Suskind) più che sguainare denti aguzzi. Un uomo che sa mettersi in gioco sul piano emotivo, che con lucidità vuole indagare su se stesso e sul significato più profondo della sua esistenza/condanna di non morto. Un Dracula che combatte Van Helsing (Christoph Waltz) non con le trasformazioni e canini sguaiati ma impostando un dialogo intellettuale, quasi psicanalitico, sul senso della fede e sul valore delle relazioni umane. E in questa pellicola Van Helsing  non è più “solo” il classico “uomo di scienza”, ma anche un “sacerdote” che si affaccia al pensiero freudiano.

Dracula ammette di essere stato un giovane “sanguinario per motivi di stato”, è consapevole della sua forza ancora devastante, ma ora agisce quasi solo per difesa. È pure un ottimo datore di lavoro per gli inservienti del castello tra i Carpazi e quasi una sorta di “padre” (aspetto originale e molto interessante) per un piccolo esercito personale di buffi bambini sperduti / gargoyles che sembrano usciti dall’Isola che non c’è.  

È un Dracula che ha a cuore i “freak” e gli emarginati, che teme solo l’ipocrisia. Soprattutto, a differenza del Nosferatu di Murnau e poi di Eggers, è un “principe delle tenebre” che non fugge come Kriptonite dall’amore. Un innamorato che esprime nel senso più moderno, quasi “femminista”, un sentimento sincero e non possessivo per la sua eterna compagna (Zoe Bleu): comprendendone intimamente paure e dubbi, riconoscendone sempre il punto di vista, lasciando libertà e autonoma sottraendosi da qualsiasi vecchia manipolazione narcisistico/vampirica.


È un Dracula del 19simo secolo che già si adatta benissimo al 21esimo, ma tuttavia rimane, anche e ancora, un “mostro”. Il più eccentrico, terribile e pericoloso dei combattenti: per la narrazione illuminista di Van Helsing geneticamente “frutto di una specie nuova”. Una creatura dall’aria dolce quanto sinistra: a partire da occhi intensi, profondi e a tratti febbricitanti come quelli di Klaus Kinsky, ma che appartengono al bravo 
Caleb Landry Jones

Un Jones, già protagonista per Besson nel bellissimo Dogman, che ormai è diventato per il regista francese la  sua “massima ispirazione”, come lo fu per Kevin Smith il compianto Michael Parks (Red State, Tusk). Besson cuce tutto Dracula intorno al talento di Jones e lui sa ripagarlo indossando il ruolo con enorme disinvoltura, esprimendo in modo teatralmente grandioso quanto umanamente sincero la complessità d’animo e la fisicità, affascinanti e al contempo distorte, di un Dracula che ancora non avevamo incontrato. 

Il film diventa subito per Jones un “one-Man show” come lo era stato Dogman, con lui che da autentico vampiro sa divorare letteralmente ogni scena: ammaliando e commuovendo.

A parte un serafico Christoph Waltz che a tratti sembra un disilluso Django di Franco Nero e a tratti sfoggia un sorriso da Terrence Hill, gli altri uomini sulla scena sono quasi macchiette, a partire da un Jonathan Harker con l’aria buffa da venditore di pentole che gli dona l’attore Ewens Adib: forse felicemente vicino al modello del Fracchia contro Dracula. Sul lato femminile della pellicola la Elizabeth/Mina di Zoe Bleu “convince”, ma è soprattutto la vampira Maria de Montebello della nostra brava Matilde De Angelis a “conquistare la scena”. Una De Angelis che fissa voluttuosa chiunque come un gatto sornione, mentre sorride e gioca con i suoi canini da vampira in modo sensuale, facendoci ballare intorno la lingua come fossero pali da lap dance. Un puro concentrato di passione, solare e autoironica. Una donna dall’animo indipendente e sarcastico: tutto fuorché ripercorrere il ruolo della “vittima designata” già vista in troppi adattamenti di Dracula. 


Suo lato dello spettacolo Besson guarda invece molto al cinema per ragazzi del passato. 

L’azione è sempre concitata, ma mai centrale o troppo sanguigna. Il passo narrativo e visivo scelgono di cavalcare il romanticismo, proprio citando i fumetti europei, ma anche il fantasy anni ‘80 di pellicole come Legend, Lady Hawk (e se vogliamo Fantaghirò). Le scene di cappa e spada con protagonista l’armatura del giovane Dracula Dragone appaiono invece lucenti e scintillanti come quelle dell’Excalibur di Boorman.

C’è una colonna sonora firmata da Danny Elfman potente, gioiosamente pomposa e altisonante, come quella che il compositore aveva confezionato per L’armata delle tenebre di Raimi.

C’è l’horror, lo splatter, ma solo nelle parti ineludibili dal racconto originale. Come solo in parte alla fine si confermano similitudini e simmetrie visive e narrative con il Dracula di Coppola. 

È un Dracula decisamente diverso dal solito, che può anche per questo lasciare parte del pubblico spiazzato, ma che sentiamo di amare anche al di là dei suoi difetti. Difetti come un ritmo a tratti blando, scenografie a volte fin troppo “polverose”, personaggi a tratti poco a fuoco come il gruppetto degli “Ammazzavampiri” e un conflitto finale, quasi dalle parti della fotografia fredda del Dottor Zivago, che funziona forse di più sul piano simbolico che su quello dello “spettacolo”. 

Ma quando il Dracula di Caleb Jones fissa la camera e per questo tramite arriva ai nostri occhi, sa davvero ipnotizzarci.

Talk0


lunedì 17 novembre 2025

Chainsaw Man - La storia di Reze: la nostra recensione del romantico e super splatter film dello studio di animazione MAPPA, che racconta l’arco narrativo seguente alla prima stagione dell’adattamento cinematografico del manga dark fantasy di Tatsuki Fujimoto.



Premessa

Il film si colloca cronologicamente dopo i 12 episodi della prima stagione della serie animata (che si possono trovare in streaming su Crunchyroll e in home video da Anime Factory), ma presenta un arco narrativo che possiamo considerare quasi del tutto autonomo e autoconclusivo. 


Un piccolo ripasso 

In una Tokyo distopica dei giorni nostri. pervasa dalla violenza e dalla disperazione, sembra che il mondo terreno e inferno siano luoghi sempre più “vicini”, con esseri umani e diavoli che convivono ormai a strettissimo contatto. Tra contratti “faustiani”, esperimenti genetici che mischiano sangue di angeli e diavoli creando creature ibride, demoni che si nascondono nel corpo di persone di potere, i concetti di bene e male qui più volte si confondono e nascondono.

Per ripagare i debiti contratti con una associazione malavitosa dai propri genitori, il giovane e ingenuo Denji è ormai ridotto ai margini della società, quasi alla stregua di un animale. 

Privato sistematicamente di ogni tipo di affetto e socialità, contento del solo fatto di “avere un tetto e poter mangiare qualcosa di buono a fine giornata”, viene costretto con la forza a occuparsi della caccia ai diavoli che si contendono il potere del territorio con la yakuza. Un giorno Denji incontra sulla sua strada un piccolo e tenero cane/diavolo di nome Pochita. Una creatura quasi simile a un Pokémon, ma grado di far emergere dalla sua testa una terribile motosega. I due hanno fin da subito l’impressione di essere molto simili e decidono di non combattersi, di diventare amici, magari “partner di lavoro”. Per un po’ funziona, ma in un mondo che non ammette alcun tipo di smancerie, dove la tragedia è la corruzione sono sempre dietro l’angolo, Denji viene presto tradito e ucciso in un modo brutale quanto “indifferente”. Pochita, in un disperato tentativo di riportarlo in vita, sceglie di sacrificarsi e fondersi con lui in un unico nuovo corpo. Da allora Denji, tirando una catena che pende dritta dal suo cuore, si può trasformare nell’uomo motosega: un giustiziere quasi indistruttibile, in grado di ricomporsi dopo ogni sventramento e di sprigionare da ogni parte del suo corpo, testa compresa, delle terribili e affilate motoseghe. Una mutazione durante la quale anche il carattere del ragazzo sembra cambiare profondamente: rendendolo di colpo scurrile, pazzo, crudele e inarrestabile. I diavoli iniziano a tremare al solo sentire il suo nome e il suo talento viene presto notato dai tutori dell’ordine. Con la prospettiva di “un vitto e alloggio migliore”, Denji si arruola felicemente come Devil Hunter dell’Ufficio 4 di Pubblica Sicurezza, sotto la guida della misteriosa Makima. Una unità speciale creata per trovare e distruggere il terribile Diavolo Pistola.  Makima è manipolatoria, sfuggente, nasconde enormi quanto oscuri segreti. Ma “l’imperterrito ingenuo” Denji si innamora di lei al primo istante, come di fatto “al primo istante” si innamorerà in pochi istanti di ogni ragazza prosperosa che si avvicinerà a lui. Questa “cosa delle ragazze” dall’arrivo alla quarta sezione sembra interessargli quasi di più di un vitto e alloggio decenti. 

Makima decide di assegnare a Denji un appartamento in condivisone con due suoi colleghi di lavoro: il riservato Aki e la violenta Power. Il primo ha stipulato patti con vari Diavoli che deve continuamente gestire con freddezza e quasi paranoia. La seconda ha spesso in corpo del sangue di diavolo che ne altera l’umore, rendendola di fatto una irritabilissima mina vagante. Questi due pazzi sono per Denji a tutti gli effetti la cosa più vicina a una famiglia che abbia mai avuto. Ma soprattutto, con qualche “piccolo sforzo”, questo “momento fortunato” può essere la sua prima e unica occasione di vivere una vita normale. Il segreto sta tutto nel riuscire a sopravvivere, con i poteri di Chainsaw Man, a centinaia di scontri mortali con creature sempre in grado di radere al suolo interi quartieri in pochi minuti.  



Sinossi

Dopo una serie infinita di spettacolari quanto tremendi scontri con entità terribili come il Diavolo Pomodoro, il Diavolo Zombie, il Diavolo Pipistrello, il Diavolo Sanguisuga, il Diavolo Fantasma e altri, Denji ha finalmente ottenuto il suo primo, agognato incontro galante con la misteriosa Makima. Una intera giornata al cinema, per vedere di filato tutta la programmazione disponibile e parlarne nelle pause caffè tra una proiezione e l’altra. Dai film horror ai romantici, dai drammatici alla fantascienza, tutti sparati uno via l’altro. Seppur costantemente stimolata dalla visione di storie di tutti i tipi, Makima come sempre non tradisce la minima emozione. Denji cerca di osservarla per scorgere qualcosa ma è tutto impossibile, tutto è “super misurato”: Makima rimane un “muro emotivo” al punto di non renderlo capace di capire se l’incontro stia andando effettivamente bene o male. Ma visto che Denji è un tipo super positivo, alla fine propende che tutto sia andato bene. 

Quando  i due si separano sta per iniziare un piccolo temporale e un Denji “super zuppo” trova un riparo di fortuna in una cabina telefonica. In quella stessa cabina, pochi minuti dopo, irrompe Reze.

È bellissima, solare e divertente. Al primo sguardo sembra già innamorata persa di Denji e questo atteggiamento travolge il ragazzo in un modo nuovo, che prima non aveva mai sperimentato e ora gli fa battere forte quel cuore da cui pende la catena di una motosega a benzina.

È una ragazza di origine straniera che lavora in un bar poco distante, proprio a un paio di curve dalla cabina, dove si  servono un caffè e dei piatti cattivissimi. Il posto si chiama “Il Confine” e Denji, nonostante il pessimo menù, inizia a frequentarlo il più possibile, cogliendo l’occasione di ogni pausa pranzo, dopolavoro, mattina presto.  

Alla quarta sezione le cose vanno bene, nonostante l’arrivo non richiesto di un nuovo stranissimo partner di nome Beam: un rompiscatole ossequioso fino a essere molesto, ma in grado di trasformarsi in una utilissima specie di squalo/ragno in grado di scalare i palazzi in verticale. Mentre la pista del Diavolo Pistola prosegue a rilento, si fa sempre più  molto confusa e “apocalittica”, Denji ha in testa altro. 

Nonostante abbia giurato di poter amare solo ed esclusivamente la freddissima e anaffettiva Makima, nonostante pure Power ogni tanto lo solletichi e in fondo lo solletichino un po’ tutte le donne che vede, Reze lo ha conquistato. Denji lo ha capito prima ancora di saperlo, come era successo con Pochita: tra lui e Reze ci sono tantissime cose in comune. Tantissimi rimpianti soprattutto: come non aver mai potuto avere una adolescenziale “normale”.

Insieme sono andati così una notte nella vicina scuola, per poter almeno immaginare per la prima volta quella “normalità” che non hanno mai potuto sperimentare, tra i banchi e le lezioni di giapponese, l’ora di nuoto, le pause pranzo sul tetto dell’edificio. Una notte infinita quanto bellissima, splendidamente “normale” in un mondo di Diavoli. 

Ma non erano soli. 


I Diavoli avevano ingaggiato per l’eliminazione del Chainsaw Man un killer di Devil Hunter caro, veloce, affidabile quando spietato. Un maestro del travestimento e delle lame che non si sarebbe fatto scrupoli nel seminare con sangue di innocente interi palazzi, pur di arrivare alla sua preda. 

Mentre Denji quella sera appare sempre più confuso dagli strani effetti che l’amore gioca nella sua testa per la prima volta, facendolo oscillare tra sogni erotici, mille ripensamenti, sincero romanticismo e nuovi sogni erotici, il killer ha già nel mirino Reze, che si è assestata da lui solo per un attimo. Ma chi sarà alla fine, tra i due, la vera vittima? 

Forse Reze e Denji sono davvero molto più simili di quanto il ragazzo sospetti. Il Chainsaw Man, tutta la sezione 4 di Pubblica Sicurezza e l’intera Tokyo dovranno presto avere a che fare con un incubo di devastazione totale per mano del terribile Diavolo Bomba e del Diavolo Tifone.


Tatsuki Fujimoto, un grande autore pulp

Nato nel 1992 a Nikaho, nella prefettura di Akita, Tatsuki Fujimoto si dice abbia iniziato a dipingere con pittura a olio fin da giovanissimo. Già nel 2011, tre anni prima del conseguimento della laurea in disegno occidentale presso l’università di Tohoku, era attivo nelle produzioni di opere brevi che realizzava in pochissimo tempo, anche nell’arco di una sola giornata. La celebrità arrivò nel 2018 con l’inizio della serializzazione dell’opera in otto volumi Fire Punch (edito in Italia da Planet Manga) e continuò nel 2018 con l’inizio della sua opera più lunga, Chainsaw Man, che presto divenne un successo internazionale sancito anche dalla produzione di una serie animata realizzata da MAPPA. In un’intervista del 2022 Fujimoto ha dichiarato di ispirarsi per i suoi lavori allo stile narrativo dei film d’azione, dall’Indonesiano The Raid  del 2011 al coreano The Chaser, diretto nel 2008 da Na Hong-jin. Pellicole in cui non esiste mai una netta demarcazione tra bene e male, in cui anche i protagonisti sono carichi di forti contraddizioni morali che li perseguitano durante tutta la vicenda. Contraddizioni morali, spesso legate a un sottobosco criminale carico di nichilismo e autoironia, che si ritrovano spesso anche nei lavori di un regista giapponese che Fujimoto stima particolarmente: Takashi Kitano. Un’altra passione dell’autore sono i film horror carichi di autoironia, come il mitico e divertentissimo crossover tra Ringu e Ju-Oh del 2016: Sadako vs Kajako

Tutte influenze che si possono ritrovare in Chainsaw Man: un’opera che mischia il soprannaturale con vicende legata al mondo della malavita, ambientato in un contesto sociale pieno di disperazione ma anche di autoironia. 

Da fan dello studio MAPPA, considerando che ha sempre visto la sua opera vicina alle atmosfere di Dorohedoro e Jujutsu Kaisen, Fujimoto è stato subito entusiasta all’idea dell’adattamento animati di Chainsaw Man. Per lui MAPPA, con il suo stile ricercato e dinamico, avrebbe potuto espandere al meglio le scene d’azione più estreme e truculente che lui era riuscito solo ad accennare nel manga. 



Lo Studio MAPPA

Fondato nel quartiere Suginami di Tokyo nel 2011 dal produttore e  co-fondatore del celebre studio Madhouse Masao Maruyama, lo studio MAPPA, famoso per i suoi reparti di animazione in computer grafica e tecnica mista, in breve tempo è diventato uno dei principali nomi di riferimento nel settore. Famoso per opere come Terror in Resonance, Vinland Saga, Dorohedoro e l’ultima stagione de L’attacco dei giganti, lo studio ha aperto la sua attività proprio in supporto a Madhouse, con il film di Sunao Katabuchi In questo angolo di mondo ( edito anche da noi da Dynit). Dal 2016 la direzione dello studio è passata a Manabu Otsuka, prima dipendente dello studio 4C. Per il film di Chainsaw Man, la cui lavorazione è stata annunciata nel dicembre del 2023, sono stati riconfermati gli animatori che si sono occupati della serie tv, compreso il compositore della colonna sonora Kensuke Ushio (Space Dandy, Dandadan, Devilman CryBaby).

Il tema musicale del film, l’adrenalinica Iris Out, è stata realizzata da Kenshi Yonezu. Nei titoli di coda la malinconica Jane Doe, composta da Yonezu insieme a Hikaru Utada.



In Sala

Lo studio MAPPA, il regista Tatsuya Yoshihara e lo sceneggiatore Hiroshi Seko (tra i suoi lavori Vinland Saga, Jujutsu Kaiser, Dorohedoro, Mob Psycho 100,  il prossimo già attesissimo Rooster Fighter), aiutati da un team di prim’ordine, hanno dimostrato in questo film di aver colto a pieno tutta la dirompente e disperata poetica di Fujimoto. L’arco narrativo di Reze offre una perfetta sintesi dell’anima tormentata del manga originale: momenti di tenerezza e dramma frutto di una caratterizzazione non banale del mondo narrativi e dei personaggi che lo abitano, seguiti da concitate quanto folli scene d’azione dal sapore a tratti psichedelico, in cui tutto si fa vorticoso come sulle montagne russe, con così tanto splatter ed esplosioni che i palazzi sembrano progressivamente colorarsi di secchiate di sangue.   

Anche quando non si parla delle bellissime scene d’azione “a rotta di collo”, cariche e a volte pure “sovraccariche” di personaggi folli, in cui la computer grafica sa colorarsi di schizzi cromatici quasi dipinti con una audacia da pop art, Chainsaw Man non fa sconti alla sua voglia costante di estremo. Le scene sentimentali più romantiche (quasi eteree, come l’adolescenza raccontata da Madhouse nell’anime tratto dal manga Beck) non hanno paura a trasformarsi in esplicitamente erotiche (stile l’Egawa più “anarchico” di Golden Boy). Scene quasi sarcastiche (come quelle con protagonista l’Angelo/Diavolo, un comprimario molto interessante), con una punta quasi di orgoglio non hanno vergogna a lanciare invettive di stampo “politico” (spesso incentrate sul modo in cui troppo spesso una società sceglie di “rimanere immobile”, pur disponendo di poteri incredibili). Denji quanto Reze appaiono sul grande schermo speculari quanto complicati, anti-eroi meravigliosi alla ricerca di un dialogo (im)possibile in un mondo in cui tutti devono urlare e ogni cosa deve esplodere. Ci si affeziona infine a entrambi, anche perché entrambi si divorano giustamente da soli tutta la storia e la scena: Aki, Power, Makima e forse pure il folle ed esageratissimo Beam, giocano un po’ in panchina pur ritagliandosi dei momenti sfiziosi. 

Il film descrive un bellissimo balletto a due: un amore che si fa lotta, che si fa ideale, poi disillusione/rivoluzione, poi forse ancora amore. Alla fine del balletto di Reze e Denji, come la poetica di Fujimoto impone, si esce dalla sala con un rospone amarissimo in gola. Ma contenti di aver insieme a loro ballato e imparato a nuotare in una piscina all’aperto sotto la pioggia, per poi aver ricoperto un’intera Tokyo di una pioggia rosso sangue/passione, come se tutto il resto del film fosse destinato a tramutarsi in un Jackson Pollock (ho già detto di quanto è bella l’animazione “pittorica” degli scontri?).


Conclusioni

Il film di MAPPA è una gioia per i fan della serie, ci è piaciuto tantissimo e ve lo consigliamo anche se non conoscete Chainsaw Man, ma siete comunque amanti del cinema horror orientale più estremo, delle atmosfere dark fantasy e delle storie d’amore maledette. 

Tanto il comparto narrativo che quello visivo sono ai massimi livelli e poter godere di animazioni di questa caratura sullo schermo gigante di un cinema è davvero molto appagante, un'esperienza unica. 

Certo a parte Reze e Denji gli altri personaggi sulla scena potrebbero apparire un po’ oscuri o oscurati, ma su Crunchyroll o in home video con Anime Factory è possibile recuperare tutti i 12 episodi da 24 minuti della prima serie, vedendoli comodamente in una piccola maratona.

Preparatevi a esaltarvi, ridere e a commuovervi nello stesso tempo, con il perfetto sincronismo che si ricerca da una delle migliori pellicole animate che si possono vedere in sala. 

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martedì 21 ottobre 2025

Black Phone 2: la nostra recensione del nuovo capitolo della saga horror di Scott Derrickson, con protagonisti Mason Thames, Madeleine McGraw e Ethan Hawke, basato su un racconto di Joe Hill

Premessa 

C’era una volta un rapitore di bambini che la stampa locale aveva soprannominato “il Rapace” (in originale “The Grabber”, impersonato da Ethan Hawk). Operava in una America dei primi anni '70, depressa e carica dei fantasmi del Vietnam, dalle parti di una piccola e sonnacchiosa Denver di periferia, dove da poco era arrivato nelle sale Non aprite quella porta

Il Rapace aveva già fatto scomparire alcuni ragazzini i cui volti ormai capeggiavano in bianco e nero ovunque, dai manifesti ai bordi delle strade ai cartoni del latte, oppure sulle prime pagine dei giornali locali consegnati a domicilio la mattina presto da un ragazzino in bici. 

Mentre la polizia brancolava ancora nel buio, la piccola Gwen (Madeleine McGraw) giurava di vedere il Rapace nei suoi sogni, aiutata dalle preghiere. Una facoltà ereditata dalla madre, che forse stava rovinando anche la sua vita, ma che la polizia locale riteneva molto utile per le sue indagini. Gwen nelle visioni vedeva il Rapace vestito di nero, con un mantello e un cilindro da prestigiatore, il volto coperto di bianco da una maschera strana o dal cerone. Lo sognava portare i ragazzini in un luogo oscuro pieno di palloncini neri e gas anestetico. Da lì non tornavano più. Aveva già riconosciuto tra le sue prede anche dei compagni di scuola del suo timido e introverso fratello Finney (Mason Thames). Uno di loro era Robin (Miguel Mora), il suo migliore amico. Non avrebbe mai immaginato che presto proprio Finney, che lei ogni giorno difendeva dai bulli come una leonessa, si sarebbe trovato da solo, nelle mani di quel mostro, rinchiuso in uno scantinato spoglio di cemento, insonorizzato. Con solo un materasso logoro per giaciglio e un piccolo finestrino sbarrato per far entrare la luce del giorno. La porta blindata sarebbe stata sempre aperta, ma come “trappola”: solo perché al piano di sopra il Rapace restava in attesa che il ragazzo tentasse la fuga, facesse il “bambino cattivo”. Solo così, secondo le sue “regole”, avrebbe potuto punirlo fino a ucciderlo. Come gli altri. Ma Finney era davvero un “bambino troppo bravo”, forse nemmeno in grado di tentare di scappare. Essere stato per tutta la vita “una vittima”, dei bulli e di recente di un padre violento e perennemente ubriaco (Jeremy Davies), poteva forse ironicamente allungare la sua sopravvivenza in quel buco. Certo non all’infinito. 

Ma proprio al fianco del materasso di Finney, c’era un telefono nero. A muro, con cavo arricciato estendibile, trillo metallico, “vintage”: un cimelio rimasto forse dimenticato dalla precedente proprietà, ma prontamente silenziato dal Rapace con un netto taglio del cavo. Mutato per sempre, come chi entrava in quel sottoscala. Tuttavia ogni tanto, forse per uno scherzo dell’elettromagnetismo, paranoia o per colpa di terribili poteri ereditati dalla madre, quel telefono Finney lo sentiva suonare. All’altro lato della cornetta, le voci ovattate delle precedenti vittime del Rapace. Sussurrate o urlate, spesso confuse, arrabbiate come si conviene alle voci dei fantasmi. Ma più spesso intenzionate a spronare il ragazzino a non fare la loro fine, fuggire da quella cantina. Pronte a  suggerirgli vie di fuga, strategie e fallimenti che loro stessi avevano tentato. Come a poche miglia di distanza Gwen stava suggerendo alla polizia nuovi posti in cui cercare il fratello, guidata dai sogni e forse dalla fede. 

Ma tutto questo non sarebbe bastato, se  Finney non fosse riuscito ad affrontare quel demone seduto al piano di sopra. Rinunciando all’etichetta di “vittima”, che la società gli aveva cucito addosso e lui troppo spesso aveva indossato. 


Sinossi

Finney (Mason Thames) ha affrontato il Rapace e vinto, ma la terribile esperienza lo ha segnato. Siamo nel 1982, vanno di moda i Duran Duran e presto saranno a Denver con i biglietti già esauriti. Sono passati quattro anni e il ragazzino timido che doveva costantemente essere difeso dai bulli si è trasformato in uno che li picchia per primo, una specie di giustiziere, stimato ma più spesso temuto. Una trasformazione che Robin, che sempre lo spronava a reagire, avrebbe comunque apprezzato. Ma Finney non ha più voluto avere niente a che fare con il paranormale. Quando si trova davanti a strani telefoni che squillano tira dritto o risponde “avete sbagliato persona”. Sua sorella Gwen (Madeleine McGraw) crescendo non è più un “maschiaccio”, si è ingentilita e ha forse trovato il ragazzo ideale: il fratello di Robin e amante dei Duran Duran, Ernesto (Miguel Mora in questo film torna interpretando Ernesto, dal carattere opposto rispetto a Robin). Continua però ad avere strani sogni, durante i quali ha iniziato a spostarsi anche molto lontano da casa, in stato di trance. Durante l’ultimo sogno si è spinta fino allo scantinato che era del Rapace, attirata dal trillo del telefono nero. Aveva sollevato la cornetta e parlato con Hope, sua madre, scomparsa in circostanze tragiche 7 anni prima. Solo che la voce al telefono era più giovane di come la ricordava. Era la voce di una ragazzina che chiamava sotto la neve da un telefono pubblico nero del 1957, davanti a un lago ghiacciato, a pochi metri da un campo invernale per ragazzini cattolici tra le Montagne Rocciose. Per trovare risposte e forse un lavoro temporaneo, Gwen, Finney ed Ernesto faranno domanda come educatori per quella colonia invernale.

Dopo un lungo viaggio tra le zone più impervie e isolate del Colorado, tra fitti boschi e tornanti di montagna stile Shining, arriveranno in una struttura ancora deserta, in allestimento, sorvegliata solo da alcuni guardiani e riscaldata da piccoli vecchi generatori elettrici a fianco delle brande di legno. 

Una struttura che davanti al lago ghiacciato ha ancora una cabina telefonica con un telefono nero, ma che i custodi dicono non funzionare più  dai tempi in cui è arrivata la disco music. O almeno non funziona per contattare “chi è ancora vivo”.  

Questa volta sarà Finney a proteggere Gwen, a costo di tornare a rispondere alle chiamate di spettrali telefoni neri. Ma questa volta, dall’altro capo della cornetta, Finney sarà costretto a parlare solo con un fantasma: il Rapace. Un Rapace che ogni volta gli ricorda di come all’inferno non ci siano tizzoni ardenti, lapilli, fuoco. All’inferno si gela e presto porterà Finney a fargli compagnia. 



Sinister e Black Phone : storie di bambini fantasma e adulti assenti 

Nel 2012 usciva per Blumhouse nelle sale Sinister, un film horror scritto e diretto da Scott Derrickson e da C.Robert Cargill, “piccolo ma cattivissimo”, intelligente quanto geniale, che presto sarebbe stato considerato da molti come un cult movie. Nato a Denver in Colorado come i personaggi di Black Phone, Scott Derrickson, classe 1966, dopo gli studi in comunicazione, cinema e teologia aveva esordito alla regia nel 2000, con il piccolo, interessante e un po’ “acerbo” Hellraiser. Si era poi fatto notare dalla critica nel 2005 per il bellissimo, misurato e sfaccettato  horror a sfondo religioso (forse ispirato dai suoi studi teologici) L’esorcismo di Emily Rose, scritto come Hellraiser 5 insieme a Paul Harris Boardman, con cui avrebbe realizzato in seguito un altro ottimo film sugli esorcismi, Liberaci dal Male, nel 2014. Nel 2008, con un enorme apparato produttivo alle spalle (che forse lo ha un po’ condizionato…), portava nelle sale un remake un po’ sbiadito, ma pieno di spunti visivi e narrativi interessanti:  Ultimatum alla terra con protagonista Keanu Reeves. 

Nasceva invece a Austin California C.Robert Cargill, classe 1975, che come figlio di militari aveva passato gran parte della sua infanzia spostandosi continuamente, di base in base e di scuola in scuola. Da adulto era stato commesso viaggiatore finché trovò impiego come commesso in un negozio di videocassette, seguì una breve carriera d’attore e poi l’esordito come sceneggiatore, proprio nel 2012 con Sinister

Cargill si racconta che incontrò Derrickson una sera in un bar di Las Vegas, grazie a un amico comune. Si avvicinò al tavolo con coraggio presentando al regista di Emily Rose proprio la bozza di Sinister, che disse essergli stato ispirato dalla visione di The Ring

Si dice che ricevette in pochi minuti l’approvazione del regista e poi telefonicamente pure quella del produttore Jason Blum. 

La sua sceneggiatura era davvero speciale e Derrickson e Cargill fin dai primi scambi in quel bar scoprirono di avere molto in comune: dalla passione per le letture al cinema horror, dalla musica “vintage” a un'adolescenza vissuta nel cuore degli anni '70, per lo più ai margini di “difficili” cittadine di provincia che all’epoca vivevano in un clima di grande tensione, tra Vietnam e crisi economica. Una adolescenza tra bulli, ubriachi, reduci e famiglie distrutte, per molti versi simile a quella di molti giovani protagonisti dei libri di Stephen King come It e Stand by me. Un'adolescenza  che avrebbero voluto approfondire nei loro lavori insieme, proprio a partire da Sinister

Sarebbero tornati a lavorare con lo stesso spirito nel 2015 per Sinister 2, per poi nel 2016 fare qualcosa di completamente opposto (e forse “meno personale”, come nel caso di Ultimatum alla Terra) per il colossal Marvel Doctor Strange, per in seguito ritornare a temi a loro più vicini, “Kinghiani”, nel 2021 per Black Phone e ora nel 2025 per Black Phone 2

Ma restiamo un attimo al 2012 e ai motivi del grande successo del primo Sinister: perché in fondo sono molto simili a quelli del successo del primo Black Phone. 

A fianco di attori esordienti giovani e già bravissimi come Clare Foley e Michael Hall D’addario, protagonista assoluto della vicenda era Ethan Hakwe, che sarebbe stato di nuovo protagonista in Black Phone. Ethan Hakwe aveva esordito giovane e già bravissimo nel fantasy cult per ragazzi Explorer del 1985, per poi prendere parte ad alcune delle più importanti pellicole degli ultimi anni: il drammatico L’attimo fuggente del 1989, il thriller basato su una storia vera Alive nel 1993, la trilogia romantica di Before Sunshine, il fantascientifico Gattaca di Andrew Niccol. Era stato un sex symbol, ma anche un attore generoso ed eclettico, spesso legato a progetti indipendenti a volte molto “arditi” (come Boyhood di Linklater, iniziato nel 2002 e conclusisi nel 2014), che arrivato alla soglia del quarant’anni stava iniziando a flirtare sempre di più con il genere horror (con il “vampirico” Daybreakers) e che un anno dopo Sinister, nel 2013, sempre per Blumhouse, avrebbe inaugurato la grande saga di The Purge dell’esordiente James De Monaco, come primo protagonista. 


In Sinister, Ethan Hawke impersonava un pessimo giornalista di inchiesta e pessimo padre di famiglia, che per scrivere un controverso libro/inchiesta si trasferiva, con la moglie ignara e prole al seguito, in una casa maledetta dove erano avvenuti terribili fatti di sangue. Ossessionato dalle vicende di quel luogo, l’uomo si calava insieme ai suoi cari in una realtà da incubo con al centro una demone per certi versi simile a uno “strano Peter Pan”, con al seguito tanti “bambini perduti” fantasma: arrivati a lui in quanto “delusi” da dei genitori incapaci. Piccoli fantasmi intenzionati e diventare amici dei suoi figli. Bambini fantasma che sarebbero “tornati”, seppur con intenzioni diverse, anche in Black Phone. Come sarebbe tornato in Black Phone il tema-cardine della difficile comunicazione tra genitori e figli. Un argomento probabilmente per Derrickson e Cargill molto importante, che tornerà in seguito, spesso sviluppato con una complessità tale da rendere imprevedibile, ma pur sempre “credibile”,  l’esito di una storia. 

Le influenze da King erano tantissime, il lavoro finale era brillante, originale e soprattutto faceva davvero paura: a partire dalla scelta “ispirata da The Ring” di mettere al centro della narrazione alcune sequenze terrificanti girate in formato super 8, super sgranate, quasi mute, con in sottofondo solo il rumore della pellicola che gira meccanicamente sui rulli di un proiettore. 

Si parlò subito di trilogia, ma il secondo Sinister, ancora più complesso e forse più  filosofico che spaventoso, fallì la prova con il pubblico. Forse fallì anche perché nei suoi confronti Cargill e Derrickson si comportarono per lo più solo come produttori, quasi come i “genitori distratti” che venivano “puniti” in Sinister. Affidarono la regia e quasi tutto il resto all’irlandese Ciaran Foy, in quando occupati sui set di Doctor Strange e Liberaci dal male. Il film che uscì fu sfortunato e “non capito”, ma i temi e i personaggi di Sinister erano ancora molto importanti e “vivi” per i suoi autori; solo in attesa di trovare una “nuova forma”. 

A sei anni di distanza dal 2015 di Sinister 2, Derrickson e Cargill decidevano così di portare in sala personalmente un racconto di Joe Hill, contenuto nell’antologico Ghosts del 2004 e scritto con toni felicemente vicini alla “poetica” del padre di Hill e mito di Derrichson e Cargill: Stephen King. Ne fecero un adattamento così  “personalizzato”, realizzato in solo cinque settimane, che lo avrebbero portato a essere quasi una “variante di Sinister”, forse più matura e “meno cattiva”. Forse con poche modifiche avrebbe pure essere quel Sinister 3 più volte invocato dai fan ma mai realizzato dopo il flop del 2, o quantomeno una “versione speculare del primo Sinister”, in cui ruoli e ambienti risultavano “nell’ecosistema/scena opposti”. A partire scenograficamente da quel setting centrale della “soffitta” di Sinister, che diventava/si trasformava nel “sottoscala” di Black Phone

Erano di nuovo al centro della vicenda dei bambini, interpretati dai bravissimi Mason Thames e Madeleine McGraw, ma non erano certo del “bambini cattivi” o quando meno dei “bambini ribelli”, anche perché lo scenario temporale era diverso, come i “ricordi personali” che gli autori volevano infondere nell’opera erano diversi. Ethan Hawke, che interpretava il “genitore assente” di Sinister, qui assumeva il ruolo di carnefice/demone. Se vogliamo l’immagine distorta di un genitore iperpossessivo, “carceriere” e instabile, che non vedeva l’ora di “punire per sfogarsi”. Un ruolo che sarebbe risultato al pubblico tanto, “troppo simile” a quello del personaggio del padre dei due ragazzini, interpretato dall’ottimo Jeremy Davies, generando un vero e proprio “cortocircuito narrativo”, davvero intrigante quanto amaramente “plausibile”.  Per diventare il Rapace, Hawke si era spinto a cambiare più volte voce e postura del corpo, farsi a tratti muscoloso e a tratti esile, usare una gestualità estrema quanto eclettica, ora teatrale ora contenuta. Doveva essere un mostro tragico. Doveva saper esprimere e condensare in un singolo personaggio, che restava per la maggior parte del tempo con il volto coperto, come il V per Vendetta di Hugo Weaving, almeno cinque personalità e caratteri diversi. Un po’ “stremato”, ma contento di aver rivestito per la prima volta il ruolo di “cattivo”, Hawke diede vita con una performance  semplicemente incredibile al suo personale Freddy Krueger: uno dei suoi personaggi più cattivi, divertiti e iconici degli ultimi anni. 

Un demone che, tornando al “gioco degli specchi” con Sinister, era espressivamente l’esatto opposto del muto, monolitico e giudicante “Peter Pan” di Sinister

Tornava in Black Phone da Sinister, insieme a una messa in scena curata sul piano visivo e sonoro, un montaggio quasi “chirurgico” nel ricercare la massima chiarezza e leggibilità dell’azione e degli spazi. Tornava una rappresentazione della violenza cruda quarto realistica: consapevole dell’impatto visivo ed emotivo del mostrare la sofferenza umana, senza che questa apparisse “gratuita”. Tornavano le scene che spaventavano con un semplice cambio di inquadratura veloce e innalzamento del volume (i cosiddetti “bus”), improvvise “ma necessarie”. Tornavano “specularmente” scene realizzate tecnicamente come immagini di una telecamera da 8mm: che in Sinister venivano usate per riprodurre la bassa qualità di documenti filmati reali, mentre in Black Phone descrivono la percezione visiva durante i sogni. 

Tornava soprattutto una storia con dialoghi dal forte impianto drammaturgico, in grado di valorizzare la bravura degli interpreti, anche attraverso citazioni colte prese dal teatro greco: ne è un esempio la bellissima maschera dalle “parti umorali intercambiabili” del Rapace, realizzata dall’artista Jason Baker, che richiama proprio le maschere di scena del teatro classico. 

Soprattutto, tornavano protagonisti centrali della vicenda bambini fantasma e gli adulti assenti. 

Bambini “fantasma” in quanto defunti, ma pure invisibili a chi dovrebbe prendersene cura, costretti a “parlare da soli” (Gwen) o annullarsi (Finney). Specchio di una infanzia tradita in scuola dove regnava il bullismo, su strade dove da mesi imperversava un maniaco, in case dove c’era ovunque violenza domestica, a meno che il genitore non fosse morto in Vietnam. Nelle interviste, Cargill e Derrickson ricordano da piccoli di aver visto centinaia di foto in bianco e nero di bambini scomparsi nel nulla. 

Gli adulti invece erano “assenti” in quanto troppo concentrati sui rispettivi drammi personali, da quasi non accettare la presenza di una voce (e di un dolore) che non fosse esclusivamente loro. Adulti di conseguenza “assenti per alcol” (il padre), assenti “per indifferenza” (gli insegnanti), “pazzi” (il fratello del Rapace), se non ovviamente “assenti per cause di Stato” (come il padre di Robin partito per il Vietnam senza fare ritorno). 

Bambini fantasma e adulti assenti che convivono/si scontrano, in Sinister come in Black Phone, all’ombra di una rispettiva “entità maligna”, che si fa forse metafora del mondo stesso che stavano vivendo. 

Un’entità che però forse, a opinione dello scrivente, può funzionare in quanto rimane un misterioso deus ex machina, quando in realtà il seguito di un film horror va troppo spesso (e spesso con incoscienza) a indagare proprio sulle origini di un male che deve restare senza nome, in quanto spesso simbolo di qualcosa di diverso da un semplice “personaggio”.

La realtà è che il primo Black Phone funzionava proprio in quanto specchio di Sinister: era quasi lo stesso film da punti di vista opposti e come Sinister era diventato un piccolo cult.

Il grande dubbio, prima della visione in sala, era che si fossero fatti per Black Phone 2 gli stessi errori di Sinister 2



In sala

Black Phone 2 sceglie fin da subito di portare la narrazione al di fuori di uno stretto “ecosistema familiare/trappola”, come lo erano la soffitta di Sinister e lo scantinato del primo Black Phone

L’azione qui si svolge in una colonia invernale per ragazzi davanti a un piccolo laghetto: un luogo in grado “con una sola mossa” di rievocare, per i fan dell’horror più accaniti, tanto il lago e il campus Crystal Lake (Venerdì 13), quanto l’isolamento invernale “feroce” dell’Overlook Hotel (Shining). Un setting davvero ben realizzato, “sospeso” tra passato e presente in un istituzionale “immobilismo forzato”, che sulla scena appare davvero molto evocativo. Un luogo ghiacciato anche emotivamente, ammantato di bianca neve che spesso si tinge di rosso sangue, in cui un Rapace sempre più vicino a Freddie Krueger e “nuovi” bambini fantasma possono sguazzare come dei matti, tra realtà e piano onirico. 

Un “luogo nuovo”, che permette a Derrickson e Cargill di raccontarci quanto potessero essere spaventose (e “omertose”) le colonie per ragazzini negli anni '70 (non è certo il campus estivo di Polpette, film del '79 con Bill Murray..), che porta anche i due protagonisti, Gwen e Finney, ad assumere un “ruolo nuovo”. Un ruolo che li vede più adulti e quasi nei panni di “detective del soprannaturale”. In questi ruoli Mason Thames e Madeleine McGraw ci sono piaciuti moltissimo, dimostrando un grande talento nella “ri-costruzione emotiva” dei rispettivi personaggi dopo gli eventi trascorsi. Come ci è piaciuto rivedere in un “nuovo ruolo” il bravo Miguel Mora, come ritrovare Jeremy Davies alle prese con un personaggio, quello del padre, che effettivamente nel corso del tempo dimostra anche lui di essere cambiato, cercando di rimettersi in gioco. 

Black Phone 2 ha meravigliose scene horror e liberatorie, scene prettamente splatter, un setting pieno di suggestione e ottimi attori che sanno proseguire emotivamente bene la storia iniziata nel primo film. 

Anche sul lato visivo, l’uso del “formato onirico” degli 8mm funziona molto bene, giocando in modo interessante con le peculiari scelte del direttore della fotografia Par M.Ekberg. È più facile confondere la realtà con il sogno, a meno di non stare a ricercare in modo analitico le “sgranature della risoluzione” sui bordi e ai margini della scena. A volte con la stessa ossessione con cui veniva analizzata l’immagine in bassa risoluzione delle telecamere digitali della saga Paranormal Activity, non a caso un’altra serie-simbolo della casa di produzione Blumhouse.

Tuttavia qualcosa di importante si è perso sul lato della scrittura: non si è data la “giusta voce” alle “nuove” vittime del Rapace e il tema del difficile dialogo tra giovani e adulti è stato messo un po’ da parte. 

Forse per non ripetersi e non trasformare di nuovo il tutto in una specie di Sinister 3

Forse per esplorare di più il lato investigativo della storia e di fatto fornire un gancio a pellicole future, ma c’è da dire che anche la “struttura delle investigazioni”, tra i sogni di Gwen e le telefonate di Finney, ogni tanto appare un po’ schematica. 

Ad ogni modo si avverte a livello narrativo una maggiore distanza emotiva, che rende il tutto più prevedibile e meno sfaccettato sul piano umano, pur all’interno di una pellicola in larga parte ben riuscita e divertente.


Finale 


Con Black Phone 2 Derrickson e Cargill riportano in sala personaggi e atmosfere di uno degli horror più intelligenti, originali e interessanti degli ultimi anni. La formula rimane accattivante: bravi gli interpreti, riuscite le scene oniriche quanto le scene “splatter”, il nuovo scenario si dimostra ricco di atmosfera, Ethan Hawke sempre più cattivo e sopra le righe. Ci si spaventa e diverte come prima, anche se nella storia avvertiamo una maggiore “freddezza”, forse anche in onore della nuova ambientazione. 

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