Inghilterra di fine anni 90, dalle parti della periferia di Londra. È sera, c’è freddo e c’è aria di festa per via del Natale. In una piccola casetta di due piani in legno, con giardino, si ritrova una famiglia di origine ebraica.
Tutti stanno intorno al piano per cantare e sanno cantare bene, come non avessero mai fatto altro per tutta la vita. Sono capitanati dalla nonna (Lesley Manville), un tempo star della musica blues che ha girato il mondo, ma sono anche incalzati dalla più piccola di casa, la riccioluta Amy (Marisa Abela).
Ha una voce d’angelo e dopo un periodo tormentato e difficile sta diventando di colpo una delle più grandi cantanti di sempre: il suo primo disco ha iniziato a girare per le radio e la gente, spesso “troppa”, inizia a riconoscerla per strada.
La musica unisce, ma appena la festa finisce c’è solo tristezza per la famiglia di nuovo divisa, con il padre tassista che deve riportare Amy dalla madre quanto prima, perché vivono da tempo separati. Vivono separati e incazzati uno con l’altra quasi da sempre.
L’idillio familiare e canoro è finito e non c’è molta gioia nel cantare ancora insieme, loro due, accompagnati dall’autoradio tra le vie di Londra. La mattina, nella piccola stanzetta rosa con mattoni a vista, con al centro un giradischi e intorno tanto disordine, non porta alla ragazza nuove ispirazioni o canzoni.
Dorme vestita, ricerca allo specchio di imitare il trucco di scena da star del Blues della nonna, magari sognando di diventare felice e accogliente come la nonna. Le giornate proseguono uguali, Amy è contesa per spettacolo e contratto ma è a uno stallo.
Non c’è troppa gioia nemmeno in sala prove, dove il nuovo manager invece di farla cantare cerca di dare una sferzata alla sua carriera troppo a rilento; proponendole pezzi “più leggeri”, invita a presentarsi sul palco senza chitarra al collo e magari studiandosi una coreografia come le Spice Girls.
Propone di partire per l’America.
Ma Amy non lo segue, si irrita, non sente di avere ancora niente di nuovo da dire. Ha bisogno dei “suoi tempi”. Non vuole fare la Spice Girl. Il suo primo album aveva come “musa” un ragazzaccio di nome Frank, “smontato e rimontato” più volte, attraverso tutte le canzoni che componevano il disco. Amy raccontava la sua passione, le sue aspirazioni e tormenti per Frank. La musica era nata forse proprio come “cura” dalla relazioni infelice con lui. Ma ora, nel bene e nel male, non c’era più nella sua vita un Frank.
Amy sempre più arruffata, incasinata e incazzata, quasi dilaniata da ogni attuale interazione umana e perennemente circondata da fotografi impiccioni h24, si infila sgangherata, di primo pomeriggio, nel solito bar. Spera di alleggerirsi la testa come sa fare da sempre: con qualche birra e due o tre whisky. Ma ecco che al biliardo, con un sorriso infinito e occhi dolci, le appare quello che sarà il suo nuovo amore tormentato: Blake (Jack O’Connell).
È simpatico, è sfrontato. È profondamente lunare e instabile e forse in questo lei ci si rivede. Amy con lui potrà proseguire il racconto della sua “storia dopo Frank”, magari iniziando con l’inserire in scaletta nei concerti canzoni che deridono pubblicamente l’attuale ragazza di Blake, che pur non la prende benissimo.
Il ragazzo si sente troppo “tirare dentro” e forse per questo inizia a tirare troppo, costringendo anche lei in questo ballo. La rinascita artistica di Amy segna allo stesso tempo tempo un cammino verso il baratro delle dipendenze e dell’amore tossico.
Alle carezze e ai baci senza fine si alterneranno sempre di più calci e pugni, che vengono emotivamente “stabilizzati male” dai soliti alcolici, accompagnati nel menu dalla passione di Blake per le droghe.
Blake e Amy, sempre più in un mondo tutto loro, inseparabili: “confusi e felici” a tempi alterni, più tra scazzottate che rappacificazioni. Il ragazzo ogni tanto stacca ma poi, consigliato dagli amici del bar, si ripresenta in cerca di soldi, appena vede che la compagna sta diventando sempre più ricca. Poi scompare di nuovo quando la polizia scopre che ha degli affari loschi e lo incarcera. Ma poi riappare. Riappare sempre ed Amy lo accoglie di nuovo come la cosa più bella e fantastica che le ha regalato il mondo, anche se tutti sanno che “lui le fa male”.
Ai concerti quando vengono fuori le canzoni dedicate a Blake il pubblico fischia.
Amy non lo sente.
La coppia va avanti, pur costantemente vivisezionata sotto l’occhio chirurgico e cinico di un circo di fotografi sempre più invadente, quasi come quello di Lady D. Senza scrupoli, ridendo, i paparazzi non vedono l’ora di ritrarli insieme barcollare ubriachi per le vie di Londra. Fanno i salti quando vedono Amy confusa correre per le strade mezza nuda e coperta di lividi. Qualche volta, se sono fortunati, possono riprendere quel magico momento in cui lei vomita in un vicolo. Tutto materiale da prima pagina a uso e consumo dei cannibali emotivi che leggono il gossip.
Poi l’equilibrio di Amy subisce un altro duro colpo, che quasi spegnerà del tutto la sua voglia di vivere, portandola “Back to black”.
Sarà forse un punto di rinascita. Sarà forse l’occasione per ripartire cambiando vita. Ma purtroppo saranno anche i suoi ultimi bellissimi brani che raccontano la sua vita.
Sono film che ormai stanno diventando tanti, un “genere a sé” esplorato quanto i film dei supereroi che bene amplifica i sempre più frequenti documentari.
Al cinema la musica piace, le pellicole quasi sempre dimostrano di saper incassare gli onori di pubblico e critica, anche in questo momento di profonda crisi delle sale cinematografiche. Sono però film complessi, sfidanti, dove il talento di cast e interpreti è spesso centrale alla riuscita del prodotto. Back to Black punta ad essere un prodotto di qualità.
La regia è stata affidata all’inglese Sam Taylor-Johnson, per gli amanti dei gossip sta insieme all’attore Aaron Taylor-Johnson dal 2009. È un'artista poliedrica che debuttava in sala nel 2009 con l’interessante e visionario film Nowhere Boy, ispirato alla vita di John Lennon.
La Taylor-Johnson ha da sempre un forte legame con il mondo della musica. Nel 1990 realizzava un lavoro fotografico ispirato a John Lennon e Yoko Ono. Nel 2000 dipingeva un murales con rappresentate icone come Elton John e Alex James. Dal 1999 ha anche collaborato alla realizzazione di testi e musiche di tre canzoni per i Pet Shop Boys.
La sceneggiatura di Back to Black è come per Nowhere Boy opera di Matt Greenhalgh. Anche lui è un esperto e amante della musica, nonché autore tra le tante cose di Control, biopic sulla vita del cantante dei Joy Division, Ian Curtis.
Il comparto sonoro è stato affidato nientemeno che a Nick Cave e Warren Ellis, guru veri della musica moderna e a loro volta musicisti di grande fama.
La fotografia, ricercata e piena di dettagli, è stata invece affidata alla Polly Morgan di American Horror Story, di A quiet place 2. È una fotografia che punta al realismo, quasi “documentarista”, senza fronzoli e diretta.
Come senza fronzoli sono le scenografie e le location, effettuate proprio in quella Londra periferica di Amy, tra la sua casa a Camden Town o il Ronnie Scott’s Jazz Club.
Un approccio al racconto di una vita “non pindarico”, che qualcuno può trovare perfettamente in linea con lo spirito della cantante.
Marisa Abela, giovane promessa con alle spalle per lo più esperienze televisive in thriller politici, ex studentessa di legge con il pallino dei diritti umani, è stata un'autentica sorpresa uscita dal cappello dell’ufficio casting, dopo molti provini. La Abela canta in modo splendido e riesce bene a incarnare le mille fragilità e contraddizioni di un'artista complicata, profondamente emotiva quanto malinconica.
Jack O’Connell è anche lui un giovane attore, diventato famoso per l’horror Eden Lake e di recente tra gli interpreti del Ferrari di Mann. Blake ce lo descrive come un uomo perennemente sul baratro, gentile ma al contempo cinico, come affetto da un senso costante di inferiorità che sfoga con rabbia e abusi vari.
La Abela e O’Connell riescono al meglio a portare sulla scena il balletto autodistruttivo cui vanno incontro i loro personaggi. Una voglia di amore che si fa dipendenza, quasi a voler disperatamente colmare le rispettive insicurezze. Una relazione dolorosa che attraverso la musica Amy “sublima e rielabora”: trasforma in arte e medicina.
La sceneggiatura predilige nella descrizione di ogni relazione la sintesi, dura e a tratti quasi distaccata. Non c’è traccia di “romanticherie o melodrammi”, è tutto spontaneo quanto brutale, quasi documentaristico, in perfetta linea con le scelte di fotografia e scenografie.
Più un'autopsia che un racconto.
Poi però c’è la musica, che va a integrare ogni vissuto come autentica colonna sonora emotiva. È una musica (il film ha i brani sottotitolati) che riesce a dialogare apertamente con la trama, dando voce all’ironia e al sarcasmo quanto alla passione e alla ragione. È una musica che “colora di empatia” quello che, in molti tratti, può sembrare altrimenti un film di zombie in bianco e nero, dove i nostri anti-eroi, dolenti e confusi, si trascinano per le vie di Londra perennemente esposti ai morsi cannibali degli obiettivi fotografici.
La Taylor-Johnson guarda dritta negli occhi l’ipocrisia umana da “gossip di terza categoria”, che ha di fatto rovinato tutta l’esistenza della Winehouse, non facendo sconti. Ci sono fotografi-zombie per ritrarre il momento in cui Amy riaccoglie il suo amore appena uscito dal carcere. Ci sono dietro ogni giraffa dello zoo di Londra. Ci sono per le strade a riprenderla svenuta nel vomito, senza curarsi di chiamare un’ambulanza. Godono nell’insultarla fino a ricevere in cambio una sua reazione violenta: per confermare che è una poco di buono.
Ma appunto c’è la musica, che risiede su un “piano superiore di conoscenza” come le tecniche yoga, di cui la regista è una attiva sostenitrice e praticante.
La musica, nel suo esercizio e composizione, “cura l’anima”: al punto che Winehouse/Abela lo esplicita diverse volte all’interno della pellicola, descrivendola come un “farmaco salvavita”. È forse questa la chiave di lettura più interessante di Back to Black, oltre alla possibilità di ascoltare al cinema le bellissime canzoni della Winehouse, interpretate con grande trasporto e competenza all’interno di un ottimo comparto tecnico.
Sam Taylor-Johnson realizza un film che seppur nella sintesi del linguaggio cinematografico, che omette e semplifica molti passaggi della biografia della cantante, riesce ad apparire struggente e intenso, molto ben recitato e confezionato.
Il lavoro di Nick Cave è davvero pregevole, Marisa Abela regala una performance recitativa e canora di altissimo livello, la Londra delle periferie non è mai apparsa così vivida e “livida” in tutte le sue sfumature. È un film che commuove e fa riflettere, senza risultare per forza patetico come spesso capita per i prodotti di Hollywood. E’ un film che sa fare critica costruttiva anche alle regole al mondo che gira intorno allo star system, anche con una certa dose di coraggio e incoscienza.
È soprattutto un film che rende un ottimo servizio alla cantante, facendo venir voglia di tirare fuori i dischi di Amy Winehouse appena giunti a casa dopo la proiezione.
Back to Black è un buon film che rende un dignitoso omaggio a un'artista unica nel suo genere. Che già ci manca tantissimo.
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