sabato 29 giugno 2024

The Bikeriders: la nostra recensione del biopic di Jeff Nichols, liberamente ispirato al libro fotografico di Danny Lyon sugli Outlaws MC, con protagonisti Tom Hardy, Austin Butler e Jodie Comer

 


America on-the-road di fine anni '60. 

Vivere la vita un quarto di miglio per volta, a cavallo di una moto rombante, vestiti perennemente di cuoio, insieme alla propria “mandria di fratelli”.  

Liberi di apparire trasandati, liberi di ululare insieme alla luna sull’autostrada e fare gli spacconi nei bar. 

Liberi di bruciare qualche semaforo, facendo arrabbiare un paio di poliziotti addetti al traffico e un paio di lenti pedoni che, della vita, non hanno ancora capito niente. 

Liberi di accamparsi il fine settimana fuori dal mondo metropolitano, come forse facevano i cowboys, accendendo il fuoco e le salamelle tra i campi, raccontandosi epiche storie, sfidandosi bonariamente a duello per decidere “chi è lo re” (Diego Abatantuono, Attila, cit.), tra una birra e forse un altro paio di birre.

A un primo, ma anche al secondo sguardo, per una persona comune come Kathy (la brava Jodie Comer), i “Vandals” apparivano come un gruppo di ragazzoni decisamente appariscenti, sicuramente poco maturi. Magari giusto “sexy”, per via dell’abbigliamento in pelle. Poi però una sera lei inizia a frequentarli in un bar, perdendosi nello sguardo ribelle e nel sorriso gentile del giovane Benny (il molto bravo Austin Butler). Un paio di birre dopo, Kathy si trova nel cuore della notte aggrappata alla moto di Benny, sulla highway, con intorno tutte le luci delle altre moto che si fanno dolcemente largo tra il buio, come in una nuvola, rombando quasi armonicamente in coro nel pieno silenzio, come fossero gattini gentili. 

È amore. 

Poi, sotto i giubbotti in pelle e l’ossessione di sentire il rombo dei motori, questi Vandals non sono neanche brutte persone. Il loro “capo”, Johnny, parla un po’ come Robert De Niro (ed è interpretato da un Tom Hardy che cerca disperatamente di darsi un tono da Robert De Niro), ma alla fine è un buon padre di famiglia, con moglie e due bambine biondissime, con un solido lavoro di camionista alle spalle e l’attitudine a sedare ogni tipo di conflitto. Ha pensato al gruppo guardando in tv Marlon Brando, gli è piaciuto il look, inizialmente i tesserati facevano gare di motocross domenicali come un qualsiasi club sportivo. 

C’è nel gruppo chi è esperto di motori anche perché poi fa il meccanico per vivere. C’è chi è molto ligio al codice della strada, ha un lavoro di ufficio e vive con i genitori a cinquant’anni. C’è chi è solo un po’ sfigato o preso troppo a calci dalla vita e nei Vandals, che sono sempre accoglienti,  si sente a casa.

Il gruppo di certo fa così tanto casino, con le sue continue parate cittadine, che non piace troppo ai genitori della zona, come non è amato dalla comunità in genere. È come se la comunità cogliesse qualcosa di “inevitabile” che ai Vandals “sfugge”, mentre le richieste di affiliazioni da altre città americane iniziano a fioccare e iniziano a delinearsi sempre di più “codici d’onore”, “bandiere”, piccoli reati necessari al sostentamento economico del gruppo. 

In un secondo dai “duelli per il potere”, per lo più affrontati a scappellotti bonari con la gioia etilica nel sangue, si passa ai coltelli. Si inizia a parlare di territorialità tra bande rivali, qualcuno, più che un cowboy metropolitano, vuole sentirsi ancora più “correttamente” un Vandal, trasformando il club in un gang criminale a tutto tondo.

È un piano inclinato inevitabile. 

Un giorno un ragazzino (Toby Wallace), troppo picchiato dal padre manesco e dalla povertà, si innamora dei Vandals e vuole un giubbotto come il loro. È un ragazzo senza senso dell’umorismo e troppo violento, non viene accettato dal branco e inizia a covare rancore. Kathy negli anni vive la trasformazione inevitabile dei Vandals, con l’amore per il suo Benny che si fa di volta in volta sempre più “complesso”. Un amore sospeso tra una vita normale di periferia e le sempre maggiori incombenze di un gruppo, di ex hippie, che ora si trova a ragionare e agire a tutto tondo come fuorilegge. Un po’ per sopravvivere alla società, che ha fermamente deciso di odiarli, un po’ per cercare di mettere ordine e pace in quel piccolo mondo che dai sogni di libertà e birra si è poi inevitabilmente trasformato una qualcosa di diverso.


Il film, scritto e diretto dal bravo Jeff Nichols (Take ShelderMud), si basa liberamente su un libro fotografico di Danny Lyon, che racconta con disincanto la vera storia degli Outlaws MC, attraverso una serie di interviste, rilasciate in tempi diversi dai bikers e dalle loro famiglie. 

Lyon nel film è interpretato dall’attore Mike Faist, ma il suo ruolo nella vicenda è puramente interlocutorio, mentre la voce narrante della storia dei “Vandals” è assegnata al personaggio divertente quanto concreto di Kathie, la moglie del biker Benny. 

Kathy, interpretata in modo molto credibile e spontaneo dalla brava Jodie Comer, ci racconta del suo amore per un motociclista che può correre libero nella prateria quando vuole, con il vento nei capelli h24, mentre lei è a fare il bucato in una caldissima lavanderia a gettoni. La ritroviamo anni dopo, più disincantata, in una pausa da scuola con i bambini, a parlare della “crisi del gruppo” e di come sia diventata per lei anche “crisi di coppia”. La rivediamo ancora mentre come casalinga disperata riassetta una casetta bianca di periferia, forse da sola.

Kathy ci racconta una realtà di grigliate all’aperto, di pic nic con i bambini a base di motocross nei pomeriggi domenicali, del look perennemente “con l’ombelico di fuori” dei primi biker. Ci racconta del modo subdolo in cui “l’atteggiarsi da bulli” dei Vandals abbia finito per trasformarli, anche controvoglia, in credibilissimi bulli. 

Racconta di funerali di amici a cui i motociclisti non erano bene accetti dai parenti. Racconta della stato “quasi di dipendenza” che Benny subisce nei confronti del gruppo e di Johnny: di come la costante voglia di vivere fuori dalle regole, ma insieme ai suoi amici, lo abbia infine rinchiuso in una vera e propria prigione psicologica, senza uscita e prospettive se non nella fuga dalla realtà.

Un racconto del tutto diverso della storia dei Vandals, simbolico quanto immaginifico, è invece quello che ci viene offerto attraverso gli occhi di un personaggio senza nome, il “Kid”, interpretato da Toby Wallace. 

È una storia fatta di sguardi e sogni, cruda ma quasi di stampo “cavalleresco”, dove il Kid è alla ricerca di un proprio “posto nel mondo”, sotto la fascinazione del potere, delle turbine e del cuoio. Il ragazzo vive ai margini poveri, nella costante violenza domestica, impossibilitato nello sviluppare le giuste competenze e l’empatia per comprendere una “realtà diversa”, dall’emarginazione e dalla violenza. 

Dal basso della sua vita disastrata e senza prospettive, vede nei Vandals, che attraversano fieri la città con le moto, il branco che lui non ha mai avuto. Vede nel giubbotto e nello “stemma dei Vandals” una bandiera sotto la quale, per la prima volta, si potrebbe sentire parte di qualcosa, qualcuno di peso. Dal momento in cui Kid riesce a impossessarsi di uno scassato “cavallo di ferro a due ruote”, ai giochi di potere per essere accreditato come “cavaliere”, il passo è breve. Arriva la sfida al capo con un “ferro disonesto”, ma che per lui è come Excalibur, gli dona potere senza che altri si oppongano più a lui. Kid vive sempre più disumanizzandosi il suo personale viaggio distorto dell’eroe, a cavallo di un futuro a due ruote che forse nemmeno vuole comprendere. Un vero Vandals, si potrebbe tristemente dire. 

Se Benny e Johnny sono dei post-hippie, Kid incarna lo scontento degli emarginati e ma anche dei reduci del Vietnam, come la dolce voce narrante di Kathy ci ricorda. Uomini a cui non “bastava più“ la benzina per la moto, necessitando di sostanze stupefacenti per fuggire, ancora più velocemente, dalla realtà. 

Fuori dalla “narrazione”, c’è “l’azione”. Azione cruda quanto spettacolare, quasi splatter, a base di coltelli, tirapugni, incendi dolosi e sparatore. Tanti inseguimenti tra il traffico cittadino, gare e parate “roboanti”, sottolineati da grande musica dell’epoca e da un sound design delle modo che davvero convince, che nostalgicamente ci riporta al quasi futuristico sonoro in stereo di Easy Riders

Tom Hardy costruisce per Johnny un personaggio complesso, “politico”. Hardy gli dà un'interpretazione sofferta e pensosa, potente quanto “vulnerabile”, vicina a molti anti-eroi di Robert De Niro.

Johnny è consapevole di ricoprire un ruolo complicato “pur con le migliori intenzioni” e attraversa più fasi di crisi, spesso attaccandosi come unica ancora a Benny.

Il Benny di Austin Butler è invece un personaggio magnetico, solare e invincibile come James Dead. Un vero ribelle che gioiosamente vive senza regole, assaporando ogni emozione e sfida con un sorriso beffardo e innocenti occhi azzurri, anche se si tratta di ricevere una palla d’acciaio da un momento all’altro. 

Il Benny di Butler ruba costantemente la scena a tutti, si impone con eleganza anche rimanendo sornione, riposando in un angolo della scena a cavallo della sua bike, mentre il Kid di Wallace soffre, all’opposto, per non essere mai “visto”: né dal padre violento, né da Johnny, né dal mondo. Wallace racconta la perdita dell’innocenza di Kid, di pari passo alla sua disumanizzazione criminale, senza dimenticare mai di mettere in risalto il suo sguardo di bambino ferito, una irruenza che è figlia più di tutto della paura di confrontarsi con il mondo. 


Ci sono moltissimi ottimi attori nel cast, per lo più in piccoli ruoli gustosi, come Michael Shannon, Boyd Holbrook, Norman Reedus. 

Tutto il cast contribuisce attivamente alla costruzione di un affresco generazionale vivace quando contraddittorio, che ha però per vertice la magnifica “sognatrice disincantata” Kathy, di Jodie Comer. 

Kathy è il vero “collante morale”, la materna voce della ragione che riordina la casa dalle troppe birre per terra. 

Forse è anche la speranza di una “famiglia” al di fuori dal branco, con la Colman che cerca di infondere a Kathy tutta la forza morale, l’ironia e la pazienza, necessarie a credere in questo cambiamento . 

Bikeriders è un film divertente, drammatico, carico di azione e simbolismo, affidato a un ottimo cast artistico e tecnico. 

È un film che non possiede la forza anarchica, satirica e autodistruttiva di Easy Riders, ma è comunque un film “sentito”, che non ama troppo semplificazioni e autocelebrazioni e che, con onestà, racconta tutti i chiaroscuri di un momento storico leggendario quanto iconico. Assolutamente da vedere in sala, per assaporare ogni rombo di motore. 

Talk0

mercoledì 26 giugno 2024

Lupin III - La Pietra della Saggezza: la nostra recensione in collaborazione con Fantasy Magazine del primo film cinematografico sul personaggio creato da Monkey Punch, che Nexo e Yamato Video riportano al cinema 45 anni dopo, rimasterizzato e restaurato in 4K , il 24, 25 e 26 giugno


(Sinossi)

Il ladro gentiluomo è morto dopo essere stato condannato.

Impiccagione.

Il decesso è stato confermato dalle autorità della Transilvania, ma il vecchio ispettore Zenigata, che ha dedicato tutta la vita alla sua caccia, non ci crede e va in loco.

Il poliziotto vuole vedere con i suoi occhi la bara, tenuta negli scantinati di quello che sembra a tutti gli effetti il castello di Dracula. È armato, per sicurezza, di un paletto di frassino, sicuro che il ladro potrebbe lì “resuscitare”, come un vampiro.

La bara ha effettivamente al suo interno il cadavere di Lupin, ma di colpo questo esplode, con la stanza che si riempie di fumo. Lupin appare alle spalle dell’ispettore, attaccato al soffitto a testa in giù, come i pipistrelli.

Solo uno sguardo e una risata all’eterno avversario, poi la fuga, lanciandosi con un aliante stile Batman nel cuore della notte, usando quella che appare come una fionda meccanica.

Zenigata è confuso: c’erano davvero due distinti Lupin in quella stanza?

Più tardi, scopriremo che anche il Lupin fuggitivo è confuso: quello nella bara era sicuramente lui e ultimamente non è che lui si senta troppo “in sé“. La risposta a questa domanda comune può venire forse dal nuovo misterioso committente della ladra Fujiko: Mamoo.

Mamoo è minuto e sgraziato, ha una testa enorme e occhi spaventosi come un alieno “grigio”. La sua pelle è di uno strano color violaceo, rughe profonde insieme a tratti somatici quasi infantili ne conferiscono un’età indecifrabile.

Appare fragile, ma è un uomo potentissimo, estremamente colto, geniale, forse con poteri magici.

Dopo molte ricerche, si accerta che una delle sue identità potrebbe essere quella dell’uomo più ricco del mondo (il cui nome fittizio sembra richiamare Howard Hughes) forse perché il suo piccolo regno personale si nasconde nell’isola privata del celebre magnate. Qui vivono, o forse “rivivono”, tra palazzi con architetture surreali, sospese trapassato e presente, importanti personalità come Hitler e Napoleone. Tra le strade, gli interni e i vicoli, diventano reali “scorci paesaggistici” di quadri di De Chirico, Dalì, Escher, come se anche i più grandi artisti del passato (forse anche loro “rinati?”) abbiano attivamente dato il loro contributo a trasformare l’isola in un’unica, gigantesca opera d’arte collettiva.


Anche Fujiko è per Mamoo in qualche modo un’opera d’arte da preservare: forse la reincarnazione di Venere, forse una novella “Eva”. Oltre a essere un grande mecenate e collezionista d’arte, sovrano di una “elite” che trascende tempo e spazio, Mamoo ama muovere le trame di complicati giochi di potere, in cui sono coinvolte controvoglia tutte le nazioni della terra. Lo fa in virtù di una urgenza misteriosamente “impellente”, per un uomo che afferma di vivere da migliaia di anni: la ricerca di una formula per l’immortalità. Questa dovrebbe risiede in testi antichi e oggetti misteriosi, sparsi per il mondo e legati alle civiltà del passato. Uno di loro è la “pietra dell’uomo saggio”, nascosta tra le piramidi egizie.

La nazione che gli fornirà la “cura”, avrà il privilegio di non essere sterminata dall’immenso arsenale atomico di cui dispone. La bellissima Fujiko, da sempre amante dell’adrenalina e del pericolo, è ovviamente sedotta da un uomo che sprigiona tutta questa grandiosità, ricchezza e smania di potere quasi senza limiti. Di conseguenza, per agevolare il sogno di Mamoo e avere qualche tornaconto personale, coinvolge il come sempre “poco saggio e troppo innamorato” Lupin, nella complessa e rischiosa caccia alla cosiddetta “pietra dell’uomo saggio”.

Da queste basi la trama seguirà un percorso tortuoso che “manzonianamente” passerà dalle Alpi (Transilvaniche) alle Piramidi, per poi giungere infine al Reno, nella città di Parigi. Con Lupin e i suoi due inseparabili soci, lo spadaccino Goemon e il pistolero Jigen, che si troveranno perennemente inseguiti dal solito e indomabile ispettore di polizia Zenigata, ma anche nel mirino di tutte le armi e risorse fuori scala che è in grado di muovere Mamoo: un grande esperto di guerra psicologica.

Camion giganteschi e più minacciosi delle blindocisterne di Mad Max, in grado di schiacciare intere volanti della polizia senza rallentare, camminandoci sopra, solo grazie alla spropositata dimensione delle loro gomme. Elicotteri con al comando piloti così abili da volare senza preoccupazioni anche in una rete fognaria cittadina, che non si fanno scrupoli nel crivellare una folla inerme. Trappole mortali di ogni tipo e anche in grado di scatenare terremoti, un sistema missilistico segreto che con un tocco può avviare l’apocalisse.

Forse mettersi contro Mamoo è una sfida troppo grande anche per Lupin III. Mamoo “si sente” e forse ha pure i poteri di un dio. Ma non esistono ostacoli in grado di fermare Lupin, se la posta in gioco finale, la sua unica filosofica ragion d’essere, il suo “sogno”, è sempre e solo quello di riuscire ad allungare le mani sulle forme prorompenti della bella Fujiko.

In genere la procace, disinibita e provocante Fujiko (il cui nome è un omaggio diretto al suo seno, paragonato dall’autore per maestosità al monte Fuji) riesce sempre a stuzzicarlo promettendogli cene galanti e notti di passione in cambio di missioni pericolosissime. Poi lo raggira, lo rimette al suo posto e sorridendo lo manda “in bianco”. Quando lui “accelera i tempi” e spogliandosi si tuffa su di lei, a volo d’angelo, coperto solo dai suoi classici boxer a righe, lei riesce sempre a narcotizzarlo, scagliarlo via con congegni a molle e infine fuggire con il bottino, da sola, vanificando ogni piano e pallottola schivata per conquistarla.

Lupin, quando si parla di Fujiko, non demorde mai. Pur nel biasimo generale dei suoi due soci, che si trovano spesso a lavorare gratis e sfiorare diverse pallottole a causa di situazioni generate dalla bellissima doppiogiochista.

Lupin non demorderà neanche questa volta, anche se la posta in palio sarà qui così alta da coinvolgere il destino di tutto il mondo.

Potranno Mamoo e le sue infinite e spettacolari “armi della scienza”, unite alla sua straordinaria cultura e influenza politica, riuscire ad avere la meglio su quell’innamoratissimo, resistentissimo ma a tratti geniale “scimmiotto” di Lupin?


(Il Lupin “per adulti” e quello “per bambini”)

È negli stessi anni ‘60/ ‘70 di Diabolik e Kriminal, che l’autore giapponese conosciuto con lo pseudonimo di “Monkey Punch” dà vita ai fumetti di Lupin III, ispirandosi liberamente al personaggio creato da Maurice Leblanc. Lupin III è come l’originale un ladro scaltro, spesso all’interno di storie anche cruente, diremmo per l’epoca “poliziottesche”. Ma è pure e senza dubbio un grandissimo “estimatore” del genere femminile.

Che si tratti di attrazione fisica, quanto di amore romantico, il nostro eroe non conoscere freni. Moltissime strisce, accentuate da uno stile grafico sexy ma pure squisitamente umoristico, lo ritraggono infatti nudo, mentre cerca di impalmare la sua ossessione principale: la bellissima ladra Fujiko. Una Fujiko che, come Nadia Cassini e la Fenech degli anni ‘70, non lesina di esibirsi su carta, ma poi anche nelle serie tv e al cinema, in molte situazioni caratterizzate da un alto grado di sensualità. Pur se il nostro Lupin, come Lino Banfi o Vitali, è destinato ad andare (quasi) sempre incontro a un epilogo insoddisfacente, doloroso quanto tragicomico. Per poi riprendersi e riprovarci con una ossessione paragonabile solo a quella di Willie E. Coyote.

La brama d’amore vince sempre sulla brama di denaro e potere: Lupin è un vero antieroe romantico, giocoforza sempre nel mirino di qualche avido privo di sentimenti.

Alzando la posta in gioco con un forte smorzamento del suo tratto umoristico, che pur rimane, il personaggio diventava a tutti gli effetti un prodotto per adulti con il primo cartone animato a lui dedicato, uscito in Giappone nel 1971/72 ad opera della TMS, seppur arrivato in Italia solo nel 1979.

I 23 episodi che componevano la serie, spesso sperimentali quanto arditi nel rappresentare la sensualità quanto la violenza, “Eros e Thanatos”, di fatto furono la “palestra creativa” in cui, sotto la guida di animatori storici come Yasuo Ōtsuka (cresciuto nel gruppo dì Osamu Tezuka), sono fioriti Hayao Miyazaki e Isao Takahata (i futuri Ghibli), ma pure Tsutomu Shibayama (regista tv di Doraemon).

I distributori italiani del 1979, presi molto bene dall’atmosfera “anarchica e peccaminosa“ che trasudava il cartone animato, almeno quanto nella cultura dell’epoca, arrivarono a scegliere come sigla dell’edizione nostrana la hit francese “Planet O di Daisy Daze and the Bumble Bees”: un brano disco ispirato al peccaminoso libro del marchese De Sade “Histoire d’O”, che parla esplicitamente di sessualità e corsara voglia di trasgressione.

Fino al 1979 e all’uscita cinematografica italiana proprio di questo film, Lupin III - La Pietra della Saggezza, vedere Lupin in tv era davvero come leggere il noir/action di Kriminal e Diabolik. Del resto il fatto che i cartoni animati dovessero essere “strettamente roba da bambini” era una questione che non era mai stata sollevata e il pubblico italiano, con il palinsesto che era ricco anche di opere adulte e disturbanti come L’Uomo Tigre, Devilman, Bem il mostro umano, al netto di un paio di mamme che si legavano ai cancelli della Rai protestando per la messa in onda di Goldrake. Poi le cose cambiarono.

La Pietra della Saggezza arrivava nelle sale proprio in concomitanza con la seconda serie animata di Lupin III: una nuova serie che, anche per volontà dei produttori giapponesi, non era più rivolta a un pubblico strettamente adulto: risultando molto meno violenta, ancora a tratti “sensuale”, ma con una maggiore dose di ironia e disimpegno generale.

Una serie che in Italia avrebbe avuto come sigla, al posto della peccaminosa disco hit Planet O, un brano di “liscio romagnolo” ( variante “valzer parigino”) eseguito dall’Orchestra Castellina-Pasi. Una serie con protagonista un Lupin molto “burlone”, in sintesi.

Il film voleva invece, con tutte le sue forze, essere un’opera “estrema e scollacciata”, sul modello del Lupin “duro” della prima serie tv e del manga.

Ecco allora che i temi del “doppio”, del “clone” e della “rinascita”, che sono alla base della storia raccontata in questa pellicola, possono assumente anche una valenza squisitamente meta-cinematografica: raccontandoci il modo in cui il personaggio “editorialmente” si stava sdoppiando (anche per “faide” interne legate allo sfruttamento del prodotto), e lo avrebbe fatto ancora più volte in futuro, forse nel processo “perdendoci qualcosa”.

In Italia, questa “perdita di qualcosa” andò a braccetto, purtroppo, anche con la censura.

Il film arrivò in sala orgogliosamente in versione integrale, con la peccaminosa Planet O inserita nei titoli di testa e di coda.

Fu la prima e unica volta, fino ad ora, in cui si poté vedere La Pietra della Saggezza nella versione voluta dai realizzatori.

Anche grazie alle mamme che si incatenavano alla Rai per non trasmettere Goldrake, quella versione sparì per sempre: al suo primo passaggio in tv, La pietra della saggezza fu brutalmente censurato. Via tutte le scene di nudo di Fujiko, via ogni scena in cui veniva rappresentata della violenza anche se funzionale e logicamente legata alla trama, via addirittura dei quadri reali famosi se i soggetti “non adatti ai minori”, via Planet O. Tagli che renderanno la visione in alcune parti della storia anche criptica, motivati dal fatto che in tv Lupin III ora doveva fatturare nella fascia oraria destinata ai bambini. Anche la seconda stagione di Lupin, una volta spostata dalle emittenti locali alla tv nazionale, verrà tranciata di svariati minuti per eliminare gran parte delle scene sensuali presenti. Peggio toccherà alla terza serie, del 1984, che per uno scherzo del destino avrà come character designer proprio l’animatore capo de La Pietra della Saggezza, Yuzo Aoki. La splendida Fujiko di Aoki è così diventata uno dei personaggi animati più censurati di sempre. Siccome la terza serie era tornata ad essere un prodotto per adulti, in questo caso con presenti un gran numero di scene scollacciate, la mannaia della censura italiana, pur di conservare con le unghie e i denti la fascia di trasmissione dei più piccoli, sforbicerà o addirittura ribalterà il senso narrativo di diverse puntate, riuscendo in alcuni casi a toccare vette di incomprensibilità e assurdo allucinanti.

C’è da dire che questo infausto periodo di censura è finito e oggi sono giunte a noi, senza tagli, anche le successive serie di Lupin “più spinte” sul piano dell’erotismo e della violenza visiva. Faccio riferimento soprattutto alle opere firmate da Takashi Koike e nello specifico alla miniserie “La donna chiamata Fujiko Mine”, che riprende molte delle atmosfere e tematiche a metà strada tra arte, la metafisica e la sensualità proprie de La pietra della saggezza.

Negli anni, in Giappone, svariati autori hanno messo mano a Lupin e al suo mondo: come lo stesso Monkey Punch, che ha voluto dirigere un suo film personale, Dead or Alive, che ovviamente era uscito come un “poliziottesco durissimo”, pur con venature fantasy. Come Miyazaki, che con Il castello di Cagliostro ha “codificato” un “proprio Lupin”, perfettamente integrato nelle opere sognanti dello studio Ghibli. Ogni autore ha in qualche modo modificato il personaggio in fisionomia, a volte anche in carattere, a volte anche solo “aggiornandolo” per andare incontro a un pubblico che in 50 anni si è molto diversificato.

Sono nati così tanti doppi o “cloni”, che un giorno TMS ha deciso di far “incontrare e scontrare” tutti insieme, in un’interessante storia “corale”, nello special Green vs Red del 2008, per la regia di Shigeyuki Miya. Un film per il quarantesimo anniversario della serie in cui figuravano sulla scena ben più di quaranta diversi Lupin. Ma è in fondo proprio qui, ne La Pietra della Saggezza, che viene rivendicato il diritto artistico di “clonare” Lupin per renderlo così in parte immortale.

Yamato Video “resuscita” oggi in sala La Pietra della Saggezza, oltre che con il massimo della definizione audio e video possibile, anche con il primo doppiaggio originale non censurato (cui seguirono ben tre doppiaggi in parte “censurati”).

La nuova edizione della Pietra della Saggezza conferma, ancora una volta, la volontà dell’editore milanese di ripristinare e riportare al suo splendore, rigorosamente senza censure, tutto il materiale originale legato a Lupin III.

(La pietra della saggezza come ci appare oggi al cinema, nel 2024)

Lupin III - La Pietra della Saggezza è il primissimo film cinematografico di Lupin III e viene affidato alla regia dell’esperto Soji Yoshikawa, che prima (tra le mille cose) era stato già alla direzione di alcune puntate di serie tv come Rocky Joe, Yattaman, Zambot 3 e Conan.

La pellicola, visivamente molto sontuosa e animata da un ritmo dell’azione quasi ossessivo, ha potuto godere di un alto budget, pari a 500 milioni di Yen, che ha portato al coinvolgimento attivo di una troupe di 1513 persone per 15 mesi, arrivando a una release che si sovrapponeva con la messa in onda della stagione 2 e anticipava solo di pochi mesi il secondo film cinematografico dedicato al personaggio, Il castello di Cagliostro di Hayao Miyazaki.

Proprio per la straordinaria forza e qualità delle scene d’azione, molte sequenze de La Pietra della Saggezza saranno scelte, insieme a spezzoni de Il castello di Cagliostro, per comporre il laser game Cliff Hanger di Stern Electronics, uscito nel 1983 e arrivato anche nelle sale giochi italiane.

L’ottima colonna sonora è firmata dall’inconfondibile compositore jazz Yuji Ohno, che proprio da questo film, insieme alla concomitante stagione due, sarà fino ad oggi il musicista di riferimento di ogni opera legata a Lupin. La musica di Ohno a volte entra anche lei “nell’azione”, come in una sequenza in cui Mamoo cerca di colpire Lupin con uno dei raggi laser che partono dalla pressione dei tasti di un organo.

La trama confezionata da Yoshikawa e Yamatoya è decisamente folle e sopra le righe. Da un lato è spiazzate l’apocalittica messa in scena dello scontro tra il nostro eroe e un avversario quasi onnipotente, che non lesina di esibire la sua forza in scene iperboliche e vertiginose, grandiose quanto molto crude, con risvolti sinistri, a volte anche splatter. Si respira molta tensione, i personaggi sovente viaggiano attraverso quelli che sembrano autentici viaggi allucinatori, ma al contempo la storia appare davvero ricca, suggestiva. Ci sono rimandi alla situazione geopolitica dell’epoca, “guest star” politiche come Henry Kissinger. Si gioca con temi cari alla filosofia quanto alla psicanalisi, rappresentando lo scontro tra Lupin e Mamoo simbolicamente come il conflitto tra l’istinto che si contrappone alla ragione, se vogliamo alla ricerca del significato più profondo della “saggezza”: se sia più saggio vivere il presente o temere costantemente di morire pensando al futuro e rimpiangendo il passato. La sceneggiatura non si vergogna di lanciarsi in metafore anche di natura “freudianamente” sessuale, come una scena che ha per protagonista la celebre spada Zantetsu di Goemon. A volte la trama si fa pure sarcastica e quasi fantozziana, come nella scena dell’incontro totalmente surreale tra Zenigata e il sovrintendente.

L’intreccio de La Pietra della Saggezza va poi gradualmente nel terzo atto quasi a dissolversi, assumendo la forma di flusso di coscienza o un viaggio onirico in cui i tempi sono dilatati, la direzione del racconto in continuo divenire. In 102 minuti accade quasi di tutto.

La caratterizzazione dei personaggi, opera di Yasuo Otsuka, vede un riuscito Lupin dalla fisionomia particolarmente buffa, caricaturale e arcuata, ma sempre pronto a dimostrarsi “serio e credibile” nell’affrontare i momenti più drammatici. Fujiko è più che mai bellissima e slanciata, in diretta “competizione” con le forme delle tante statue delle divinità greche di cui abbonda l’isola di Mamoo, ma come sempre ben più “complicata e profonda” di come appare in superficie: convincente anche nelle scene più action, drammatiche come umoristiche.

Il faustiano Mamoo richiama in moltissimi dettagli Swan, il villain interpretato da Paul Williams nel seminale Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma, pellicola cult del 1975 che avrebbe ispirato molto anche l’immaginazione di Kentaro Miura. Come Swan, Mamoo “spia” il mondo da dietro telecamere nascoste, ha una vera ossessione per la bellezza e cerca con tutte le forze di epurare il mondo dal “brutto”, cercando di edificare un proprio personale paradiso in terra.

Al di là di tutto il suo sconfinato potere, Otsuka ce lo rappresenta come Paul Williams piccolo, dal corpo né adulto né bambino, con occhi incredibilmente grandi ed espressivi che a volte ci fanno provare anche pietà per lui. È simile a un tragico guscio vuoto, sempre sul punto di rompersi.

Goemon e Jigen, così come Zenigata, hanno un design forse più convenzionale, ma offrono il meglio di loro in dialoghi serrati quanto a volte sopra le righe. Particolarmente divertente è Goemon, che qui appare decisamente meno taciturno del solito ed esprime il suo momentaneo stato d’ansia attraverso fiumi di parole quasi incontrollate e continui battibecchi con Jigen.

Esteticamente, La Pietra della Saggezza profuma delle stesse atmosfere esotiche di James Bond.

Cita in una lunga sequenza The Duel di Spielberg del 1971 e attraverso le sue ricche scenografie lancia continui rimandi al cinema di genere del suo periodo, tra la fantascienza (le geometrie asettiche di 2001) e il fantasy (il futuro che si mischia con il passato di Zadoz).

Davvero affascinanti le suggestioni grafiche legate al mondo dell’arte classica e moderna propria degli anni 60/70, con scene che hanno sullo sfondo rivisitazioni molto fedeli di opere come Il Giudizio Universale di Michelangelo Buonarroti, Mistero e Melanconia di De Chirico, Relatività di Escher, La persistenza della memoria di Dalì. Ci sono scorci del Partenone, rievocazioni delle illustrazioni di Bacone per la Divina Commedia, edifici che richiamano Atlantide come Babilonia, centinaia di farfalle colorate che diventano quasi dei mosaici post-moderni.

Assume oggi un gusto del tutto particolare la sequenza quasi onirica con Napoleone e Hitler, con molte similitudini con quanto avviene nel surreale fantasy Fairytale del russo Sokurov, uscito nelle nostre sale giusto nel Natale 2022.

(Finale)

Al netto di una trama adulta e molto affascinante, ma che in alcuni passaggi può risultare complessa, tutto il comparto tecnico dell’opera risulta di altissimo livello ancora oggi.

È un film folle, anarchico, metafisico, psichedelico, sensuale e sarcastico.

È un film che volutamente estremizza ogni concetto e forma, andando a disegnare un Lupin davvero unico.

Un Lupin che grazie a Nexo e Yamato Video, che hanno recuperato l’opera nella sua forma migliore e non censurata, torna a vivere come voluto dai suoi autori, a distanza di 45 anni, in sala, in questa calda estate del 2024.

Un appuntamento imperdibile per tutti i fan del personaggio, ma anche per chi ama l’animazione e le mille suggestioni del cinema degli anni ‘70. Lupin III al cinema non è “solo“ Il Castello di Cagliostro. 

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lunedì 24 giugno 2024

L’impero: la nostra recensione del surreale film di Bruno Dumont con Brandon Vlieghe, Anamaria Vartolomei, Camille Cottin e Fabrice Luchini


Siamo nella Francia del nord, in piena estate, ai giorni nostri.

In un piccolo paesino di pescatori della Cote d’Opale, che come ogni anno si anima di colpo di giovani e belle turiste mezze nude, con la voglia di stare in spiaggia sotto l’ombrellone, si fanno i preparativi per l’apocalisse.

È nato il signore del caos e ha occhi azzurri e capelli biondi, un viso un po’ a patata.

Il padre, Jony (l’attore non professionista Brandon Vlieghe), che dovrebbe essere tipo un grande ufficiale dell’impero degli “zero”, è un tizio sulla trentina davvero bruttarello e anonimo, perennemente in tuta da ginnastica, che tutto il giorno traffica con delle barche e sembra non aver fatto altro tutta la vita. Ha una voce demoniaca, riesce a sedurre un numero incredibile di donne bellissime con quella che appare ipnosi. Ma in fondo vive con la anziana madre in una casetta fatiscente come mille ragazzi della zona, anche se è saltuariamente al comando di quattro vecchietti amanti dei cavalli. I contatti con i capi avvengono nei pressi di un boschetto poco distante dal paese, in una dimensione parallela piena di sfere fluttuanti e parlanti nere e brutte come piccolo sacchi della spazzatura, che vivono all’interno di una specie di reggia/astronave spaziale. 

Chi contrasta la fine di tutto è Jane (Anamaria Vartolomei), una angelica fanciulla della razza degli “Uno”, perennemente mezza nuda, che fa affidamento come alleato quasi solo su un bambinone non troppo cresciuto, Rudy (l’attore Julien Manier) che ama le spade laser e la fantascienza e anche lui vive con la mamma a pochi passi da Jony. La creatura angelica riporta a una dimensione parallela poco distante dalla riva, a cui si accede con un passaggio subacqueo. È un luogo simile a una chiesa, in cui vivono fluttuanti e parlanti sfere blu acceso simili a mappamondi. 

Sono secoli e secoli che soldati di ambo gli schieramenti aspettano dallo spazio l’arrivo del grosso delle truppe delle rispettive razze. 

Alla resa dei conti finale manca davvero pochissimo, al punto che si materializzano nei rispettivi palazzi anche i comandanti spaziali in capo. Da un lato c’è Regina (Camille Cottin), che ama così tanto passare del tempo con i terrestri che si è fatta eleggere pure sindaco del paesino. Dall’altro lato c’è Belzebuth (Fabrice Luchini), che detesta i terrestri e preferisce stare isolato nel suo palazzo di potere spaziale, ascoltando creature sonore e ballando in vestiti eccentrici, in attesa di distruggere ogni cosa.

Le interferenze con la realtà di questi due eserciti extra dimensionali, che si affrontando tra le strade e la spiaggia mettendo sempre più tutto a ferro e fuoco, iniziano a creare un caos che non fa bene al turismo locale, scatenando incidenti sempre più curiosi, sui quali cercheranno di indagare i poliziotti un po’ rintronati Carpenter (Philippe Jore) e Van der Weyden (Bernard Pruvost), per lo più arrivando a conclusioni surreali. 

Il giorno dello sconto finale si avvicina e Jony e Jane iniziano a pensare alla possibilità di passare il tempo “in modo diverso”, rispetto dall’annientarsi a vicenda. Sarà una tregua o nella Cote d’Opale finirà per sempre la storia della razza umana?


L’impero arriva nelle sale in quel di giugno come un autentico “ufo”: un curioso oggetto filmico poco identificabile. 

Arriva come vincitore a Berlino con motivazioni forse troppo criptiche o troppo “alte”, pur avendo una estetica del tutto diversa da qualsiasi film che vince a Berlino.

Arriva letteralmente sbudellato in due da critica e pubblico, divisi fino alla morte tra chi ne è rimasto “comunque affascinato” e chi piuttosto un po’ inorridito.

Arriva quasi di nascosto, come un guilty pleasure in poche sale. 

“Cos’è di preciso” L’Impero, è materia complicata. 

È pieno di navi spaziali di cartapesta, donne semi nude come nella fantascienza sexy anni ‘70, personaggi buffi ai limiti della macchietta e una sceneggiatura a tratti sgangherata quasi da film indipendente Troma. È ricco di attori importanti del cinema francese ma nel cast figurano anche esordienti assoluti, di fatto trovati sui luoghi delle riprese in corso d’opera. 

È forse un fantasy un po’ antipatico e girato con tre lire che ci racconta di quanto, fuori dall’estetica laccata che costa svariati miliardi, tutti i fantasy sono concettualmente di fatto antipatici e “se la tirano molto” più sulla rappresentazione che sui contenuti?

È forse un film che usa attori di strada in ruoli principali anche “favolistici”, come faceva Pasolini, in cerca di una purezza che si è persa nello star system attuale, ma che non rinuncia a grandi attori come Luchini e la Cottin in piccolissimi ruoli eccentrici? 

È un film sulla religione o la politica, il bene o il male, gli uni o gli zero e in genere tutti gli “opposti”, che vivono costantemente come diadi inconciliabili, dove in fondo però tutte le idee più estreme possono convivere grazie al “sesso”, con chi la pensa diversamente? 

È quindi un film d’amore vero contro spade laser e concetti metafisici farlocchi?  

È un film sull’attualità o un film che in fondo riporta argomenti vecchissimi di anni? 

Ma poi, a che razza di pubblico è rivolto? Al “pubblico di razza” dei cineforum o a chi i cinefili più duri e puri dicono “ma che razza di film stai guardando?” puntando l’indice a chi ama il disimpegno cinepanettonico? 


Quasi lo percepiamo, a chilometri di distanza e da quella prima uscita alla Berlinale, Bruno Dumont che se la ride. 

Lo fa di gusto, per tutto il caos gioioso e anarchico che ha messo sulla scena nelle effettivamente “importanti” 2 ore e dieci di durata della pellicola. Minuti a tratti concitati ma spesso interminabili, meditabondi, quasi muti, in cui i protagonisti si limitano a spostarsi da un luogo di cartapesta e l’altro come in quel grande “film sul trekking” che per Kevin Smith, in un celebre e irriverente commento, era Il signore degli anelli

Anche per inquadrare le astronavi e le basi degli Zero e degli Uno per intero occorrono lunghissimi minuti che parodizzano la stazza degli incrociatori di Star Wars come faceva lo Space Balls di Mel Brooks. 

Però qui tutto è visibilmente finto. Gli abitacoli hanno al loro interno visibilmente delle sedie da giardino e il fatto che lo scontro apocalittico finale riguardi tue tizi che vivono con la mamma nello stesso vialetto e si menano con finte spade laser ci immerge per lo più nella trama-tipo di un episodio di South Park.

Se poi consideriamo che Bruno Dumont è famoso per qualcosa di esteticamente meno fuori dalle righe, ecco il motivo del fioccare dei capelli strappati dalla disperazione di molti spettatori, ecco le accuse di essere un “bollito”, ma non gourmet. Di fatto qui il nostro Dumont gioca con l’estremo, ma non dimentica le sue origini e le sue ossessioni. 

Le sue ultime ossessioni, per il concetto di vero vs apparenza, ce le ricordiamo dal suo precedente e ugualmente stranissimo, ma meno estremo, France. Lì una bellissima Lea Seidoux interpretava una famosissima quanto falsissima giornalista, cinica fino al midollo per la sua “fame di fama” e voglia di riflettori, incapace però di reale empatia. A causa di questa assenza di coinvolgimento emotivo, la Seidoux si “autoprovocava” emozioni, in modo innaturale, complesso, spingendo il suo corpo quasi a contorcersi pur di spremere fuori delle lacrime autentiche, in grado di raggiungere il cuore dei suoi spettatori. Era una contorsione da Body Horror ed ovviamente fatica sprecata, perché per Dumont tutte le infrastrutture emotive o fisiche, che non sono autentiche, sono prima o poi destinate a crollare o mostrarsi di colpo per quello che sono: per lo più vacue, seppur molto colorate bolle di sapone.

Anche L’impero ci parla di bolle di sapone e dello stacco crudele tra realtà e grandiosità, andando sarcasticamente a costruire uno scenario apocalittico del tutto anti-epico, spoglio quanto tragicamente, “fantozzianamente” dimesso. Lo scenario inadeguato per uno scontro che potrebbe portare alla fine del mondo: un evento di cui non importa nulla o comunque pochissimo agli esseri umani, specie nel periodo delle ferie estive, al di là di quelle tre/quattro persone direttamente coinvolte nella vicenda, in un paesino che non avrà neanche 100 anime. 

Dumont usa santi e diavoli, ma non nasconde mai l’intento di parlarci di un potere o di una classe politica attuale quanto concreta, sempre più incapace di dialogare con se stesso e tanto meno con la gente comune. Un potere temporale quanto secolare sempre più appassionato a scenari di “distruzione intergalattica”, forse anche per la sua nascosta paura di essere ora dimenticato da tutti, di liquefarsi come bolla di sapone al sole, nell’indifferenza generale di una cittadina di pescatori che anche senza diavoli e angeli potrebbe benissimo andare avanti. 

Dumont scatena così anche il più classico dei tabù in virtù del quale le persone si dimenticano del potere in genere: il sesso. È un sesso gioioso, compulsivo, del tutto intenzionato a ristabilire il primato della carne sopra una “ragione che ragiona troppo”, per colpa di un “potere sempre più alieno”, come di fatto gli Zero e gli Uno appaiono effettivamente essere “alieni”.

Il tutto viene condito poi con abbondanti dosi massicce di assurdo, mucche volanti e poliziotti surreali, sovrani intergalattici folli e ossessive manie sulla moralità o immoralità di ogni cosa. 

L’impero di Bruno Dumont è una grande pernacchia a tutto ciò che è tronfio. 

Per questo è anarchicamente sgangherato nella forma, esteticamente e artisticamente dimesso, ricercatamente grottesco e kitch, “libero” al punto da risultare antipatico specie a chi, con quel nome (“L’impero”) e quelle premesse (La “Space-opera”), si aspettava magari Star Wars che incontra Il Signore degli Anelli sul pianeta Dune. Un grandiosità di cui la Francia è capacissima in senso artistico e culturale da sempre, probabilmente la prima al mondo, ma anche una grandiosità che spesso, come insegnano i tempi recenti, può essere fine a se stessa. Una grandiosità che Bruno Dumont non vuole e quindi, umilmente, decide di “non-esprimere”, in un “Non-colossal”. 

L’invito che rivolgo al pubblico che troverà questo strano tesoro in una sala cinematografica estiva, all’ombra di un cartone animato Pixar, un action Movie e Mad Max, è quello di “vivere L’impero” anche nella sua innegabilmente e gioiosa antipatia. Guardare alle sue spade laser di plastica come a semplici spade laser di plastica, ridere per le mille gag visive che riguardano animali teletrasportati in luoghi strani, ridere di Luchini che fa il monarca spaziale, del dress code stile Barbarella degli Angeli sotto copertura, del cast di attori della proloco, della cartapesta. 

Ridere di ogni assurdo seguito da nuovo assurdo, senza cercare troppi paragoni, per infine scoprire quanto di davvero interessante e geniale questo strano hellzapoppin può offrire, nel classico stile di Bruno Dumont. 

Non per tutti, decisamente. Ma si sicuro per chi ama veder scoppiare i tabù come bolle di sapone. 

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giovedì 20 giugno 2024

The Kill Room: la nostra recensione del surreale film sul mondo dell’arte di Nicol Paone, con protagonisti Uma Thurman, Joe Manganiello e Samuel Jackson

Ci troviamo in una New York periferica dei giorni nostri, tra le strade popolari di Hoboken. 

La gallerista Patricia (Uma Thurman), che si ritiene una delle migliori professioniste nel suo campo, è in crisi. La sua pittrice di riferimento, la giovane e insicura Grace (Maya Hawke), per la quale sente una specie di affetto materno, non vende più come prima ed è scontenta del patrocinio. La galleria è sommersa da debiti, l’edificio è molto fatiscente e tutto da ristrutturare, la stagista “che sembra un minion” Leslie (Amy Kewn) non aiuta e ci sono da pagare pure i debiti di Patricia. Debiti che “in periodi di crisi” sono nei confronti di persone un po’ losche, che occasionalmente le forniscono gli psicofarmaci necessari per reggere lo stress. 

Piegarsi e vendere tutto alla civettuola gallerista rivale Anika (Drew Hamingway) sembra ormai l’unica soluzione, quando dallo scaltro malvivente Gordon (Samuel L.Jackson), all’apparenza un panettiere jiddish di Hoboken, autoproclamatosi il miglior panettiere Jiddish di Hoboken, arriva un'inaspettata soluzione. 

Anche a Gordon gli affari vanno male, specie da quando hanno arrestato gli addetti della sua organizzazione adibiti al riciclaggio. La “crisi” è per tutti, ma la soluzione può essere “l’arte”. 

Gordon pagherebbe sottobanco per dei quadri-patacca che Patricia certificherebbe come opere d’arte di svariati mila dollari e poi entrambi dividerebbero in percentuale gli utili di soldi puliti. È una truffa bella e buona, ma Patricia è una gallerista di arte moderna credibile, decaduta ma affermata, e l’arte moderna risulta “soggetta” a valutazioni spesso “fuori parametro”, che coprirebbero in parte le sue balle. 

Titubante, la gallerista accetta. 

Ma servirebbe anche trovare un nuovo artista in grado di suscitare interesse e dare credibilità al tutto, magari un tizio nuovo, misterioso e carismatico. Gordon propone Reggie (Joe Manganiello), un tizio che lavora per lui, più che altro sulla base del ragionamento che per l’arte è tirare pennellate a casaccio su un foglio. 

Reggie non ha mai espresso velleità artistiche, è più famoso come killer che usa come modus operandi soffocare le vittime con sacchetti di plastica, ma fin dalle prime pennellate a casaccio ha del “potenziale”.  Di sicuro è anche lui il migliore nel suo settore. 

Il nome d’arte scelto è “The Bag Man” (letteralmente “l’uomo dei sacchetti”) e Gordon si premura di non rivelare altro su Reggie neanche alla gallerista. 

Ma ecco che la voglia di emergere di Patricia, in coppia con la voglia di Reggie di emergere come pittore e quella di Gordon di fare soldi, iniziano a mescolare le carte.  Le opere di The Bag Man, pur poche e blindatissime, pur stranissime e per alcuni osservatori parecchio brutte, funzionano.

Succede per via di svariati giri di parole e strani e immotivati incrementi di prezzo, più il passaparola, più “il mistero”, più il fatto che ognuno ha una propria visione dell’arte. I quadri, che sembrano fatti con pennellate simili a coltellate, e poi le sculture, a base e “tema” di sacchetti di plastica rosso sangue, iniziano ad attirare l’attenzione di collezionisti e critici d’arte leggendari. Tra questi, la quotatissima e terribile Kemono (Debi Mazar), che adora Bag Man. 

A Patricia viene così data l’opportunità di allestire un'importante esposizione con performance dal vivo di The Bag Man in un museo prestigioso. Kemono vuole un'intervista esclusiva tutta per lei e questo significherà una recensione leggendaria. 

Reggie grazie a questi riflettori pensa di riuscire a cambiare vita ed estinguere i debiti con l’organizzazione. Ma tutti questi risvolti non piacciono molto ai superiori di Gordon, una famiglia di malavitosi ma anche i migliori ristoratori di cotolette di maiale di Hoboken.  

Non piace il fatto che Reggie, che era bravissimo come killer, ora non si possa più utilizzare come tale. Non piace il fatto The Bag Man vende troppo e loro non ricevano una maggiore fetta di torta. Vogliono anche loro fare e vivere di arte, come di fatto ci vivono i clienti della gallerista concorrente di Patricia, che si occupano primariamente di traffico internazionale di armi. 

Intanto tra Reggie e Patricia nasce una particolare intesa che si trasforma in breve in rispetto artistico: i lavori del killer hanno di fatto qualcosa di speciale e unico, vivido quanto disperato. Un “dolore“ che la gallerista riesce a riconoscere e apprezzare, fino a che inizia a spaventarsi e a comprendere il reale lavoro di Reggie. All’improvviso la donna capisce che Reggie è davvero un killer. 

Lo scopre in diretta streaming e ha un attacco di vomito, che esprime dentro una scultura di The Bag Man: un sacchetto rosso sangue dove immagina di vedere dentro una testa soffocata. 

Riuscirà l’arte a essere più forte di tutti questi imprevisti? 

Riuscirà The Bag Man a diventare il migliore autore di arte moderna del futuro? 


Dopo lo straordinario, bellissimo e controverso The Square, con Uma Thurman  produttrice torniamo a vedere un film “mille volti” dell’arte moderna. 

Anche se Nicol Paone a prima vista sembra confezionare un film abbastanza divertente e sopra le righe, per molti versi anche abbastanza convenzionale e non esplosivo nella messa in scena, The Kill Room è dotato di un'importante dose di cinismo e scorrettezza che ne fanno un’opera del tutto singolare, crudelmente sarcastica quanto a tratti quasi tetra.

The Square ci parlava di “spazio”, del confine più o meno valicabile tra l’arte moderna e il mondo fisico, portandoci alla ricerca di simboli, segni e forme,  che nel loro atto realizzativo “si fanno e diventavano” anche performance disturbanti degli stessi artisti, primitive quanto potenti. The Square puntava con intelligenza e ironia sul valore espressivo, sulla ricerca di emozioni forti attraverso un medium come l’arte. 

The Kill Room ci parla invece di denaro e affini, che si moltiplicano in virtù della prezzatura di un’arte nata senza intento artistico, riconoscibile però emozionalmente in termini di forza e violenza realizzativa. L’atelier del killer Bag Man è così una “Kill room”: un mattatoio dove rappresenta su tela l’unica cosa che ha imparato a fare negli anni, cioè uccidere. Tuttavia, essendo “arte moderna”, perfino la gallerista impersonata dalla Thurman ci mette un po’ a decodificare il significato delle sue opere. Per poi indignarsi. Per poi un secondo dopo ritenerle nuovamente delle belle opere e ritenere di nuovo Bag Man effettivamente un talento. 

Il film di Paone vive su continui “cortocircuiti” di questo tipo: storie di truffe e truffatori che forse non sono però del tutto accreditabili come tali “perché dietro c’è comunque del talento”. Magari non talento “a 360 gradi”, ma comunque del talento che può essere riconosciuto. 

È un film che si radica quasi su una “ossessione per il talento”, malattia di cui soffrono tutti i protagonisti sulla scena, ma che gli permette la ricerca di un loro ruolo nel mondo.

Il serafico personaggio di un Samuel Jackson è un malavitoso controvoglia, ma con grande talento è anche un panettiere. La Thurman è una pessima gallerista in bancarotta ma ha talento per dire balle. Bag Man un killer infelice, ma col talento per la pittura. L’organizzazione criminale funziona meglio come ristorazione. 

Sono tutti ossessionati dallo spreco del loro per talento. 

Un'ossessione che poi diventa talento quasi per “autocertificazione”, di fatto spernacchiando un po’ la critica e i suoi mezzi di valutazione basati su parametri “materialistici”: come la presunta “preziosità” di un oggetto sulla base di recensioni favorevoli (che si possono falsare) disponibilità sul mercato (che si può falsare), prezzo (che si può anche lui falsare), firma di un autore (falso). 


Solo dopo che sono state “certificate come  arte”, le opere di Bag Man diventano di colpo opere piene di fascino e significati profondi… che vanno anche al di là degli effettivi intenti. È solo allora che “il primitivo diventa arte”, sembra suggerire Nicol Paone. Decisamente un punto di vista scorretto, ma in qualche misura anche squisitamente “critico” di un sistema che oggi potrebbe, per qualcuno, far fatica a smentire che le cose possano di fatto accadere in questo modo. 

Interessante e davvero inquietante il ruolo di Joe Manganiello, che nemmeno per un istante assume i contorni comici che ci si aspetterebbe. Il suo Bag Man, killer sul serio con velleità artistiche, in qualche modo rimane impresso e ci fa temere sul possibile “cuore nero” degli autori di certe opere d’arte decisamente disturbanti. 

Anche il fatto che venga dipinto un mondo dell’arte in perenne balia di ricchi e loschi faccendieri mette una certa ansia, piuttosto che stimolare ironia. Adeguato, ma un po’ convenzionale, il lavoro del resto del cast.

Scorrevole la scrittura, sebbene ogni tanto il ritmo si faccia altalenante e la “transizione” tra i momenti più leggeri e quelli drammatici non sempre appaia riuscita.

L’idea alla base della costruzione del film è però davvero stimolante e fa meritare a The Kill Room di Nicol Paone almeno una visione. 

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