martedì 21 maggio 2024

Back to black: la nostra recensione del film di Sam Taylor-Johnson ispirato alla vita di Amy Winehouse, con protagonisti Marisa Abela, Lesley Manville e Jack O’Connell.


Inghilterra di fine anni 90, dalle parti della periferia di Londra. È sera, c’è freddo e c’è aria di festa per via del Natale. In una piccola casetta di due piani in legno, con giardino, si ritrova una famiglia di origine ebraica. 

Tutti stanno intorno al piano per cantare e sanno cantare bene, come non avessero mai fatto altro per tutta la vita. Sono capitanati dalla nonna (Lesley Manville), un tempo star della musica blues che ha girato il mondo, ma sono anche incalzati dalla più piccola di casa, la riccioluta Amy (Marisa Abela). 

Ha una voce d’angelo e dopo un periodo tormentato e difficile sta diventando di colpo una delle più grandi cantanti di sempre: il suo primo disco ha iniziato a girare per le radio e la gente, spesso “troppa”, inizia a riconoscerla per strada.  

La musica unisce, ma appena la festa finisce c’è solo tristezza per la famiglia di nuovo divisa, con il padre tassista che deve riportare Amy dalla madre quanto prima, perché vivono da tempo separati. Vivono separati e incazzati uno con l’altra quasi da sempre.

L’idillio familiare e canoro è finito e non c’è molta gioia nel cantare ancora insieme, loro due, accompagnati dall’autoradio tra le vie di Londra. La mattina, nella piccola stanzetta rosa con mattoni a vista, con al centro un giradischi e intorno tanto disordine, non porta alla ragazza nuove ispirazioni o canzoni.  

Dorme vestita, ricerca allo specchio di imitare il trucco di scena da star del Blues della nonna, magari sognando di diventare felice e accogliente come la nonna. Le giornate proseguono uguali, Amy è contesa per spettacolo e contratto ma è a uno stallo.  

Non c’è troppa gioia nemmeno in sala prove, dove il nuovo manager invece di farla cantare cerca di dare una sferzata alla sua carriera troppo a rilento; proponendole pezzi “più leggeri”, invita a presentarsi sul palco senza chitarra al collo e magari studiandosi una coreografia come le Spice Girls. 

Propone di partire per l’America. 

Ma Amy non lo segue, si irrita, non sente di avere ancora niente di nuovo da dire. Ha bisogno dei “suoi tempi”. Non vuole fare la Spice Girl. Il suo primo album aveva come “musa” un ragazzaccio di nome Frank, “smontato e rimontato” più volte, attraverso tutte le canzoni che componevano il disco. Amy raccontava la sua passione, le sue aspirazioni e tormenti per Frank. La musica era nata forse proprio come “cura” dalla relazioni infelice con lui. Ma ora, nel bene e nel male, non c’era più nella sua vita un Frank. 

Amy sempre più arruffata, incasinata e incazzata, quasi dilaniata da ogni attuale interazione umana e perennemente circondata da fotografi impiccioni h24, si infila sgangherata, di primo pomeriggio, nel solito bar. Spera di alleggerirsi la testa come sa fare da sempre: con qualche birra e due o tre whisky. Ma ecco che al biliardo, con un sorriso infinito e occhi dolci, le appare quello che sarà il suo nuovo amore tormentato: Blake (Jack O’Connell).

È simpatico, è sfrontato. È profondamente lunare e instabile e forse in questo lei ci si rivede. Amy con lui potrà proseguire il racconto della sua “storia dopo Frank”, magari iniziando con l’inserire in scaletta nei concerti canzoni che deridono pubblicamente l’attuale ragazza di Blake, che pur non la prende benissimo. 

Il ragazzo si sente troppo “tirare dentro” e forse per questo inizia a tirare troppo, costringendo anche lei in questo ballo. La rinascita artistica di Amy segna allo stesso tempo tempo un cammino verso il baratro delle dipendenze e dell’amore tossico. 

Alle carezze e ai baci senza fine si alterneranno sempre di più calci e pugni, che vengono emotivamente “stabilizzati male” dai soliti alcolici, accompagnati nel menu dalla passione di Blake per le droghe. 

Blake e Amy, sempre più in un mondo tutto loro, inseparabili: “confusi e felici” a tempi alterni, più tra scazzottate che rappacificazioni. Il ragazzo ogni tanto stacca ma poi, consigliato dagli amici del bar, si ripresenta in cerca di soldi, appena vede che la compagna sta diventando sempre più ricca. Poi scompare di nuovo quando la polizia scopre che ha degli affari loschi e lo incarcera. Ma poi riappare. Riappare sempre ed Amy lo accoglie di nuovo come la cosa più bella e fantastica che le ha regalato il mondo, anche se tutti sanno che “lui le fa male”. 

Ai concerti quando vengono fuori le canzoni dedicate a Blake il pubblico fischia. 

Amy non lo sente. 

La coppia va avanti, pur costantemente vivisezionata sotto l’occhio chirurgico e cinico di un circo di fotografi sempre più invadente, quasi come quello di Lady D. Senza scrupoli, ridendo, i paparazzi non vedono l’ora di ritrarli insieme barcollare ubriachi per le vie di Londra. Fanno i salti quando vedono Amy confusa correre per le strade mezza nuda e coperta di lividi. Qualche volta, se sono fortunati, possono riprendere quel magico momento in cui lei vomita in un vicolo. Tutto materiale da prima pagina a uso e consumo dei cannibali emotivi che leggono il gossip.

Poi l’equilibrio di Amy subisce un altro duro colpo, che quasi spegnerà del tutto la sua voglia di vivere, portandola “Back to black”. 

Sarà forse un punto di rinascita. Sarà forse l’occasione per ripartire cambiando vita. Ma purtroppo saranno anche i suoi ultimi bellissimi brani che raccontano la sua vita.


Torna “la musica al cinema”, dopo la fortunata ondata del docu-film Bohemian Rapsody, proseguita con il musical Rocketman e giunta di recente all’Elvis di Baz Luhrmann, al One Love quasi “cristologico” su Bob Marley. 

Sono film che ormai stanno diventando tanti, un  “genere a sé” esplorato quanto i film dei supereroi che bene amplifica i sempre più frequenti documentari. 

Al cinema la musica piace, le pellicole  quasi sempre dimostrano di saper incassare gli onori di pubblico e critica, anche in questo momento di profonda crisi delle sale cinematografiche. Sono però film complessi, sfidanti, dove il talento di cast e interpreti è spesso centrale alla riuscita del prodotto. Back to Black punta ad essere un prodotto di qualità. 

La regia è stata affidata all’inglese Sam Taylor-Johnson, per gli amanti dei gossip sta insieme all’attore Aaron Taylor-Johnson dal 2009. È un'artista poliedrica che debuttava in sala nel 2009 con l’interessante e visionario film Nowhere Boy, ispirato alla vita di John Lennon. 

La Taylor-Johnson ha da sempre un forte legame con il mondo della musica. Nel 1990 realizzava un lavoro fotografico ispirato a John Lennon e Yoko Ono. Nel 2000 dipingeva un murales con rappresentate icone come Elton John e Alex James. Dal 1999 ha anche collaborato alla realizzazione di testi e musiche di tre canzoni per i Pet Shop Boys. 

La sceneggiatura di Back to Black è come per Nowhere Boy opera di Matt Greenhalgh. Anche lui è un esperto e amante della musica, nonché autore tra le tante cose di Control,  biopic sulla vita del cantante dei Joy Division, Ian Curtis.

Il comparto sonoro è stato affidato nientemeno che a Nick Cave e Warren Ellis, guru veri della musica moderna e a loro volta musicisti di grande fama. 

La fotografia, ricercata e piena di dettagli, è stata invece affidata alla Polly Morgan di American Horror Story, di A quiet place 2. È una fotografia che punta al realismo, quasi “documentarista”, senza fronzoli e diretta.

Come senza fronzoli sono le scenografie e le location, effettuate proprio in quella Londra periferica di Amy, tra la sua casa a Camden Town o il Ronnie Scott’s Jazz Club.

Un approccio al racconto di una vita “non pindarico”, che qualcuno può trovare perfettamente in linea con lo spirito della cantante. 


Non era certo facile trovare un'attrice che sapesse impersonare un animo complesso e sfaccettato come quello della Winehouse. Ancora più difficile trovare un’attrice che sapesse interpretare vocalmente ogni brano della Winehouse, senza che questo suonasse poco autentico. 

Marisa Abela, giovane promessa con alle spalle per lo più esperienze televisive in thriller politici, ex studentessa di legge con il pallino dei diritti umani, è stata un'autentica sorpresa uscita dal cappello dell’ufficio casting, dopo molti provini. La Abela canta in modo splendido e riesce bene a incarnare le mille fragilità e contraddizioni di un'artista complicata, profondamente emotiva quanto malinconica.

Jack O’Connell è anche lui un giovane attore, diventato famoso per l’horror Eden Lake e di recente tra gli interpreti del Ferrari di Mann. Blake ce lo descrive come un uomo perennemente sul baratro, gentile ma al contempo cinico, come affetto da un senso costante di inferiorità che sfoga con rabbia e abusi vari. 

La Abela e O’Connell riescono al meglio a portare sulla scena il balletto autodistruttivo cui vanno incontro i loro personaggi. Una voglia di amore che si fa dipendenza, quasi a voler disperatamente colmare le rispettive insicurezze. Una relazione dolorosa che attraverso la musica Amy “sublima e rielabora”: trasforma in arte e medicina. 

La sceneggiatura predilige nella descrizione di ogni relazione la sintesi, dura e a tratti quasi distaccata. Non c’è traccia di “romanticherie o melodrammi”, è tutto spontaneo quanto brutale, quasi documentaristico, in perfetta linea con le scelte di fotografia e scenografie.

Più un'autopsia che un racconto. 

Poi però c’è la musica, che va a integrare ogni vissuto come autentica colonna sonora emotiva. È una musica (il film ha i brani sottotitolati) che riesce a dialogare apertamente con la trama, dando voce all’ironia e al sarcasmo quanto alla passione e alla ragione. È una musica che “colora di empatia” quello che, in molti tratti, può sembrare altrimenti un film di zombie in bianco e nero, dove i nostri anti-eroi, dolenti e confusi, si trascinano per le vie di Londra perennemente esposti ai morsi cannibali degli obiettivi fotografici. 


La Taylor-Johnson ci parla certo della “fama” cattiva quanto artisticamente meritata della Winehouse, ma al contempo ci parla della “fame” di vederla cadere nel fango. Ci parla della gioia cattiva nell’osservare la distruzione umana ridicolizzandola. Ci parla del piacere quasi erotico di sentenziare “questa vita orribile se la è meritata tutta”, quasi rispondendo così al titolo della sua canzone “You know I’m not good?”.

La Taylor-Johnson guarda dritta negli occhi l’ipocrisia umana da “gossip di terza categoria”, che ha di fatto rovinato tutta l’esistenza della Winehouse, non facendo sconti. Ci sono fotografi-zombie per ritrarre il momento in cui Amy riaccoglie il suo amore appena uscito dal carcere. Ci sono dietro ogni giraffa dello zoo di Londra. Ci sono per le strade a riprenderla svenuta nel vomito, senza curarsi di chiamare un’ambulanza. Godono nell’insultarla fino a ricevere in cambio una sua reazione violenta: per confermare che è una poco di buono. 

Ma appunto c’è la musica, che risiede su un “piano superiore di conoscenza” come le tecniche yoga, di cui la regista è una attiva sostenitrice e praticante. 

La musica, nel suo esercizio e composizione, “cura l’anima”: al punto che Winehouse/Abela lo esplicita diverse volte all’interno della pellicola, descrivendola come un “farmaco salvavita”. È forse questa la chiave di lettura più interessante di Back to Black, oltre alla possibilità di ascoltare al cinema le bellissime canzoni della Winehouse, interpretate con grande trasporto e competenza all’interno di un ottimo comparto tecnico. 

Sam Taylor-Johnson realizza un film che seppur nella sintesi del linguaggio cinematografico, che omette e semplifica molti passaggi della biografia della cantante, riesce ad apparire struggente e intenso, molto ben recitato e confezionato.

Il lavoro di Nick Cave è davvero pregevole, Marisa Abela regala una performance recitativa e canora di altissimo livello, la Londra delle periferie non è mai apparsa così vivida e “livida” in tutte le sue sfumature. È un film che commuove e fa riflettere, senza risultare per forza patetico come spesso capita per i prodotti di Hollywood. E’ un film che sa fare critica costruttiva anche alle regole al mondo che gira intorno allo star system, anche con una certa dose di coraggio e incoscienza.

È soprattutto un film che rende un ottimo servizio alla cantante, facendo venir voglia di tirare fuori i dischi di Amy Winehouse appena giunti a casa dopo la proiezione. 

Back to Black è un buon film che rende un dignitoso omaggio a un'artista unica nel suo genere. Che già ci manca tantissimo. 

Talk0

mercoledì 8 maggio 2024

The Fall Guy: la nostra recensione del nuovo film action di David Leitch, con Ryan Gosling ed Emily Blunt, sul “supereroistico”mondo degli stunt-men

Siamo all’interno del grattacielo panoramico dove si tiene il famoso Comicon di San Diego, nel 2019. 

Si stanno tenendo le riprese più spettacolari di uno dei film più attesi al botteghino. 

Il biondo e atletico stunt-man Colt (Ryan Gosling) è chiamato a rigirare una scena particolarmente complessa in quanto l’attore principale della pellicola, il precisino e vanitoso Tom Ryder (Aaron Taylor Johnson), ritiene che nella sua performance abbia sfoggiato una inopportuna “faccia a patata”. 

Colt, professionalissimo, si avvia verso la sua postazione, il punto più alto del palazzo. Sale ascensori, scale di metallo e carrucole, fino a giungere su una specie di cornicione, a centinaia di metri dal suolo. Nel frattempo si intrattiene al telefono con l’assistente alla regia, la bionda, romantica e talentuosa Jody (Emily Blunt), con la quale di recente ha una bella storia. 

I due parlano in modo intimo e rilassato, ridono e sognano di prendere insieme un weird margarita davanti a una spiaggia assolata e poi tuffarsi nell’oceano, mentre Colt viene imbragato a  funi e micro telecamere per un altro genere di tuffo. 

Una gru a comando remoto è pronta a gestire la caduta dello stunt-man per la scena clou: una caduta nel vuoto drammatica quanto spettacolare (simile a quella di Last Action Hero), sperando che questa volta nell’accelerazione e pericolo di rottura di tutte le ossa, in caso di contraccolpo, il nostro riesca ad apparire in volto “meno a patata”.

Un ultimo sorriso.

Tutto è pronto. 

Il volo. 

Buio.

Diciotto mesi dopo Colt non si è ancora ripreso dalla terribile caduta del Comicon. Ha mollato tutto e tutti, pure il suo lavoro al cinema. 

Vive con la barba lunga e vestiti appiccicaticci in un appartamento incasinato tra birre e cartoni della pizza, fa il parcheggiatore. Non è più riuscito a sentire Jody, il suo mondo era troppo cambiato, sentiva che “la corazza” era rotta. Di fatto la sua caduta è diventata qualcosa di virale e c’è gente che per strada chiede di farsi delle foto con Colt, proprio in ragione a quello stunt finito male. 

Ma ecco la svolta: la sua manager Gail (Hannah Waddingham, vista nella serie Ted Lasso) gli proporne il nuovo film di Tom Ryder.

È un post apocalittico da girare in Australia, davanti alla Opera House, tra auto truccate alla Mad Max, astronavi giganti in computer grafica dietro un Blue screen, costumi in gomma piuma di alieni armati di aggeggi che sembrano chitarre laser e una grande storia d’amore interspecie umano/aliena. 

Colt vestirebbe, da controfigura, il cappello e i panni color oro glitterato di un cowboy spaziale, in scene di combattimento con pistola e fucile laser finto, inseguimenti in auto, salti e sportellate sulle dune. Lo stunt-man ufficiale già attivo sul progetto ha avuto dei problemi, solo Colt può sostituirlo all’ultimo minuto e c’è un altro motivo irrinunciabile per partecipare al progetto, di fatto l’unico motivo che risvegli l’attenzione di Colt per questo lavoro: è il primo film di Jody da regista e se le cose andassero male sarebbe pure l’ultimo. 

Lui l’ha persa di vista per qualche mese e lei ha fatto carriera, richiedendo  espressamente la sua presenza sul set come unica persona che può “salvarla”, il suo moderno principe azzurro. E allora Colt parte, si sottopone ai soliti preliminari motion capture del volto per gli effetti speciali ed è subito sulla scena, al volante di un'auto post apocalittica. È una scena di massa a base di esplosioni multiple rosso magenta su sabbia dorata. È  “vecchia scuola”, con quasi zero post produzione e solo professionisti e cameraman presenti lungo un tracciato con annesse cariche esplosive a timer, tutta gestita dall’amico e coordinatore degli stunt-Man, l’enorme ed enciclopedicamente competente Dan (Winston Duke).

Colt dà il meglio di sé mentre nulla sembrava girare per il verso giusto e viene portato in trionfo da tutta la crew, ma Jody si accorge di lui quasi per sbaglio, perché ha quasi demolito una telecamera di scena. Lei non sembra neanche capire perché lui sia lì. 

Per prima cosa deicide di “vendicarsi” per il fatto che lui non l’ha richiamata in tutti i mesi in cui lo stunt-Man è scomparso: lo sottopone più volte a una scena in cui lui viene ricoperto di benzina, incendiato e lanciato contro a delle rocce appuntite. I due piano piano si riappacificano, si scopre che c’è solo Gail dietro l’ingaggio, ma Gail ha una nuova richiesta urgente e drammatica per Colt, che poi è il vero e unico motivo per cui lo ha voluto in Australia nel giro di poche ore: deve trovare Tom, il grande attore. 

Sparito da ore, nessuna presenza nella sua stanza d’albergo di lusso, telefono staccato. Tom è solito fare la vita esagerata e piena di eccessi da star e frequentemente si caccia nei casini tra locali notturni, vizi e stravizi, soldi e donne. Colt in passato si è già occupato di salvare Tom da strane situazioni ed è l’unico che può ora risolvere la questione senza che la polizia o la produzione intervengano, bloccando tutto e facendo perdere l’ingaggio a cast e troupe. 

La vita del film è appesa a un filo.

Colt “indaga” nel sottobosco di Sidney, tra sedicenti amanti armate di katana, spacciatori tatuati di droghe che ti fanno vedere unicorni, criminali da cabaret e mercenari sorprendentemente bene armati in grado di mascherarsi da netturbini (come in Commando). Di giorno Colt gira con Jody le scene di un film action e ogni tanto ascoltano insieme nel van delle canzoni di Taylor Swift. Di notte e nel tempo libero Colt “vive” in un film action alla ricerca di Tom e ad ogni angolo sembra palesarsi una nuova minaccia e grandi esplosioni. 

Riusciranno Colt, Dan e il “cane stunt-Man” di nome Jean Claude a salvare la pellicola? Riuscirà Colt tra un'autocombustione e l’altra a spiegare a Jody perché non la ha richiamata negli ultimi mesi?


Il guru degli stunt-man David Leitch, dal 2017 anche acclamato regista action dopo opere come Deadpool 2 e Atomica Bionda, torna in sala a pochi mesi dal divertente Bullet Train

Dirige questa volta un film scritto da Drew Pearce, l’autore di pellicole action moderne come Hotel Artemis e Mission Impossible Rogue Nation, che in questo caso va alla ricerca di qualcosa di più “vintage”, quasi in controtendenza. 

Il plot è infatti liberamente ispirato a una serie tv anni '80 scritta della leggenda Glen A. Larson (Magnum P.I., Battlestar Galattica), con protagonista la star Lee Majors, il famoso interprete anche de L’Uomo da sei milioni di dollari, che qui compare anche in un piccolo cameo. 

L’idea che gli “addetti ai lavori del cinema action” possano essere di fatto “autentici action hero”, in grado di contrastare minacce reali una volta usciti dal set, ha permesso a Larson all’epoca di creare situazioni molto divertenti e autoironiche, pervase di quell’umorismo anni ‘80 giocoso e proprio anche dei film come Cannonball  con Burt Reynolds. 

Pearce, gioca anche lui con travestimenti ed esplosivi colorati, effetti speciali e trucchi visivi. Non si distacca dalla cifra ingenua e goliardica del modello, pur aggiornando leggermente la ricetta sulla base di pellicole successive come FX-Effetto Mortale, la serie tv Jean Claude Van Johnson, Tropic Thunder e se vogliamo anche il recente C’era una volta a Hollywood di Tarantino. Proprio la pellicola numero 9 del regista di Pulp Fiction sembra avere, sul lato della caratterizzazione dei personaggi, molti collegamenti interessanti con questo Fall Guy, in modi anche sorprendenti. 

C’è un po’ dello stunt-man di Brad Pitt (che ricordiamo come l’ideale “fratello buono” dello stunt-Man Mike di A prova di morte) nel Colt di Gosling. Entrambi guardano il mondo in ragione di quanti colpi sono pronti a parare e restituire, entrambi non hanno problemi a muoversi a diversi metri di altezza come fossero dei gatti. Possono affrontare a mani nude, alla pari, “qualcuno del loro livello”: quando per “loro livello” può intendersi anche Bruce Lee. Possiedono la innata capacità di rispondere istintivamente alle minacce anche in stato catatonico o da sbronzi, alla Jason Bourne

Quello che invece sta al di sotto di questa corazza, quasi “Nietzschiana”, rimane misterioso, interessante da indagare quanto potenzialmente pericoloso, fragile, irrisolto. Passando dagli stunt-man agli attori, c’è un po’ dell’egocentrismo sgangherato e infantile dell’attore semi-fallito interpretato da Di Caprio, nel Tom di Aaron Taylor Johnson. 


Sono entrambi “creature” in grado di commuoversi visceralmente per una loro performance, anche se atroce, quanto nel mondo reale arrivare a vette di cinismo e vigliaccheria inaspettate. Grandiosi solo di facciata, di fatto bambinoni che non sanno assumersi le proprie responsabilità. Forse solo genuinamente “infantili”, ma con riserve inquietanti. 

Tanto in C’era una volta a Hollywood quanto in Fall Guy compare al centro della scena e della vita una donna bellissima. È una musa e forse un sogno a occhi aperti, in qualche modo rappresenta “la settima arte”, il cinema stesso in tutta la sua magia e ingenuo stupore. 

Per Tarantino c’era l’attrice forse simbolo del sogno e poi disillusione di Hollywood, interpretata con tanta ingenuità quanta solarità dalla bellissima Margot Robbie. Per Leitch c’è una sorprendentemente timida Emily Blunt, che ricordiamo in ruolo decisamente più “risoluti”, nella parte di questa regista “gioiosamente nerd”, adolescenziale quanto romantica. 

Jody ci ricorda che dietro ad ogni action movie, anche quello più sgangherato e sopra le righe, c’è la voglia di rappresentare una favola semplice, il bene contro il male: l’amore che come valore vince su tutto. 

È una semplicità ricercata, spesso come sinonimo di “spettacoli senza troppe pretese narrative”, ma che si può fare comunque “epica”, attraverso la sicurezza dell’eroe/stunt-man nell’affrontare le concitate scene d’azione a cavallo di auto veloci, astronavi e alieni armati di chitarre/mazze/fucili-laser. È una semplicità che altrettanto velocemente che può diventare allo stesso tempo “grottesco”, quando un attore, come Tom, per incapacità o superbia, non riesce a cogliere il profondo bisogni di leggerezza e sospensione dell’incredulità che si cela dietro a ogni battuta del suo personaggio: di fatto lo stesso “eroe” che condivide sul palco con lo stunt-man  . 

È così, per un meccanismo del tutto meta-cinematografico, che gli stunt-man possono assurgere quasi al ruolo di principi azzurri moderni. Elevando a volte anche pellicole che hanno poco di elevato. È questa la “magia”, che nella pellicola si carica spesso di autoironia.

Leitch “ci crede”, forse perché prima di tutto lui è davvero uno dei più grandi esperti di stunt viventi. Ci crede così tanto che tiene l’asticella dell’azione sempre molto in alto, andando a costruire coreografie tanto sontuose e innovative quanto affettuosamente citazioniste. In questo senso diventa un altro personaggio chiave della meta-narrazione il divertente Dan di Winston Duke: che prima di compiere una determinata azione o mossa speciale action, in un combattimento reale, “cita” enciclopedicamente la fonte di riferimento. Il colpo d’ascia de L’ultimo dei mohicani, un calcio alla Matrix, un supplex tipico di Dwayne “The Rock” Johnson. Tutto ha una sua derivazione codificabile secondo il grande libro degli stunt-man e del cinema action, quasi parlassimo di una estensione “credibile” delle arti marziali. 


Ma le citazioni per Leith abbracciano davvero tutto, la scena come la scenografia, la fotografia come le musiche. 
Da un ambiente alla Mad Max passiamo agli acquari che esplodono di Arma Letale, agli inseguimenti con auto che progressivamente si rompono di Beverly Hills Cop

C’è l’epico fantasy “plasticoso e al rallenty” alla Snyder nelle sequenze nel deserto, c’è 48 ore nelle scene tra i Night club. C’è un tocco di Die-Hard e c’è un cane fantastico, che “si mangia” il film meglio di Turner il casinaro e il pastore tedesco di John Wick 4.  

Tutti sembrano essersi divertiti anche a solo a girarlo. 

Un Gosling, in cerca di leggerezza dopo le prime fasi “cupe” della sua carriera, si lancia muscolarmente e ironicamente a capofitto in un ruolo alla Ryan Reynolds, senza però sacrificare troppo la sua vena malinconica, quella di La La Land, che riesce comunque a fare qua e là capolino. Aaron Taylor Johnson continua il suo percorso da “Bad Guy”, di fatto rappresentando tutto ciò che non era in Kick-Ass con tonnellate di ironia e autoironia. Pure Emily Blunt ha voluto per lei delle coreografie di combattimento e le affronta con grande impegno.     

Fall Guy è un enorme parco giochi con all’interno un mare magnum nel quale ogni appassionato di action può dolcemente naufragare. È uno spettacolo carico di azione e sovraccarico di mille dettagli da gustare a volte frame by frame, un film leggerissimo quanto pieno di amore. È un film che oggi, per una volta, non si prende mai, mai sul serio, con il rischio concreto che i fan dei “film seriosi” un po’ non lo capiscano, ma vale la pena tuffarcisi dentro comunque. Nel migliore multisala con schermo panoramico e impianto sonoro ultra: per guardare appieno i botti e le esplosioni, per ammirare i magnifici balletti action e ironia che contiene e elargisce a piene mani. Il top per divertirsi senza pensare a nulla per un paio d’ore, totale libera uscita, tra pop corn e patatine. 

Talk0

martedì 7 maggio 2024

Come Fratelli - Abang e Adik: la nostra recensione della struggente opera prima scritta e diretta del talentoso Lay Jin Ong, con protagonisti Wu Kang Ren, Jack Tan e Serene Lim


Malesia. In una Kuala Lumpur dei giorni nostri, tra i cantieri loschi dove lavorano i clandestini e gli ambulanti del mercato della frutta e verdura, vivono i giovani Abang (Wu Kang-Ren) e Adik (Jack Tan). Abang, il più grande, è magro e riservato. Ama cucinare e riordinare le cose, è un lavoratore instancabile e un uomo dall’animo gentile e generoso. È muto, forse dalla nascita, ma riesce benissimo a farsi capire a gesti o grazie al campanello di cui ha munito il suo carrello della frutta fresca, con il quale riesce sempre a farsi largo nel mercato. Adik è più giovane, disordinato, attraente e dall’animo tormentato. Ha più volte cercato un lavoro onesto, ma alla fine, alla costante ricerca di denaro, è caduto tra le maglie della malavita, finendo anche con il prostituirsi. 

La “strada” li ha fatti incontrare per caso. Abang orfano senza documenti di identità che gli permettano di accedere a una vita migliore, a causa di un terribile incendio. Adik in fuga dalla sua stessa famiglia, (in)felice di vivere in clandestinità.

Si sono conosciuti da bambini girovagando nello stesso quartiere, tra poveri e clandestini che li hanno accolti nella loro grande e unica famiglia. 

Condividono da sempre lo stesso locale abitativo di due stanze e lo stesso letto, si raccontano ogni cosa, mangiando e ricucendo i loro vestiti usurati, raccogliendo in una scatola di latta le poche banconote, tirando a campare uniti, come fratelli.

Ogni volta che in tavola arrivano le uova sode, con un rituale buffo tutto loro ne rompono il guscio, “facendo toc toc”, uno sulla fronte dell’altro.

La “mamma” che la strada ha trovato per loro è la dolce transessuale Miss Money ( Tam King-Wan), ma gli anni passano e ora lei è troppo anziana per continuare a vivere in quel posto, nonostante faccia fatica a staccarvisi. 

Una giovane assistente sociale, Jia En (Serene Lim), sta cercando di occuparsi attivamente della zona come di Abang e Adik, anche forzando la macchina burocratica a operare meglio, ma l’iter per ottenere nuovi documenti sembra interminabile e i “muri di gomma” che deve abbattere sembrano non finire mai. All’ombra dei ricchi palazzi e delle luci del centro, il piccolo bilocale decadente ma accogliente di Abang e Adik, si fa sempre più stretto e spoglio. 

Il vecchio e claudicante ventilatore non riesce più a mitigare l’estate più calda di sempre. La partenza improvvisa di amici e amori si fa sempre più rapida e soffocante. Gli animi andranno a ribollire e forse a dividere la strada comune di Abang e Adik per sempre. 

Succederà qualcosa di brutto e irrimediabile. 

Ma il destino può davvero dividere due fratelli? 


Dopo essere stato il vincitore indiscusso della edizione n.25 del Far East Film Festival (2023), arriva in tutte le sale italiane 
Come fratelli, l’opera prima di Lay Jin Ong.

Nella presentare la sua opera, il regista racconta di come nella sua terra, la Malesia, la condizione di non avere dei documenti di identità sia un problema ancora diffuso, in grado di colpire migliaia di persone. Senza un'identità, difficile da ottenere perché manca di fatto una coordinazione efficace tra gli apparati burocratici periferici e centrali, non si può accedere agli ospedali come ai servizi pubblici, non si può trovare un lavoro regolare e pagato, non si può vivere in un appartamento se non in modo abusivo. 

Esposta costantemente al rischio degli sgombri e delle carceri, questa “umanità diseredata” è finita con il vivere nelle periferie, creando un “mondo a parte” sempre più complesso e ramificato, dove convivono con fatica, ma anche altruismo e solidarietà, decine di etnie diverse.

È un mondo di grandi palazzi fatiscenti pieni di camere strette, travolto da mille colori e sapori, lingue e culture. Una piccola gioiosa Babilonia, ma anche un mondo molto rischioso, di cui si avvantaggiano i più avidi e i più forti. Che sia per trovare forza lavoro come nuovi disperarti da taglieggiare, la delinquenza, che spesso abbraccia la corruzione della polizia, può decidere da un momento all’altro chi vive e chi muore.

Tutti sono in perenne scacco e scoppiano in un lampo guerre tra poveri.

La “macchina sociale del futuro”, rappresentata simbolicamente dal personaggio “tragico quanto volenteroso” della brava Serene Lim, ancora non è in grado di essere efficace, risultando presto causa esterna di ulteriori dolori.  

Le figure di riferimento della comunità, come la struggente Miss Money di Tam King-Wan, progressivamente “spariscono”.


Tra i “giovani senza documenti” c’è Abang; si “adatta”, fa ogni lavoro a testa bassa, non protesta o alza la voce. Abang si comporta da perfetto ingranaggio sociale, ma in fondo non crede quasi più al motivo per cui dovrebbe continuare a vivere in questo mondo-prigione. 

Poi ci sono quelli come Adik, che provano a cambiare il loro destino, finendo per scavarsi la fossa da soli. Di fatto sembra che inconsciamente rifiutino con tutte le forze di dare nuovamente fiducia a una istituzione-matrigna (comprendendo nella definizione la prima delle istituzioni, la famiglia), che da sempre li ha emarginati.

Non ci sono vincitori né terre promesse o felicità da raggiungere, nella simbolica “guerra sociale” che si estende lungo tutta la pellicola. Ogni “prova di sentimento” si avverte con malinconia e rimpianto, nella sfiducia assoluta che questo possa ripetersi. 

Ogni momento di ilarità e tenerezza, a volte quasi ritualmente auto-imposto, è fugace; poco più di una boccata d’aria in attesa di affogare di nuovo nel pessimismo cosmico imperante. Anche il richiamo a una comunità melting-pot ricca e inclusiva, con assonanze felici anche al cinema di Ozpetek, non è che una piccola nota di colore al grigiore emotivo che bene rispecchia un grigiore istituzionale: uno Stato che con ricalcata indifferenza, considera l’empatia alla stregua di un crimine, non guarda più ai cittadini e ai loro bisogni.

Si può voler bene a tutti questi “dimenticati” e al modo, anche eroico, con cui affrontano il loro destino. Si può parteggiare anche con chi, pur ingenuamente, cerca di cambiare le cose ma non riesce ad arrivare alla fine della sua “missione salvifica”. Tutti gli interpreti sono davvero bravi e convincenti, dando voce a personaggi comuni, spontanei quanto sfaccettati, spigolosi e a volte contraddittori, profondamente e fallacemente “umani”. Umani e ricchi di sfaccettature come lo sono i vicoli e le strade di questa periferia sovraffollata e sovraccarica di ogni tipo di oggetto e cultura. 

Certo non si fanno sconti e non ci sono finali adatti a un pubblico assuefatto da visioni favolistiche stile “e vissero felici e contenti”. Non c’è traccia di “American Dream” nella Malesia realistica e quasi psicotica che ci racconta il regista. 

Con il suo film, Lay Jin Ong ha prima di tutto voluto veicolare un forte messaggio politico: la sua pellicola è un atto d’accusa diretto alle istituzioni, con la preghiera di intervenire per salvare da una “rovina annunciata” i molti Adik e Abang che vivono e sognano un futuro nelle periferie. È un film per stimolare un forte cambiamento sociale, realizzato con tutta la passione e potenza che il cinema può dare nel veicolare questi messaggi.

Ci è piaciuto molto.

È un film molto tragico ma anche vitale, genuino, davvero imperdibile. 

Talk0

lunedì 6 maggio 2024

Coincidenze d’amore (What happens later): la nostra recensione della commedia romantica scritta, diretta e interpretata da Meg Ryan, con co-protagonista David Duchovny, adattamento della piece teatrale Shooting Star di Steven Dietz


In un cielo notturno e freddo, due fiocchi di neve calano dalle nuvole, sospinti dal vento in  traiettorie autonome che infine li incastrano uno con l’altro. Iniziano una danza avvolgente, quasi un valzer. Vorticano sempre più veloci e infine si respingono. Continuano il loro volo in caduta, verso le luci fioche di un aeroporto americano dei giorni nostri. 

Di nuovo si incrociano, ballano, forse si amano, ma poi si allontanano di nuovo. 

In costante moto centrifugo e centripeto, simili a questi fiocchi, sono anche due passeggeri in attesa. In attesa di prendere un aereo per ricominciare anche loro a volare, mentre ora vagano stanchi e un po’ annoiati tra i sedili della sala d’attesa. 

Più volte intimi, ma al contempo destinati a tornare ciclicamente distanti, Bill (David Duchovny) e Willa (Meg Ryan), si trovano di nuovo insieme per caso, dopo dieci anni, dopo la fine “confusa” della loro storia d’amore e di tante altre cose. 

Lui è un uomo sulla sessantina, ancora atletico e impeccabile in completo scuro, brizzolato e inamidato, trolley di classe. La voce calda, compassata e calma, mentre risponde pur meccanicamente al telefono. Vaga tra le poltroncine, alla costante ricerca di una presa di corrente per il caricabatterie del cellulare, determinato a collegarsi a costo di dover spegnere l’insegna elettronica di una pubblicità dell’aeroporto. Nelle cuffie e tra le mani, dei manuali su come sviluppare una mentalità vincente.

Lei per candore sembra avere una età indefinita, tra la ragazzina e la signora più matura, al contempo atletica ma stanca. Si siede ovunque, a gambe incrociate, e canticchia qualcosa per passare il tempo. Veste un lungo abito bianco abbinato a giacca in pelle nera e anfibi, come Madonna negli anni ‘80. Capelli lunghi biondi e ricci che esplodono da tutte le parti quasi a coprire tutto il volto, gli occhi azzurri quanto le rughe. Aria spaesata, un curioso bagaglio a mano costituito da un “bastone della pioggia” per purificare dalla malasorte. 

I due si trovano scrutando tra la folla, si riconoscono ma non si avvicinano. Si sono già “rivisti” in passato, proprio in quel luogo di partenze e arrivi, ma hanno fatto finta di nulla e lo possono fare ancora! Non è obbligatorio! Poi però il destino li pone sadicamente uno davanti all’altro e non c’è più fuga che tiene, devono parlarsi. 

Bill e Willa, per esteso William Davis e Willhelmina Davis: nessun rapporto di parentela pregresso, sono un generico “W.Davis” appuntato su una simile borsa da viaggio che una volta li avrà accomunati in un posto come quell’aeroporto. Forse per quella annotazione comune è avvenuto il loro primo incontro, in quel di Madison, venti o venticinque anni prima. 

Poi erano successe tante cose, tra un paio di concerti dei Radiohead e una convivenza all’inizio felice, che hanno segnato ancora più le loro differenze. Lui troppo cerebrale, amante della programmazione e timoroso delle sorprese. Timido quasi a essere introverso, si è sempre sentito nelle relazioni come una solida e fiera zavorra. Lei troppo estroversa, fanatica della new age e della spiritualità, della libertà a tutti i costi e in tutti i campi. Disordinata e smemorata, si è sempre sentita come “un palloncino sospeso”.

Un palloncino e una zavorra che lo tiene a terra, i presupposti della coppia perfetta “equilibrata”. Forse. Forse una volta. Giusto il tempo di scambiarsi uno sguardo e due battute, poi ripartire per le rispettive vite, ma ecco che il fato ci mette lo zampino. Di nuovo. I due rispettivi voli vengono cancellati, per lo stesso motivo anche se per mete diverse, lasciandoli vittime della stessa tormenta meteorologica ed emotiva.

La neve ha coperto tutto, gli alberghi in zona sono pieni degli altri passeggeri che più velocemente si sono impossessati di una camera. Bill e Willa hanno cincischiato troppo sperando in una ripartenza impossibile o due, ora hanno tutta la notte per aggirarsi da soli in un aeroporto vuoto, tra un bar vuoto o duty free vuoto, cercando di convivere civilmente. 

Dall’alto, “a confortarti e illuderli”, la voce quasi ultraterrena degli annunci: ogni tanto metallica, qualche volta così intima che pare dialogare proprio con loro. In filo diffusione dagli altoparlanti tanta musica pop del passato, che a volte suona fin troppo allegra o troppo forte per gli umori dei nostri eroi: più prossimi a tirare fuori gli scheletri dagli armadi che godersi insieme una birra o una carezza. Forse. 

Come passeranno la notte Bill e Willa? 

Torneranno di nuovo a volare e magari a incontrarsi sulla stessa strada?


A otto anni da Ithaca - l’attesa di un ritorno, termina l’attesa per il ritorno alla regia Meg Ryan, con questo piccolo film girato a Bentonville, nello stato del Nebraska nell’autunno del 2022, insieme a David Duchovny. Un film a due, un continuo contrappunto di battute e tenerezze, che ha il sapore di Harry ti presento Sally come di Prima dell’alba giusto un po’ più pensoso, a volte anche troppo. 

L’aeroporto incarna al meglio una ipotetica “stanza dello spirito del tempo” dove tutto è immobile, sospeso e “provvisiorio” come in Terminal di Spielberg, prima che i personaggi possano tornare Tra le nuvole, come George Clooney, a distaccarsi salvificamente dai dolori della realtà.  

Siamo in un aeroporto del Nebraska, ma potrebbe essere benissimo il palco di un teatro off Broadway, tanto intime e distillate solo le interazioni tra i due attori rispetto a uno scenario “sconfinato ma vuoto”, che li ingloba senza correre mai il rischio emotivo e fisico di “schiacciarli uno contro l’altro”. Uno scenario che viene reso dalla fotografia ancora più etereo e avvolto di bianco del normale, quasi un'infinita e fredda pista di pattinaggio. 

A “riscaldare la scena” servirebbe il calore che è ancora in grado di esprimere la coppia dei protagonisti, ma conviene forse tenere il cappotto per tutta la visione, perché la Ryan non sembra intenzionata a percorrere le strade della commedia romantica per cui è diventata famosa.

Non c’è qui quell’intesa adolescenziale/cinico/giocosa come con Billy Crystal in Harry ti presento Sally. Manca quella ricerca di “gentili attenzioni impossibili” tra estranei, come con Tom Hanks in C’è posta per te e Insonnia d’Amore. Siamo lontani da quella amabile comunione spirituale ultra kitch scattata con Nicolas Cage in City of Angels. Non c’è al fianco dell’eroina moderna il romantico viaggiatore temporale Hugh Jackman di Kaye e Leopold, a farle riscoprire la bellezza del romanticismo ottocentesco. 

C’è Duchovny, impeccabile ed elegante come il suo agente Fox Murder, ma con la Ryan manca quasi programmaticamente di intesa. Quasi lo avremmo preferito affiancare Gillian Anderson, in una semi-rimpatriata di X-Files dove la tormenta di neve che li blocca all’aeroporto è dovuta a qualche complotto dietro cui è nascosto un uomo che fuma.

Meg Ryan è distante, altrove.

Il suo personaggio sembra inseguire ancora quel look e quel mood da eterna fidanzatina d’America, ripete a piccoli tratti lo schema di una seduzione giocosa e buffa, ma sta molto malinconicamente “sulle sue”. Non capisce più cos’è una relazione o il mondo che la circonda. Non riesce forse più a capire neanche se stessa. 


È un personaggio perseguitato da un enorme senso di vuoto, problemi di memoria, cocci di una vita vissuta male. È un personaggio che forse come la stessa Ryan è andata in cerca di una nuova identità, intraprendendo un percorso a scossoni come quello che l’attrice aveva già intrapreso da prima, nei primi del 2000, quando aveva scelto quel ruolo super sexy in In the cut di Jane Campion e poi quel ruolo da manager scafata di Boxe per Against the rope. Ruoli più disperati che romantici che forse non è riuscita ad abbracciare fino in fondo. 

Così ora Meg Ryan, vestendo il personaggio di una piece teatrale da spettacolo off che sembra cucirsi addosso con forza, si trova ad affrontare le crepe di una immagine da fidanzatina d’America ormai vintage, fuori tempo: una Sally che non ha più incontrato Harry, aspettandolo per trent’anni in aeroporto. Una donna senza un Tom Hanks che illumini per lei tutto un palazzo a Seattle, una eroina moderna senza che un angelo disceso dal cielo con il volto di Nicolas Cage o uno scienziato vittoriano con il volto di Hugh Jackman la salvino da un destino avverso. 

Meg, nel film “Willa”, è sola e spaesata. 

In cerca di affetto, poca fiducia sulla sua memoria (forse malata) e intenta a manovrare un bastone sciamanico portafortuna, ma soprattutto sola, anche se circondata da molte persone. Duchovny è gentile e quasi paterno, ma la regista, sceneggiatrice, interprete è come se ponesse costantemente un pesante muro emotivo sulla loro relazione, una “impossibilità fattuale” di avvicinarsi, al di là dei piccoli giochi con le poltroncine e i carrelli porta bagagli. Piccoli momenti di quiete a quel moto centrifugo/centripeto delle relazioni che infine appare più duro, concreto e vero del classico finale “e vissero felici e contenti”. Di conseguenza il confronto tra i personaggi sulla scena diventa quasi una seduta di analisi, ermeneutica più che emotiva. Quasi un'autopsia più che una ballata malinconica, dove ogni tentativo di empatia suona solo nostalgicamente come una eco triste. 

Il testo di Steven Dietz aveva potenzialità brillanti, a partire da quella voce fuori campo che annuncia la cancellazione dei voli per poi diventare quasi un confidente emotivo (come la voce del Signore in Aggiungi un posto a tavola), ma la Ryan sceglie di porre, anche coraggiosamente, un grosso tappo a quello sviluppo, depotenziando ogni siparietto leggero e prediligendo inquadrare la solitudine della neve che cade, il buio notturno dell’aeroporto quando tolgono le luci, il vuoto di corridoi enormi. 

È un film sincero e doloroso, onestamente sbiadito nei colori.

Con una musica che non si sintonizza con i sentimenti, con una fotografia quasi glaciale per schematicità e “plasticità” dei luoghi, con personaggi che seppur invogliati, interiormente, all’idea di iniziare un lungo valtzer, sembra che pregustino la fine del ballo fin dall’inizio.

Tutto questo dona un sapore peculiare a Coincidenze d’amore, che forse chi va in sala aspettando una commedia romantica come le classiche della Ryan potrebbe non voler cogliere al volo, magari rimanendo deluso da tanto potenziale “inespresso”. 

È una Ryan a nudo, con rughe e dolori, davvero inedita. 

Forse è l’inizio di una nuova fase della sua carriera, gliela auguriamo di cuore. Ma la spensieratezza che da sempre accompagnava i suoi ruoli un po’ già ci manca.

 Talk0

mercoledì 1 maggio 2024

Il posto: la nostra recensione del secondo surreale e intimista film del regista de La sedia, Gianluca Vassallo, con protagonista Michele Sarti

Pietro (Michele Sarti) è un regista cinematografico sardo in ascesa dopo la sua opera prima: un film che gli ha portato un grande successo, quanto la paura di affrontare una “opera seconda” che confermi l’entusiasmo di pubblico e critica. 

Ha in mano un soggetto peculiare, su cui crede molto, che sta cercando ancora di elaborare anche se nel frattempo non gli sta dando troppi “feedback positivi”. 

È una specie di film alla Ocean’s 11 ma con un cast di anziani, gag di stampo comico-geriatrico, forse una sottotrama sull’uso del computer per realizzare il furto a una grande banca, per la quale vuole chiedere aiuto al suo poco convinto amico informatico, che lavora in una sartoria. 

Pietro cerca di parlare della sua nuova pellicola con “chiunque ha a tiro”, con entusiasmo e infilandola in ogni tipo di conversazione, per capire se è sulla strada giusta e magari pregustare reazioni positive sul volto di chi lo ascolta. Ma sembra che a nessuno freghi nulla di vederla. 

Così come sembra a tutti gli “intervistati involontari” che il suo primo film non è che fosse la cosa migliore al mondo: sì, bellissimo per fotografia e trama originale ma troppo triste, troppo politico, troppo intellettualmente arrogante…

Pietro, che vaga nella sua cittadina in cerca di conferme, si tormenta.

Le persone e i paesaggi della sua Sardegna, anche il mare, non sembrano ispirarlo o confortarlo verso una nuova epifania creativa. 

Con la sua compagna, ha ormai solo una relazione a distanza telefonica, che forse non è più neanche una relazione o forse è qualcosa di semplicemente infelice. 

Nella sua casa gira un tizio vestito in un elegante smoking bianco, che sembra a tutti gli effetti un'allucinazione. Ricorda a Pietro le telefonate da fare che si è dimenticato di fare, gli parla di come avere successo nella vita, seguendo i consigli di un libro motivazionale che impugna come una reliquia. 

Quando va al bar, Pietro incontra sempre più di frequente, accanto al barista, un altro tizio strano: uno che fa discorsi filosofici/metafisici sullo spazio e sul tempo e forse è un alieno, o comunque ha per moglie la persona che comanda su ogni cosa. 

Tutto sembra caotico e senza senso.

Poi Pietro ascolta una voce femminile al telefono. Prima cerca di liquidarla come chi ti vende un nuovo piano tariffario, poi prova ad ascoltarla e scopre che è un lavoro su commissione: vogliono lui a Milano per un documentario sulla vita di una azienda, la DEGW: una società che realizza spazi per uffici e imprese da 50 anni. Ora Pietro ha “un posto dove andare”, potendosi sottrarre momentaneamente dal vagare di meta in meta. 

Le persone della DEGW sembrano entusiaste e lo possono sommergere di attenzioni, storie e tutti i materiali che saranno necessari per questo lavoro. Pietro accetta ma sa che per poter realizzare la pellicola dovrà prima capirci qualcosa su quella ditta, trovare una buona storia e il suo cuore. Ma Pietro sarà in grado di mettere alle spalle la sua crisi creativa e realizzare un film su commissione “come vuole lui”: ossia un film “personale e d’autore”? 

Forse basterà solo trovare la giusta ispirazione, nel giusto posto. 

Ma esisterà, per Pietro, questo posto giusto?


Torna in sala dopo il folgorante La Sedia il regista sardo Gianluca Vassallo, come ritorna protagonista della scena il suo attore/alter ego Michele Sarti. Il film è nuovamente scritto, diretto, prodotto è in questo caso anche musicato da a Vassallo, che ama curare le sue opere dalla A alla Z. Ritorna in Sardegna, ma poi passa in zona Milano, per una storia ancora una volta ironica e simbolica. Una storia che in qualche modo “espande” la sua opera prima e al contempo sa strutturasti in un modo davvero inconsueto, spiazzante quanto sarcastico.   

La vicenda si collega ancora una volta a filo doppio con la passione del regista per l’architettura e il design. 

Nel primo film era “protagonista sulla scena”, teatralmente, come potente “oggetto Beckettiano”, la “Sedia 1” di  Enzo Mari. Un oggetto realizzato nel 1974, lo stesso anno di nascita di Vassallo, che una trasmissione radiofonica culturale, inserita nella pellicola nell’autoradio del protagonista, descriveva come semplice, essenziale, simbolicamente “costruita con gli stesso materiali poveri della croce di Cristo”. 

Di fatto la Sedia 1, nella trama unico lascito di un padre scomparso al figlio, anche per la sua semplicità realizzativa puntava a essere la “sedia di tutti”, quella che poteva essere presente in tutte le famiglie, anticipando il “do it yourself” dei mobili prefabbricati Ikea. Come oggetto “comune/familiare” e al contempo così “mistico”, la sedia veniva durante la pellicola portata da Sarti lungo luoghi da sogno bucolico della Sardegna, divenendo più volte un giaciglio sul quale il protagonista si adagiava per parlare con gli altri personaggi in scena, di fatto creando così un piccolo “spazio mobile relazionale”. In Il posto Vassallo, espandendo il concetto, riflette sulla possibilità di trovare spazi relazionali anche in ambienti “più grandi”, industriali. Spazi in grado di legare funzionalmente, ma anche “amorevolmente”, un “fattore umano disperso” anche all’interno di una grande azienda dell’Italia anni '70. Come canterebbe Jovanotti, a Vassallo importa “l’elemento umano nella macchina” e riesce a curarlo con una particolare sensibilità e originalità nella costruzione narrativa, proprio attraverso una riflessione sul design.

È così che piano piano nel film si fa largo la storia della DEGW e la filosofia di coniugare lavoro e relazioni, in modo diretto e “democratico”, che viene espressa a livello architettonico attraverso gli ambienti cosiddetti di “open Space”. 

Ancora una volta interviene sulla scena un media che “racconta l’arte”, nello specifico proprio la costruzione degli spazi attraverso l’architettura, nella forma di un surreale televisore in bianco e nero, che trasmette un documentario in inglese, in un bar sardo dei giorni nostri. Un momento criptico quanto Lynchano, che va poi chiarendosi funzionalmente, ma che subito appare autoironico e dissacrante, quanto la poetica dell’autore sardo impone. Un autore che qui alla seconda opera, ascoltando le sue stesse dichiarazioni a margine della produzione, sembra anche voler mettere proprio se stesso sulla scena, senza filtri, raccontando in modo divertito, ma anche “timoroso”, una crisi artistica occorsa al fatidico momento della realizzazione della seconda opera cinematografica. 


Vassallo con tanta autoironia “incasina” la vita personale e artistica del suo regista/protagonista/alter-ego fin dal primo minuto. Gli fa affrontare le grandi aspettative e i grandi dubbi del pubblico e della critica. Mette in luce la sua poca costanza e mille dubbi su “cosa vuole fare da grande”. Lo fa affiancare da allucinazioni (certo più simpatiche di un coniglio gigante alla Harvey/Donnie Darko), lo fa vagare come un detective alla ricerca dell’ispirazione e infine gli fa trovare il suo “posto”, il suo “scopo di narratore”: una storia comune e su commissione su una grande azienda, che però può valere la pena essere raccontata anche perché legata a una storia umana.

Il sempre più bravo Sarti dà voce e corpo a un personaggio complesso ma simpatico, che bene riesce a raccontare il tour de force emozionale, sempre più vorticoso e caotico, a cui progressivamente va incontro. Il suo Pietro sa essere sognatore quanto disilluso, malinconico quanto sarcastico, sfuggente quanto centrato. Il suo è un one man show che convince, dalla sua camminata inarcata, goffa e quasi timida, ai surreali momenti di “confronto onirico”, alla malinconia delle telefonate a distanza con un amore lontano. In alcuni punti, come gli “incontri con il pubblico e critica” del regista, Sarti riesce anche a ricordarci gustosamente il Nanni Moretti degli inizi e i suoi surreali dialoghi meta/cinematografici con il pubblico dei suoi film. 

Il film sa divertire molto, a tratti anche  commuove, al netto di un finale forse un po’ contratto, incentro sul rilanciare o sospendere la narrazione. 

Davvero originale, ma anche coraggiosa (e il coraggio spesso paga), la scelta di DEGW di avvallare la pellicola di Vassallo per raccontare i 50 anni della loro realtà imprenditoriale. Non è certamente un film convenzionale sulla storia personale e imprenditoriale del loro gruppo, anche se sono presenti alcuni dirigenti che simpaticamente hanno interrogato se stessi. È certamente un film che riesce a rappresentare al meglio la filosofia di un design funzionale ma anche “etico”. È interessante che Vassallo non si limiti a esplorare delle aziende recenti, ma vada anche a ricercare i siti delle aziende del passato, ora dismessi e diventati dei campi fioriti in segno di una attuale fase industriale di “ricongiungimento alla natura”. 

Il posto funziona, a volte spiazza, spesso diverte.

Aiuta a riflettere, in modo non banale, sulle implicazioni della “forma di un luogo di lavoro”,  in ragione ai rapporti umani che al suo interno potrebbero svilupparsi.

È una pellicola che conferma il talento di Vassallo come regista unico nel suo genere: personale e fuori dagli schemi, ma anche sensibile e originale narratore di temi difficili come l’arte e il design. 

Talk0