mercoledì 24 luglio 2024

La morte è un problema dei vivi: la nostra recensione della caustica commedia nera diretta dal regista finlandese Teemu Nikki, con protagonisti Pekka Strang e Jari Virman

Risto (Pekka Strang) è un omone alto e segaligno, barbuto e dallo sguardo truce. Un matrimonio un po’ ingolfato, l’hobby di suonare la batteria in modo sfrenato in cantina, un “lavoro sicuro” come autista di carri funebri, un’unica grandissima ossessione: il gioco d’azzardo. 

Risto non fa prigionieri e non cade in sentimentalismi: si brucia tutto con il poker online, in pochi secondi, appena riesce a vedere che sul suo conto corrente è arrivato un bonifico di pagamento. Perde e riparte, in cerca di nuovi soldi da bruciare una volta nelle sue mani, di ogni tipo e provenienza. Accetta che vengano da lavori “poco puliti” di “smaltimento cadaveri”. Non disdegna la paghetta che ogni tanto la nonna “crede” di passare a suo figlio, è arrivato a vendere l’auto funebre scambiandola con un rottame che non tiene la strada, pur di raggranellare qualcosa. Perennemente “in botta”, per “fare il romantico” con la moglie sottrae gioielli direttamente dalle bare, prima di saldarle. Spesso, viene buttato fuori di casa.

Arto (Jari Virman), il sorridente e un po’ timido vicino di casa di Risto, di professione insegnante, ha da poco scoperto con una tac di avere solo il 15% di massa cerebrale. La notizia ha sconvolto davvero poco i suoi parenti e colleghi, che da quel momento hanno iniziato a prenderlo per i fondelli come se non ci fosse un domani. Forse Arto potrebbe morire da un momento all’altro, magari andrebbe curato, ma il “rischio percepito”, da chi gli sta intorno, è soprattutto la circostanza che faccia qualcosa di terribilmente stupido per via del poco cervello. Così Arto perde il lavoro alla scuola, con la stessa moglie che smette di cercare di avere un figlio con lui, per paura che esca stupido. Un giorno finisce buttato fuori di casa. 

Arto arriva così ad aiutare Risto nella sua attività “più o meno legale” di pompe funebri. È ovviamente un disastro, perché Risto appena viene pagato si brucia tutto al poker e i due finiscono sovente per dormire nel carro funebre, saltando i pasti. Ma in fondo il loro legame diviene qualcosa di molto simile ad una pur strampalata amicizia, un mutuo soccorso per sopravvivere insieme e forse sognare di cambiare vita, città, futuro.

La grande occasione arriva proprio dal posto più tetro, disperato e sbagliato in cui si potrebbe finire: un palazzo fatiscente dove una organizzazione malavitosa allestisce gare di roulette russa per aspiranti pazzi/disperati/suicidi, da trasmettere in diretta per gli scommettitori del dark web. 

I concorrenti della roulette russa sono di tutte le età e ceti, ma hanno tutti in comune il fatto di morire e dover essere “smaltiti”, esclusiva della nuova “impresa comune” di Arto e Risto. Facendo avanti e indietro tra il palazzone e una radura isolata dove far “sparire i giocatori”, con in tasca anche tanti bei soldi sporchi da bruciare al poker, i due iniziano a pensare che in fondo la roulette russa frutta davvero tantissimi soldi. Chi passa il primo turno vince 5.000 euro, il secondo sono già 10.000, il terzo 20.000 e poi si raddoppia, si quadruplica. Certo, si può pure morire, ma se Arto non ha il cervello magari il colpo potrebbe andare a vuoto.


Moooolto più cattivo e meno poetico del conterraneo Aki Kaurismaki, il bravo Teemu Nikki ci immerge in una commedia nera nerissima, “cinicissima” quanto a tratti davvero genuinamente divertente, anarchicamente libera di muoversi oltre ogni vincolo morale. 

È una commedia piena di persone che si sparano in testa, luoghi orribili ai confini della civiltà, persone incredibilmente “cattive”, quasi allergiche a ogni forma di empatia umana. Un deserto morale e materiale autentico, su cui (soprav)vivono e “lottano con noi” i due improbabilissimi, quanto tragicissimi, protagonisti di questa vicenda. Come ci insegna Fantozzi, dietro a ogni risata può celarsi una tenebra interiore profonda, una tragedia esistenziale senza fine, che può solo essere affrontata con un titanico, incosciente quanto fallimentare, “eroismo.” I nostri due antieroi vivono perennemente nelle prossimità dell’autodistruzione, sostenendosi a vicenda anche in modo commovente, ma senza mai dimenticarsi l’impegno/condanna di proseguire, a testa bassa, verso il loro piccolo e del tutto personale inferno. 

Risto è tragicamente crudele, per via di una ossessione per il gioco che di fatto lo controlla compulsivamente come uno schiavo, una “dipendenza/condanna” che forse ha echi ancestrali anche nella sua famiglia, ma che lui non è in grado di risolvere da solo. 

Arto si trova a essere tragicamente malato quanto tragicamente deriso, emarginato in quando “inferiore”, al punto da essere disposto a donare tutto se stesso, per una persona che riesca a vederlo, anche solo per un istante, come una “persona normale”. 

Sono entrambi per motivi diversi “schiavi” delle circostanze, instradati e compiere e ricompiere gli stessi sbagli, come criceti che non possono che continuare a correre sulla loro ruota. 

Pekka Strang e Jari Virman sono bravissimi nel rendere tridimensionali e credibili  personaggi che sono volutamente scritti per risultare “superficialmente” come macchiette, ma che, come il Fantozzi di Villaggio, racchiudono al loro interno qualcosa di umanamente più profondo, tragicamente universale. 

Testimoni di una  sofferenza che spesso “urla” più delle risate, lasciandoci indecisi sul poterci “divertire davvero” alla luce delle disgrazie di questi due poveracci. Il sarcasmo è però tanto imperante che alla fine, pur con un po’ di senso di colpa, il pubblico ride. Commedia e tragedia si mescolano e il risultato finale conquista, almeno quando confonde e aiuta a riflettere:  un po’ come avviene con i personaggi di Villaggio, un po’ come avviene con quelli di Beckett. 

Teemu Nikki si conferma un grande talento e la Finlandia crepuscolare e cinica di questo film saprà accompagnarci anche dopo la visione, scavando nelle angosce ma sapendo anche, al contempo, burlarsi di loro. 

Bravissimi gli attori, tempi comici/drammatici perfetti, una trama ricca di idee che prosegue senza intoppi fino alla fine, un senso di malinconia e amarezza forti, che si portano a casa forse più delle risate.   

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venerdì 19 luglio 2024

Non riattaccare: la nostra recensione del thriller psicologico di Manfredi Lucibello, con protagonisti Barbara Ronchi e Claudio Santamaria

Roma, periodo del Lockdown.

Una telefonata in piena notte trattiene sveglia, da un sonno impossibile e poi molto ricercato con delle pastiglie, la giovane interprete Irene (Barbara Ronchi). È Pietro (Claudio Santamaria), il suo ex che vive a Ginevra e non vede da sei mesi. Sembra confuso. Le dice che voleva solo sentire la sua voce e che ormai, per ogni altra cosa,  “è troppo tardi”. 

Le ricorda di quando hanno guardato l’alba insieme l’ultima volta, sul tetto della casa sul mare a Santa Marinella, in estate. Dai rumori di mattonelle smosse in sottofondo alla telefonata, Pietro sembra trovarsi proprio su un tetto, camminando quasi nel vuoto, con l’intenzione di gettarsi da un momento all’altro a fine chiamata.

La donna è preoccupata, ma sa che finché resterà in linea con Pietro, forse lui non potrà gettarsi. Se proverà a raggiungerlo, lui minaccia di ammazzarsi prima.

Irene lo intrattiene mentre con un altro cellulare prova a chiamare di nascosto il suo vicino di casa di Ginevra, che dice di non vederlo da giorni. Immagina allora che Pietro sia proprio a Santa Marinella, a un’ora di macchina. 

Prende l’auto e parte, di impulso. C’è poca benzina, il caricabatterie è rotto e il cellulare non ha molta autonomia. La donna non dispone di alcuna autocertificazione Covid o documento in caso la fermi la polizia, ha solo una carta di credito, zero contanti per una pompa di benzina automatica di vecchio modello, che prende solo pezzi da 20.

Farà il possibile per farsi bastare tutto, ingegnarsi e nel contempo, un po’ camuffando i suoni e rumori del viaggio, proverà a trattenere al telefono Pietro, tranquillizzandolo del fatto che quella notte rimarrà a casa, alla cornetta, solo per ascoltarlo.

Il ricordo di una vacanza in Spagna in cui Pietro ha preso troppo sole, il vestito che lei indossava nel loro primo incontro galante, le foto dei concerti insieme. Piccoli mattoncini di felicità che Irene, tra un problema logistico e l’altro, richiama all’attenzione del suo ex, pur di non perderlo.

Pietro vuole invece affrontare i lati bui del loro rapporto, a partire dal giorno in cui si sono lasciati in modo burrascoso e “per colpa sua”. Vuole parlare dell’incidente terribile che prima di quel giorno ha cambiato tutte le cose. Vuole raccontarle della insostenibile lama che lo trafigge ogni giorno, facendogli desiderare di gettarsi dal balcone almeno ogni dodici ore. Contate ossessivamente, ogni volta.

Le distanze si assottigliano ma gli animi sono del tutto lontani. Tutti gli imprevisti legati a quella partenza improvvisa e sfortunata si palesano uno dopo l’altro, trasformano il viaggio in una specie di corsa ad ostacoli, a tratti sadica e disperata, a tratti eroica. 

Riuscirà Irene ad arrivare in tempo?


Torna alla regia Manfredi Lucibello per un film che scrive insieme a Jacopo Del Giudice. 

Un piccolo ma interessante road movie, notturno e serrato, di 90 minuti, prodotto da Rai Cinema e portato in sala da I Wonder. Protagonista assoluta sulla scena la brava Barbara Ronchi, che vediamo per lo più alla guida della sua auto con un occhio alla strada e uno fisso sugli indicatori di benzina, carica del cellulare, distanza da percorrere sul navigatore. Concentrata come in un action hero anni '80 sul tragitto e i suoi possibili contrattempi, quanto “maternamente” intenta nel tenere viva la voce sconnessa, ossessiva e a volte petulante di Pietro, interpretato da un convincente quando a volte assillante Claudio Santamaria. 

Insieme, cercheranno di non giungere al tragico epilogo palesato fin dalla primissima scena, percorrendo una storia intima e quasi psicanalitica, a tratti simbolica e a volte pure felicemente declinata in più sequenze dall’animo action (che possono ricordare l’action Cellular con Statham).

Non riattaccare ci parla attraverso i due protagonisti del loro reciproco e implacabile “rimorso”, che cercano di intervallare saltuariamente con una debole, quasi latente, speranza di rimettere tutte le cose a posto. Il tono del linguaggio all’inizio appare volutamente concitato, criptico e irrisolto nella  narrazione: si cerca di dare voce alle pulsioni più che a personaggi, si danno voce alle azioni prima che alle intenzioni. Ma con il tempo, anche grazie a un felice slalom tra situazioni di tensione e pericolo, semplici quanto ben strutturate, avviene un lento ripristinarsi della comunicazione: dall’action passiamo alla anamnesi di una storia d’amore attraverso ricordi, foto condivise su whatsapp, necessari e non procrastinati momenti di autocritica, segni di reale vicinanza emotiva. 

Il rapporto pur precario tra i due ricomincia a fiorire, in un non-paesaggio reso ancora più magico e alieno dalla fotografia di Emilio Maria Costa. Tra le luci artificiali a bordo carreggiata, all’ombra di un cruscotto illuminato di blu,  la coppia in qualche modo (soprav)vive, legata al cordone ombelicale telefonico. Le strade sono deserte e sinistre come nel periodo covid. Ai margini del tracciato, uomini e animali estranei sporadici appaiono sempre fuori posto, quasi metafisici, a volte sinistri come a volte benigni. 

Pur se la produzione risulta di stampo televisivo, per  la tecnica da presa, la grande atmosfera,  le musiche curate da Motta e il montaggio, il film riesce bene a tenerci incollati alla vicenda. 

Questo nonostante per la maggior parte del tempo ci troviamo, di fatto, in un’auto guidata dalla Ronchi nel cuore della notte. Grazie a una pregevole direzione artistica, la strada con le sue luci, gallerie, curve e autogrill, riesce a  espandersi e dilatarsi, rotolandosi e ribaltandosi su se stessa. A volte può contrarsi o restringersi come momentanei balzi di umore legati alla emotività dei protagonisti. A volte diventa qualcosa di quasi organico, di vivo e pulsante, che invece riesce a dialogare proficuamente con loro, come il famoso filo rosso dì Kieslowski che “unisce le persone innamorate”.

Liberamente tratta da un libro di Alessandra Montrucchio, pubblicato da Marsilio editore, la pellicola di Lucibello riesce a tradurre  bene il racconto con il linguaggio cinematografico, costruendo con grande mestiere un'atmosfera unica e avvolgente. Tra i produttori risultano i Manetti Bros e in effetti in più momenti di Non riattaccare ci sembra di ritrovarci nel ristretto e claustrofobico, semplice e “brutale”, quanto narrativamente accogliente, ascensore di Piano 17

Non riattaccare è un piccolo film di 90 minuti, che racconta con gusto una storia semplice ma accattivante, avvalendosi di bravi attori e tecnici e di un ritmo che non perde un colpo dall’inizio alla fine. È il film perfetto per una seconda serata malinconica e solitaria, particolarmente consigliato a un pubblico amante delle trasposizioni Rai dei gialli Sellerio. Ci aspettiamo per Lucibello un futuro non lontano dagli eroi dei gialli di Manzini e Camilleri, ma siamo sicuri che se saprà assecondare la sua “anima notturna”, qui molto presente, potrà andare anche più lontano. 

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martedì 16 luglio 2024

Celebrity Wines: la nostra recensione del documentario di Giacomo Arrigoni, sui vip che producono il vino in Italia, presentato da Esmeralda Spadea

Il vino è da sempre un prodotto di punta del Made in Italy, corteggiato e ammirato in tutto il mondo, un vero fenomeno di cultura e costume, adatto a tutti i ceti sociali, adulti e piccini (specie nel Veneto, ma non solo). 

Per qualcuno nel vino risiede (forse) la verità: “in vino (forse) veritas”. Di fatto il vino spesso “connette”: passato e presente, padri e figli, famiglie e territori. 

Richiede impegno e dedizione, fiducia nella natura quanto nella tecnologia, passione infinita. Giacomo Arrigoni dà vita a un documentario sulle viti dei vip, che mescia, attraverso gustose interviste, vitigni e volti noti, storie personali e storie di vendemmie. 

Le domande sono poste dalla brava e solare Esmeralda Spadea e attraversano sogni e tradizioni, amori e ossessioni, ricordi, business ed eredità.

Il padre di Al Bano Carrisi, Don Carmelo, voleva il figlio insieme a lui a coltivare la terra, invece che pensarlo nella nebbiosa Milano degli anni ‘60, a cercare fortuna come cantante, in una casa in affitto di una periferia in cui non conosceva nessuno. Al Bano, anche portandosi dentro le canzoni di quel mondo contadino in cui era cresciuto, ha avuto successo, è tornato a casa tre anni dopo e come prima cosa ha prodotto, in quel di Cellino San Marco, il suo primo vino: il Don Carmelo. Un altro vino lo ha dedicato all’altra “radice” dalla quale è cresciuto, la madre, i suoi altri prodotti hanno preso nome dalla sua “Nostalgia” (Canaglia) e dalla “Felicità”, protagoniste e “figlie” assolute delle sue canzoni. 

Se il vino per Al Bano è un contatto diretto con la sua terra, per GianMarco Tognazzi il vino racconta suo padre Ugo: tra convivialità e supercazzole, grande umanità e generosità. Ugo ha sempre amato la buona tavola, offrire ai propri ospiti i suoi vini artigianali, mettersi ai fornelli e perfino farsi giudicare dagli amici (più crudeli) come cuoco, millenni prima di Master Chef. 

Ugo voleva che per i suoi ospiti dai suoi rubinetti uscisse, se non vino, almeno acqua frizzante. Si era fatto cosi convincere da un rabdomante che sotto casa ci fosse una sorgente acquifera minerale. Ha scavato per anni, per centinaia e centinaia di metri sottoterra, pur di trovarne una. I vini della tenuta, situata tra Lazio e Toscana, raccontano la grande goliardia dell’attore. I nomi sono “Tapioco”, “Come Fosse” e “Antani”, rievocando alcune delle battute più famose di Amici Miei, di fatto “nate grazie al vino” proprio in quella tenuta, nelle lunghe cene con gli amici. 

Per il pilota Jarno Trulli il vino è invece un ricordo di infanzia che può rinascere anche con la “tecnologia”: di fatto portando alla luce una tipologia di “amarone”, in un territorio che non lo ha mai contemplato, attraverso stanze a temperatura variabile, la cui origine è di fatto ispirata al raffreddamento dei motori delle F1.


Per Carlo Cracco e la moglie il vino è anche un lascito storico da riscoprire, come quando hanno provveduto a sanare un territorio per ripristinare un antico vitigno. Per Sting e la moglie Trudie, come anche per l’attore Ronn Moss e il giocatore di calcio Hernanes, il vino è un legame con un’Italia che è diventata nuova patria di adozione. Un luogo dove ritirarsi per stare in pace con gli amici, magari davanti a una tavola imbandita, sotto una quercia millenaria toscana. Un luogo dove trovare la calma, l’ispirazione e magari un nuovo ritmo, per una canzone o una poesia, ascoltando il vento che si fa largo tra le viti in un pomeriggio assolato. 

Il vino ha molte facce ed è interessante come l’enologo diventi spesso per i vip una specie di psicologico, confidente, amico. Si crea qualcosa di bello insieme, attraverso un’attesa che ricorda quella per un nuovo bambino. 

Peccato non si possa degustare i tanti vini protagonisti di questo film direttamente in sala, magari per entrare in maggiore comunione con il flusso di ricordi, colori e passioni nel quale veniamo coinvolti. 

Di fatto Giacomo Arrigoni dà vita a una pellicola che potrebbe davvero fare lustro di sè in una “sala attrezzata alla degustazione”, allargando quel concetto di “cinema legato anche alla eno-gastronomia“ che piano piano, tra sale-ristorante e sale-bar, sta riportando il cinema (anche) a una dimensione più attiva e partecipata, di “sottofondo” se vogliamo, un po’ come i vecchi drive-in in cui lo spettacolo era solo una delle componenti della serata. 

Se amate il vino e volete scoprire qualcosa di più su questo mondo, oppure se siete storiche fan di Ronn Moss, Al Bano o del “Profeta” Hernanes, Celebrity Wines è una piacevole pellicola distensiva e gentile con cui intrattenersi. Poco agitata, non mescolata.

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sabato 13 luglio 2024

Immaculate - La prescelta: la nostra recensione di un gustoso e nostalgico “spaghetti-horror”, per la regia di Michael Mohan, con protagonisti Sydney Sweeney, Alvaro Morte e Giorgio Colangeli

 


Italia dei giorni nostri. 

La novizia Cecilia (Sydney Sweeney) ha avuto la sua vocazione quando ancora era bambina. Di colpo, il lago di ghiaccio nel Michigan sul quale si specchiava tutti gli inverni, si è aperto sotto di lei. Soffocava sott’acqua e un attimo dopo era salva, grazie al Signore.

Padre Ferrari (Alvaro Morte) era invece già  un uomo di scienza, specializzato in biologia genetica, quando scoprì il senso più profondo nel quale si stava direzionando la sua vita. 

Cecilia e Ferrari, così diversi, si trovano un giorno entrambi in Italia, in un'abbazia costruita sopra antiche catacombe, sotto la guida del silenzio ma risoluto vescovo Merola (Giorgio Colangeli), per quello che sembra a tutti gli effetti un disegno divino. 

Ma da quello stesso luogo, che sembra all’esterno quasi un “paradiso”, dove tutto è ordinato e lucente, qualcuno ha da poco cercato di fuggire. Con disperazione e nel pieno della notte, dovendo infine arrendersi e soccombere. Quasi “sbranato”, da creature sinistre, vestite come suore ma con il volto velato di rosso. 

L’abbazia nasconde molti misteri, forse anche mostri e fantasmi. Alcune suore che hanno perso la connessione con la realtà confabulano nella notte, strappano capelli da cui ricavano piccoli feticci, si esprimono attraverso nenie sinistre. Le più giovani come suor Gwen (Benedetta Porcaroli) spronano Cecilia perché non prenda i voti e scappi nel suo Michigan, finché è ancora in tempo. Tutte si sentono osservate da qualcuno che si muove nell’ombra. 

Ma oltre le ombre c’è qualcosa di troppo importante da preservare, nascosto nella cripta del monastero: un chiodo proveniente dalla croce di Cristo. Cecilia prende i voti e una estasiata Madre Superiora (Dora Romano) la fa accedere al luogo di questa potentissima reliquia. Glielo porge dalla teca, direttamente tra le mani.

Cecilia perde i sensi, attraversa strani incubi. Poi al suo risveglio si scopre preda di nausea, vomito. Tra i conati perde sangue e denti. 

Padre Ferrari, il medico e il Vescovo si sincerano in un interrogatorio che la ragazza abbia rispettato il suo “triplice voto”: povertà, castità e obbedienza. Le parole sono convincenti quanto le analisi mediche e il fascicolo sanitario: i dati e la ecografia non mentono, si tratta di immacolata concezione.

L’apprendistato di Cecilia al monastero è ormai terminato. La bionda ragazzina del Michigan nelle celebrazioni viene vestita come la vergine Maria nell'iconografia sacra, celebrata pubblicamente con ampi inchini.

Da futura partoriente di un miracolo, non deve più occuparsi come le altre dei malati, dei panni e dei polli dell’abbazia: deve solo riposarsi, meditare, magari limitandosi a “galleggiare” nell’area termale di costruzione romana, magari in vista di un parto in acqua. 

Almeno fino a che qualcuna non cercherà di annegarla in quelle stesse acque curative, urlando che le ha rubato il suo destino. Almeno fino a che nel monastero non inizieranno a palesarsi sulle suore i segni di strane e antiche torture. 


Torna in sala il regista statunitense Michael Mohan, che abbiamo molto apprezzato nel 2021 per l’interessante thriller erotico/psicologico The Voyeurs, con protagonista sempre la bellissima Sidney Sweeney. 

Questa volta è una grossa coproduzione dal sapore internazionale, con rimandi e citazioni narrative anche alla saga di The Omen, ma che soprattutto, nella sua seconda parte, riesce ad affondare, gioiosamente quanto sarcasticamente,  in una estetica e uno splatter proprio dell’horror italico del passato. Quello più “expoitation”, di “genere”, fieramente esagerato quanto truculento, sexy, quanto dissacrante. 

La colonna sonora opera di Will Bates si presenta subito con sonorità squisitamente “vintage”, fiera matrice anni ‘70, quasi dalle parti di Riz Ortolani di Per amare Ofelia (1974). Ci sono scene con suore alle terme, tutte bellissime e coperte solo da lunghe camicione bianche, in un'atmosfera ammiccante come la Fenech di La bella Antonia, prima suora e poi dimonia (1972).

Abbiamo al centro della vicenda un prete affascinante quanto ambiguo, che indossa sovente guanti in pelle nera come gli assassini di Dario Argento, interpretato da un attore che si chiama “ Alvaro Morte”. C’è il grande Colangeli, che si cuce addosso il ruolo del meraviglioso quanto cinico prelato padre Merola, dallo sguardo vitreo, intenso quanto torvo, dalle parole aspre e inquisitorie. Il personaggio di Colangeli sembra uscire da un folk horror di Pupi Avati come La casa dalle finestre che ridono.  

La Sweeney è estranea in una terra sconosciuta e inesplorata, dove tutti parlano con lei gentilmente in inglese, ma di sottecchi si esprimono in un italiano spesso volgare, “lubrico”, in segno spesso di sdegno, se non esplicitamente erotico.  


La Sweeney è “sospesa”, solare, avvolta in un immacolato candore ancora infantile. Come per la Jennifer Connelly di Phenomena, il suo viaggio la porta verso la perdita dell’innocenza, quasi in vista del “cinismo”. Un “agnellino ma non troppo”, circondato da tanti lupi che non perdono troppo tempo prima di mordere, dilaniare o imprimere a fuoco marchi, sulla pelle umana, come su animali da macello. Bestie che comprendono solo il linguaggio di una violenza dal sapore medioevale, fondato in continue sottomissioni crudeli e martiri, rappresentati in modo spesso crudo, “analogico e senza fronzoli”, da trucchi di make-up che a suon di arti e lingue mozzate ricordano i lavori splatter di Stivaletti e Soavi. Ci sono anche “afflati Fulciani”, nella messa in scena di alcune “colluttazioni particolarmente violente”, quasi “cannibali”, con alcuni dettagli particolarmente trucidi che magari a un pubblico “più giovane” faranno pensare ai lavori di Bustillo e Maury. Il tutto vive in una scenografia da sogno, sospesa nel tempo, tra arte romana e gotica. Un mondo fatto di riti quanto di processioni coreograficamente ordinate, “meccaniche”, al di sotto del quale si estende un intero labirinto di catacombe e forse non solo.  

C’è molto “amore” per per l’ italico mondo cinematografico splatter del passato, un po’ come avveniva in Hostel 2 di Eli Roth, con lo stesso trasporto. Una gioia per i fan, qualcosa di strano e forse inspiegabilmente “divertente” per le nuove generazioni, che magari all’uscita della sala andranno a recuperare La Chiesa di Soavi o uno dei film sulle “madri” di Argento. 

La sceneggiatura di Andrew Lobel appare di consegua gioiosamente eccessiva quanto sopra le righe, volutamente quasi caricaturale nei suoi molti eccessi quando funzionale, perfettamente al servizio di uno spettacolo dal sapore speziato tipico dei migliori b-movie. 

Un film divertente in una estate calda. Che ci riporta dalle parti delle notti dello zio Tibia dopo il Festivalbar. Un perfetto e gustoso b-movie che ci riporta in un tempo passato. Festosamente fuori dal tempo, sanguigno e cattivo, eccessivo quanto liberatorio. Bravi tutti gli interpreti, meravigliosa la location e gli effetti, curiosa quanto trascinante la colonna sonora. 

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mercoledì 3 luglio 2024

Fremont: la nostra recensione della bellissima commedia psicologica di Babak Jalali, con protagonista la straordinaria Anaita Wali Zada, portata in Italia da I Wonder


Ci troviamo a Fremont, California, all’interno di un quartiere dove vive un grande comunità di afgani. 

Tutti si trovano lì dopo aver dovuto lasciare la loro terra e la loro casa con il ritorno dei talebani. Vivono “sospesi”, cercando di rifarsi una vita e accompagnando i bambini a scuola.

La notte, le stelle in America non stanno ferme come a Kabul. Continuano a spostarsi e questo porta molta inquietudine a tutti. La notte, la giovane Danya (Anaita Wali Zada)  ha bisogno di dormire, ma non ci riesce. Passa le ore a occhi aperti, sul divano, senza pensare a nulla, giusto ogni tanto alzandosi per fumare una sigaretta in terrazzo. 

Si sente “mediamente felice”, ma non dorme. Lavora a San Francisco, a un’ora da Fremont, in una piccola e simpatica impresa cinese che confeziona da due generazioni biscotti della fortuna. 

È addetta alla stesura della pasta e incartamento, al fianco dell’ormai inseparabile amica Johanna (Hilda Schmelling), che le propone di lanciarsi come lei in sempre più strampalati appuntamenti al buio. In genere l’amica descrive ogni incontro avuto come un mezzo disastro, non aiuta gli incontri galanti di Johanna il fatto che viva con sua madre in un piccolo appartamento, condividendo un unico letto 

Il principale di Danya è un tipo sempre allegro e propositivo, che durante la pausa caffè gli racconta ogni giorno di quanto sia bello dare un po’ di felicità con un biscotto, di come, a volte, a volte sia “la frase stessa contenuta nel biscotto a guidare la fortuna”. Lei non è che lo segua fino in fondo.

Dopo il lavoro, prima di rincasare, Danya si ritrova spesso in un ristorantino arabo a mangiare sempre lo stesso piatto e guardare una telenovela insieme all’anziano gestore, anche se ci sono spesso delle repliche. Non si capisce se per i due è più importante la telenovela o incontrarsi per parlare, ma sembrano avere un rapporto quasi padre-figlia. 

Certo, se solo riuscisse a dormire. Se solo le sue giornate non apparissero tutte uguali e sospese. Forse potrebbero esserle utili delle pillole per dormire, ma bisogna prima entrare in lista di attesa. Per tagliare i tempi Danya chiede al suo vicino di casa Salim, con cui condivide qualche sigaretta notturna, di passargli a scrocco il suo appuntamento dallo psicologo, previsto a breve ma a cui lui non ha nessuna intenzione di andare. 

È così che Danya incontra il simpatico ma stranissimo Dottor Anthony (Gregg Turkington). La ragazza non segue troppo i ragionamenti dello psicologo, similmente a come non segue troppo la filosofia del suo principale sui dolcetti della fortunata nelle pausa caffè. 

Il Dottor Anthony insiste per leggerle dei brani del libro Zanna Bianca, invitandola a ragionare sulle molte similitudini che lei dovrebbe avere in comune con la storia di quel cane. Non si parla di Fremont, ma della vita precedente della ragazza.

Il fatto di trovarsi in terra straniera, il fatto di aver vissuto sotto la guida di altre persone in situazioni tragiche. Piano piano emergono da Danya le ragioni profonde del suo malessere: uno stress post traumatico in piena regola, fortemente legate al suo pregresso lavoro di traduttrice per l’esercito americano in Afganistan. Lo faceva in quanto “un lavoro come un altro”, ma forse non la pensava davvero così, specie quando i talebani assalirono le basi, ci furono scontri e morti, e lei dovette scappare in America. 

Danya si sente fortunata per essere sopravvissuta agli attacchi alle basi, ma forse non è ancora pronta a commuoversi pensando al passato, sciogliendosi in un mare di lacrime alla lettura di Zanna Bianca. Forse come non è ancora pronta alla sua “nuova occupazione” nella fabbrica dei biscotti della fortuna.

Danya ha infatti avuto la s-fortuna si sostituire la addetta alla compilazione dei bigliettini fortunati, morta di vecchiaia e di colpo, con la testa riversa sulla tastiera in pieno orario lavorativo. Il capo ufficio è sempre propositivo e pensa che per il ricco vissuto di Danya la ragazza sarà in grado di creare bigliettini bellissimi. 

Solo le persone che hanno vissuto in modo intenso la vita possono comporre bigliettini memorabili. La ragazza, che ancora non si sente come Zanna Bianca, è confusa. Il suo primo componimento è “se cerchi la fortuna, è in un altro biscotto”. 

I seguenti non sono troppo meglio. Prova a scrivere dei bigliettini al suo posto pure il Dottor Anthony, ma sono cose decisamente criptiche e cervellotiche. 

Il titolare crede però così tanto in Danya e nel suo futuro da grande scrittrice di biglietti della fortuna: cerca di spronarla di nuovo. Le racconta che forse solo le persone felici possono scrivere buoni biglietti. Specifica che sono “davvero felici” solo le persone innamorate e non quelle stronze, che invece fingono. 

Forse prima di tutto Danya dovrebbe trovare l’amore, per poi comporre buoni messaggi per i biscotti. Ecco il colpo di genio, se vogliamo figlio anche delle ossessioni dell’amica Johanna. In un bigliettino della fortuna la ragazza scrive : “Danya, in cerca di fortuna” con in seguito il numero del suo cellulare. Viene incartato e spedito. Qualcuno lo riceverà. Avrà così un incontro al buio con la fortuna la nostra eroina? 

Forse.

Perché qualcuno risponderà a quel biglietto.


Che cos’è la fortuna? Che cos’è la vera felicità? Che cosa comporta il “sopravvivere”, di fatto perdendo parte della propria esistenza nel passaggio? 

Sono questi i temi esistenziali che scalpitano all’interno di una commedia psicologica dalla struttura impeccabile, gioiosamente divertente, intelligente quanto profondamente fresca, accessibile a ogni tipo di pubblico.

È un piccolo capolavoro di stile e scrittura il film in bianco e nero di Babak Jalali.

È una pellicola che diverte per come fa suo oggi il cosiddetto “sogno americano visto dagli stranieri”, di fatto richiamando satiricamente una visione a stelle e strisce ingenua, ordinata e accogliente, come quella dei film anni ‘50. 

È un film con battute e sketch fulminei, uno dopo l’altro, che a tratti ci fa pensare a Woody Allen e a tratti i film più divertenti e scombinati dei fratelli Coen.

È un film che si guarda con il sorriso stampato sulle labbra, sperando che anche la nostra protagonista riesca a ridere un po’ di più nella sua vita, di fatto affrontando quel vuoto emotivo che l’ha difesa dal dolore, ma che ora l’ha spremuta troppo di ogni emozione.

Ogni cosa è al suo posto, ogni interprete funziona meravigliosamente con gli altri, la trama cattura fin dal primo minuto e non abbandona fino alla fine, si vorrebbe non uscire dalla sala e vedere come vanno avanti le cose.

Fremont è un'esperienza cinematografica da provare, al punto che non voglio concedervi altri dettagli che forse potrebbero rovinarvi le sorprese della trama.

Andate al cinema e godetevelo come un biscotto della fortuna, ne vale la pena.

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lunedì 1 luglio 2024

Holy Shoes, Storie di Anime e Oggetti: la nostra recensione dell’interessante film di esordio di Luigi Di Capua, con Carla Signoris, Tiffany Zhou, Simone Liberati

Roma dei giorni nostri. 

Tutti vogliono le Typo3, perché sono “come e meglio” delle Air Jordan. 

Sono bianche, morbidissime, avvolgono il piede come un guanto aerodinamico, il top delle scarpe sportive. Costano 800 euro, ma se riesci puoi trovarle in sconto a 790, rigorosamente nei negozi del centro. Sono oggetti da mostrare, per gridare al mondo di “essere qualcuno”.  

Giulio (Simone Liberati), lo scombinato e insicuro papà divorziato del piccolo e insicuro Filippo, crede molto nella possibilità di affermarsi come rivenditore di scarpe di lusso, ma sulla sua strada incombono continue sfortune, fidanzate petulanti, rapper/influencer ingrati e il sempre presente biasimo paterno (Orso Maria Guerini, nel ruolo del padre generale).

Una partita consistente di Typo3, anche se contraffatte, potrebbe dare il via alla sua gloriosa carriera, ripianando i mille disastri che lo hanno fatto finire sull’orlo della bancarotta.

Mei (interpretata dalla brava Tiffany Zhou) lavora nel ristorante cinese paterno, sognando di poter volare in America, con la sua borsa di studio in ingegneria. Ma ha un fratello malato che abbisogna di cure specialistiche, un sussidio che non viene rinnovato per beghe burocratiche e troppi debiti che la incatenano a Roma. C’è un sito cinese che offre delle Typo3 quasi uguali alle originali a 40 euro. Con un po’ di fortuna potrebbe rivenderle per vere: truffare dopo essere stata truffata dalla vita. 

Filippo è un ragazzino di periferia che non riesce più ad andare a scuola e inizia a frequentare amici poco raccomandabili. È perdutamente innamorato della compagna di classe Maria: bella, gentile, che “crede in lui” e vive in una casa con piscina. Per cercare di fare colpo su di lei, Filippo può solo portarle delle Typo3, ma per fare questo dovrà come minimo rubarle o fare di peggio.

Infine ci sono Agnese (Isabella Briganti) e Luciana (Carla Signoris), due donne, vicine di casa, che non amano le Typo3 ma vorrebbero poter camminare ancora una volta con dei tacchi a spillo: sentendosi sensuali e femminili almeno per un ultima volta. Agnese, affascinante giornalista televisiva, non può più portare i tacchi perché a seguito di un incidente ha perso un piede, con la necrosi che inizia a salirle lungo tutta la gamba. Luciana da troppo tempo vive rinchiusa in casa, cercando di soddisfare le attenzioni del troppo assente e distratto Paride (Roberto De Francesco), che si lamenta anche quando la donna si mette sul volto un trucco leggero. Quando Agnese per la disperazione getta dalla finestra le scarpe, Luciana ne raccoglie alcune paia e prova con imbarazzo a indossarle. Sentendosi, dopo tanto tempo, ancora bella. 


Arriva al cinema l’opera prima di Luigi di Capua, uno dei membri del gruppo The Pills. 

Holy Shoes è un film strano, a tratti quasi psichedelico, che racconta al ritmo di una colonna sonora sincopata, una storia di ossessioni e tragedie che vanno a svilupparsi, in pochi giorni, in una spirale sempre più drammatica quanto imprevedibile. 

Le Typo3, le “scarpe sacre” a cui fa riferimento il tutto in inglese, sono fin da principio rappresentate  come un oggetto di indicibile fascino e potere occulto. Sono le protagoniste assolute della prima scena: dove le vediamo “sospese su uno sfondo bianco”, per alcuni secondi, con in sottofondo quelli che sembrano degli insistenti e aggressivi “cori satanici” (di fatto un brano corale molto simile a quello di una pellicola horror giapponese a tema “maledizioni”, The Invitation di Karyn Kusama). 

Un oggetto “quasi indemoniato” a tutti i sensi, degno del famoso n.5 di Dylan Dog, “Gli uccisori”, ma in grado di evocare anche la stagione anni '80 delle Timberland, quando in una specie di isteria generale c’erano persone che andavano in giro a rubare dai piedi le scarpe degli altri. 

Senza scarpe e per strada, a piedi nudi, in una città sporca, come in uno dei più classici incubi: l’incubo a cui si associano spesso in psicologia sentimenti di disagio, vulnerabilità e smarrimento. Chi non ha le Typo3, anche se ha ai piedi altre scarpe, in questo film si sente ugualmente vulnerabile e smarrito: fuori dalla società e dalla possibilità di crearsi un futuro. E se queste “scarpe mancanti” recano simbolicamente un disagio, i nostri anti-eroi, tutti amabilmente tragici, falliti e inconcludenti, cercando di sostituirle con simboli parimenti forti o quasi. Con delle repliche a basso costo, seppur grossolane, che permettano di “fregare il sistema”, senza diventarne complici/adoratori. Oppure con un’arma da fuoco o un bastone d’acciaio, i più classici “simboli spicci di potere”,  con cui sentirsi abbastanza forti da poter rivendicare le proprie scarpe con la violenza. Tra sogni infranti, istinti antisociali e pulp, il film di Luigi Di Capua ci getta così in una Roma nerissima, spesso notturna, spesso “imbambolata” davanti a vetrine scintillanti, con all’interno oggetti luccicanti come vitelli dorati. 

Holy Shoes descrive una società degradata, terribilmente vicina a quella odierna, in cui risulta drammaticamente ovvia la locuzione “essere è avere”. In fondo le Typo3 non sono diverse dalle pesanti catene d’oro con cui, oggi, si agghindano alcuni criminali: per certificare esternamente il loro valore umano, sulla base oggettiva della grammatura di quello che indossano. 

Ma “essere è avere”è anche l’interrogativo morale che si pongono i personaggi di Agnese e Luciana, in una linea “quasi più gentile” del racconto, ma che giocoforza va comunque ad intersecarsi nella storia principale, per uno “scherzo narrativo del destino”. La storia di Agnese e Luciana ci parla di femminilità negata, anche sulla sola base di negarsi di un oggetto tipico femminile, nella paura di poter raccontare, attraverso di quello, un modo di essere che si reputa “inaccettabile”per il proprio partner. La femminilità non può risiedere però “solo in un oggetto”, con conseguenze che diventano ugualmente tragiche quando la possibilità di indossarlo si rompe.


L’opera prima di Di Capua trova gli attori e gli scenari giusti per raccontare una storia unica nel suo genere, sicuramente “strana” quanto affascinante: una specie di “noir pop” sui sogni e bisogni di potere, all’ombra di una Roma mai cosi notturna, ruvida, violenta e “matrigna”. Un luogo dove dietro a ogni angolo più palesarsi un pazzo, un criminale o un ragazzino comune, che ha però bisogno di diventare per cinque minuti pure lui pazzo e criminale: per non sentirsi inadeguato e vulnerabile, come chi sogna di camminare scalzo mentre tutto hanno le scarpe. 

Ottima la colonna sonora, buono il ritmo generale del racconto, interessante la fotografia notturna e una costruzione narrativa che a tratti assomiglia al Babel di Inarritu. 

Di Carlo possiede senza dubbio un “tocco internazionale e cosmopolita”, che potrebbe portargli fortuna nelle sue future opere. Nuove opere che adesso non vediamo l’ora di vedere. 

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