sabato 15 giugno 2024

Kinds of Kindness: la nostra recensione della nuova surreale opera di Yorgos Lanthimos. Una raccolta di tre store decisamente “greche”

Kinds of Kindness è un film diviso in tre episodi strani e surreali, che vanno affrontati alla cieca, con meno elementi narrativi possibili a fare da guida, in “piena immersione”. 

Sono episodi molto elaborati e “ludici” a livello simbolico, in cui si possono rintracciare significati diversi a seconda del particolare punto di vista di ogni spettatore.

Io “il viaggio” non ve lo voglio rovinare.

Sono qui solo per offrirvi come negli anni ‘80 un “travelgum”: un chewing-gum anti-stress concepito con l’intento di alleviare il mal d’auto, in preparazione delle mille curve emotive che la visione di questa pellicola potrebbe causarvi.


 
C’è un scena emblematica, in Borotalco di Carlo Verdone: la visita del personaggio di Verdone al rosticciere impersonato da Mario Brega. 

Brega fa provare a Verdone varie pietanze e poi arriva a delle leggendarie “olive greche”. Brega le definisce specialissime proprio in quanto “greche”. Verdone assaggia ed è invitato a commentare “come so’ ‘ste olive??”. 

E Carlo risponde, serissimo e convinto dell’unica corretta definizione che ha appena appeso: “So’ greche!!!”. 

Allo stesso modo, non si può dare una definizione precisa di come ci si sente alla fine della visione di questa pellicola di Lanthimos, al di là del fatto che è senza ombra di dubbio un “prodotto di Lanthimos”. Un prodotto che per l’ironia, il surreale, Emma Stone e Willem Dafoe, una visione distorta e quasi “psicanalitica” della realtà che lo accomuna ad Ari Aster, le musiche strane e la particolarissima fotografia, è senza ombra dubbio un distillato di Lanthimos. Un Lanthimos così riconoscibile e unico nella messa in scena e linguaggio che, forse non a caso, è anche lui stesso, per le sue origini anagrafiche, “greco”. 

E quindi le tre storielle del film sono per proprietà transitiva decisamente pure loro, come le olive di Verdone: “greche”. 

Le tre “storie/olive”, scritte da un Lanthimos forse più ironico e divertito del solito, insieme al sodale Efyhimis Filippou (suo co-autore di Dogtooth, Alps, The Lobster, Il sacrificio del Cervo Sacro), ci vengono presentate come un trittico legato a una figura emblematica e ricorrente, di nome R.M.F., interpretata sempre e solo dall’amico di vecchia data di Lanthimos, il noto attore greco Yorgos Stefanakos.

Il personaggio di R.M.F. da anche il titolo a ogni storia: “La morte di R.M.F.”; “R.M.F. è in volo”; “R.M.F. mangia un sandwich”. 

Ma in ogni storia, sebbene il mosaico collettivo possa sembrare “unico” (o per lo meno cerca di sembrare tale disperatamente, per il disperato spettatore), compaiono, in ruoli e contesti ogni volta diversi, sempre gli stessi attori: Emma Stone, Jesse Plemons, Willem Dafoe, Margaret Qualley e pochi altri. In ogni storia R.M.F. è in qualche modo presente, anche solo per pochi secondi, quanto spesso assolutamente periferico. 


R.M.F. è un viaggiatore multidimensionale? Forse una specie di divinità in contrasto con altre simili su piani dell’esistenza diversi (magari spiegabile con le pergamene del mar morto di Evangelion/testo religioso a scelta)? 

Forse trova un senso più chiaro guardando gli episodi in un ordine diverso da quello proposto nel montaggio?

O forse è semplicemente un geniale e molto articolato “mcguffin”: un sarcastico e volutamente inspiegabile “congegno narrativo a uso ridere”, messo in campo da quei bricconi di Lanthimos, Filippou e Stefanikos per vedere poi come gli spettatori-topolini si muoveranno: alla ricerca del senso di una storia che senso forse non ne ha (Vasco Docet.)?

Se la risposta è quest’ultima, funziona al 100%: perché la rete è già piena di gente alla ricerca del significato più profondo e nascosto, nonché “ufficialmente garantito” delle tre storie/olive. Magari anche sulla base di dotte letture comparate che spaziano da Esopo a Omero e tengono nel mezzo tutti i miti e tragedie, che da secoli e secoli accomunano il sapere dei massimi produttori e fruitori di olive greche. 

È bello che un film stimoli curiosità, ma io vi ricordo che sono qui con il vostro travelgum e voglio prepararvi al peggio.

Spesso il film sembra quasi bullizzare la gente che “non si gode il viaggio”, perché ossessionata nel vicolo cieco del “capirci qualcosa”, prendendola continuamente a sberle di surreale e ironia a ogni minuto che passa. È uno stress continuo, che può distrarre e a volte far incazzare. 

Qualcuno si sentirà magari spennacchiato come nel finale metafisicamente non-sense di Beau ha paura di Ari Aster. 

Qualcuno si sentirà pur legittimamente deluso, magari dopo essere rimasto “folgorato” dopo La Favorita, avvertendo quasi a livello tattile che l’autore greco è qui in una totale e spensierata “libera uscita”, come lo era forse il Ridley Scott di Una magnifica annata. Si apprezza il “divertimento generale”, ma giustamente si chiede “qualcosa di più”, a uno che è considerato l’astro nascente del cinema moderno. 

Voi non fatelo, evitate di perdervi nei simbolismi, state insieme a Emma Stone che improvvisa buffi balletti della vittoria in quello che vuole essere sostanzialmente un film comico strano.

Mi immagino benissimo Aster con Lanthimos, Filippou e Stefanikos tutti insieme a degustare con Verdone olive greche. Voraci, come se gli mancassero da troppi anni e ora volessero ingozzarsi senza un domani, magari con il rischio di esplodere:  come la rana che voleva sembrare più grande del bue in una celebre favola del “sempre greco” Fedro. 

Non dategli soddisfazione, guardate le cose in positivo.

Se è vero quanto ci ricordava Gabriele Salvatores in Mediterraneo, con l’affermazione che  “italiani e greci, (sono) una fazza una razza”, con questo Kinds of Kindness ci si può anche divertire moltissimo senza ragionarci troppo, al di là di ogni malumore, mal di pancia, metafisiche ricerche di significato ossessivo/compulsive e (di rimandi all’irritazione) evocazioni vernacolari assortite. 

Oltre alla enorme barriera corallina di olive greche, si fanno largo personaggi con tratti e dilemmi boccacceschi. Impera un senso dell’assurdo avvicinabile alle nostre commedie del passato più strane come I Mostri, Vedo Nudo. Troviamo persino, in un plot twist quasi geniale per irriverenza qualcosa della commedia sexy più scollacciata. Ci sono molti rimandi degli horror anni ‘70 sulle sette religiose. 

Lanthimos omaggia, coccola, si immerge e ci immerge in un non-luogo che ci è emotivamente familiare. 

Il montaggio è sempre veloce e permette alle tre storie di avere ognuna un respiro proprio, velocità e tempi diversi. 

La cornice quella di una America odierna a 360 gradi: divisa tra i palazzi dove si tengono strani giochi di potere, una sonnolenta casetta in legno di provincia carica di insoddisfazioni familiari, on the road tra motel e deserto “waiting for a Miracle”, come cantava Leonard Cohen, per dei tizi in missione per conto di una setta.  Lanthimos ci fa ridere ma come sempre sa scompigliare le carte da un momento all’altro, giocando con le regole del thriller e dell’horror. 


Gli attori sembrano essersi divertiti un casino sul set e trasmettono a pieno tutta la disinvolta follia che abita i loro personaggi. 

La ex fidanzatina d’America Emma Stone, che ai tempi di Gangster Squad era stata bollata come troppo timida e trattenuta, dopo la “cura Lanthimos” è ormai un pozzo di energia senza freni, un catalizzatore emotivo magniloquente, quasi una idrovora. Sulla stessa strada è Margaret Qualley, che da subito ha scelto dei ruoli estremi e sopra le righe (e qui fa lo stesso), per dimostrare la sua grande versatilità e voglia di trasgressione, attirando anche l’attenzione di grandi registi come Ethan Cohen e Tarantino. 

Un plauso anche al sempre più bravo e convincente Jesse Plemons che, per la peculiare scelta delle parti, per molti è in qualche modo già il successore spirituale del compianto Philip Seymour Hoffman. Nel recente In Civil War di Garland, come del resto fa anche in Killers of the Flower Moon di Scorsese, ha dimostrato di saper dominare la scena e rendersi iconico pur in un ruolo di pochissimi minuti. Qui zompetta dal ruolo di vittima a carnefice più volte, indossando come svestendo i ruoli con una disinvoltura assoluta. 

Dafoe con Lanthimos si sta invece felicemente sempre più trasformando in Vincent Price: un grande vecchio saggio del cinema che non disdegna i ruoli più folli e sa infondere umanità attraverso anche la sua fragilità. Dafoe qui non teme mai di mettersi a nudo e con generosità si lancia nei ruoli più eccentrici, passando con disinvoltura da mite a luciferino a un assurdo santone con vocazioni imprenditoriali. 

Tutto il cast si sdoppia e triplica, veste ruoli sempre più distanti e quasi antitetici ai precedenti, “gioca”, che è nel senso più nobile il mestiere di attore, con i mille stati emotivi. Nessuno si sottrae a questo strano tour de force, gioiosamente finendo con il perdendosi dentro. 

È anche qui presente l’erotismo quasi “plastico e poco accalorato”, tipico del regista greco, che ancora una volta viene affrontato sulla scena da tutti senza tabù.

Alcuni personaggi sono posti davanti a scelte morali impossibili, come ne Il sacrificio del cervo sacro. Ogni attore viene chiamato a esprimere con convinzione i diversi “punti di rottura”: che spesso riguardano il modo in cui la religione prova a duettare con il caso e il caos, alimentando continue pulsioni morali quanto amorali. 

Non ci sono eroi positivi in Kinds of Kindness, quanto piccoli “mostri” come quelli di Dino Risi, che il cast riesce a tradurre con un particolare gusto dell’eccesso, portandone in superficie fin dalle più piccole crudeltà e meschinità. 


Il musicista Jerskin Fendrix, già compositore per il Lanthimos di Povere Creature! di una colonna sonora stranissima che a piene mani citava L’uccello di fuoco di Stravinskij, qui “cambia tutto”, si fa “ultra pop”. O meglio “ritorna ultra pop”, come nel suo album di pop sperimentate del 2020 , Winterreise. Si dice che Lanthimos lo abbia fatto esordire al cinema come compositore, proprio dopo l’ascolto dell’elettro-punk di Winterreise: uno stile e sonorità che qui si fondono felicemente anche con la pop music anni ‘80. 

Tra i molto brani “storici” presenti nella soundtrack fa sopratutto bella mostra di sé Sweet Dreams (Are Made of This) degli Eurythmics, che può essere a tutti gli effetti intesa quasi come un manifesto programmatico degli intenti di Kinds of Kindness. Forse  la sua più sottile (non)guida alla (in)comprensione. 

Come il testo della canzone, il film ci parla di “dolci sogni” (che spesso sono declinati come sogni di potere) e di come qualcuno per terra e mare li stia cercando di realizzare. In virtù di questo sogni, qualcuno vuole usarci o farsi usare da noi, qualcuno vuole abusare o essere abusato da noi. La canzone invita a “tenere la testa alta” e ammonisce a “passare oltre”, senza ossessionarsi.

Ma questo di fatto non riesce ai personaggi sulla scena. 

Come in parte non riesce neanche agli spettatori, grazie ai nostri mattacchioni amanti delle olive greche, che di fatto “ci proiettano” in tre sogni diversi quanto studiatamente criptici. Forse il “dolce sogno” può essersi declinato per Lanthimos, attraverso gli Eurythmics, nel “potere stesso del cinema”: nella sua capacità e indole di raccontare storie attraverso regole proprie, facendoci immedesimare in situazioni “volute e comandate” da altri. Situazioni spesso “cattive” come quelle dei film horror e del cinema dell’assurdo in genere, che possono essere del tutto separate gioiosamente dalla logica, rimanendo significative e intriganti in quanto tali. In una parola: greche.  

La soluzione come sempre è accettare la provocazione per quello che è: un gioco.

Per una volta, grazie a Lanthimos, non ci addormentiamo in sala come troppo spesso inizia a succedere per molto cinema attuale. È oro colato, in un mondo ricoperto da politically correct e idee trite, venire qui consapevolmente tritati da un frullatore narrativo caotico, costantemente messo a velocità massima, che ci fa schizzare tra idee e suggestioni sempre stimolanti quanto amabilmente contorte. 

Torniamo a casa e il film ce lo portiamo dietro e dentro, “ci fa peso”(anche solo per la mezza incazzatura), come una bella scorpacciata di olive. 

Se vi piacciono le olive e non temete il non-sense, se amate le interpretazioni sopra le righe e le trame piene di simbolismo fuorviante, se non avete paura di farvi una risata liberatoria quando il film continua a “prendervi in giro”, Kinds of Kindness fa per voi. 

Fate dolci sogni, comprendere i sogni per quello di cui sono realmente fatti e dateci il giusto peso, come cantavano gli Eurythmics. Per il resto divertitevi. 

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