sabato 19 ottobre 2024

Il robot selvaggio: la nostra recensione del bellissimo film d’animazione Dreamworks, diretto da Chris Sanders, basato sull’omonimo libro illustrato di Peter Brown

Sinossi: 

Futuro prossimo venturo. L’Unità robotica ROZZUM 7134, per gli amici “Roz” (doppiato da Esther Elisha, in originale Lupita Nyong’O), fiore all’occhiello della Universal Dynamics nel supporto ai “consumatori umani”, a seguito di un tifone finisce, ancora imballata, su un’isola sperduta e popolata solo da animali.

Il robot, nello specifico dalla voce e dai modi “una robottina”, ha una corporatura solida e compatta, arti super-articolati che la rendono particolarmente versatile in ogni tipo di lavoro, un'intelligenza adattativa che le permette di apprendere dal contesto in cui si trova. 

Nonostante tutto, dai primi minuti Roz non fa che incassare calci e umiliazioni da parte di una fauna locale che “non capisce cos’è”, non accettando i mille amorevoli servizi di “customer care” che lei cerca costantemente di offrire. 

Non serve una “corsa assistita” per un cervo che sa già correre. Non serve abbassare un ramo per agevolare animaletti piccoli nella raccolta del cibo, se poi maldestramente togli la presa, finendo per lanciarli in aria come con una fionda. Non serve chiedere a un enorme orso se ha bisogno di “qualsiasi cosa” in generale. Guai a spostare i tronchi che il nevrotico castoro dispone nel fiume già con una logica specifica tutta sua, che i comuni robot non possono neanche immaginare!

Roz è su quell’isola decisamente poco utile e spesso finisce in situazioni tragiche. Inoltre la natura selvaggia del luogo sembra poco propensa ad adattarsi al programma adattativo preposto dalla Universal Dynamics, a partire dalle voci: “mobilità e risparmio energetico”. 

Il suolo è sempre impervio o carico di fossati, rocce aguzze o appigli cedevoli che espongono a brutti ruzzoloni, cadute alla Willie Coyote o peggio. Il clima è ricco di sbalzi bruschi, con pioggia e fulmini che costantemente mettono la robottina a rischio black-out. 

Serve un approccio decisamente diverso alla connettività del luogo. Così Roz decide di andare per un bel po’ di tempo in stand-by (ai tempi del Commodore Amiga avremmo detto in “guru meditation”). Si ferma, analizza tutto da capo e a lungo: prima di fare un passo impara da zero territorio, clima e linguaggio di “tutti” gli animali presenti in loco. 

Passa molto tempo, ma ora  sì che può supportare bene i consumatori del posto conoscendoli nei loro reali bisogni: di fatto limitandosi a lasciarli un po’ in pace, come vogliono loro. 

Incontra così l’esaurita mamma opossum Coda Rosa (Nadia Perciabosco, in originale Chaterine O’Hara), che vaga ricoperta costantemente da cuccioli casinisti di cui non riesce a liberarsi. Un po’ per amore materno, un po’ per spirito di autodistruzione, non riesce a volersene liberare. 

Incontra la manipolativa ma in fondo simpatica volpe Fink (Alessandro Roja, in originale Pedro Pascal), che dopo aver cercato più volte di eludere la “programmazione” di Roz inizia a non farlo più. Avere a che fare con lo stressatissimo castorino Sguazza è invece troppo complicato: limitarsi a non toccare i suoi tronchi. Come è fallimentare cercare di trovare i giusti argomenti di intesa con il belligerante orso Spina  (Francesco Prando, in originale Mark Hamill)

Proprio a seguito di un fraintendimento culturale con l’orso, Roz a seguito di una caduta nel vuoto, disordinata quanto spettacolare, si imbatte in un uovo: la prima creatura che riesce attivamente a supportare senza che questa si lamenti. 

La robottina come da manuale cerca di offrire all'uovo calore al micro-onde, ma senza esagerare. Lo difende dai predatori grazie a un vano metallico della sua armatura e portandolo sempre con sé in attesa che l’uovo si schiuda e da “pasto veloce” si trasformi in “pulcino”. 

Poi l’uovo si schiude. È un pulcino d’oca e vendendo Roz la scambia per la sua mamma, iniziando a seguirla ovunque. Per la regola naturale dell’imprinting, Roz dovrà quindi assumersi un grosso impegno di “consumer care”. 

Lei però ci sta: lo chiama Beccolustro.  

Roz si impegna per far crescere al meglio Beccolustro, anche dopo essersi consultata con gli  altri animali su cosa dovrebbe di preciso fare un robot per soddisfare i bisogni di un’oca. Si conviene che Beccolustro debba diventare più grande per sfuggire ai predatori. Deve poter migrare con le altre oche che ora sono tutte già altrove. Deve prima di tutto imparare a volare. 

Toccherà a Roz e agli altri animali crescerlo e insegnargli a volare. Se è vero, come dice un celebre proverbio africano, che “per far crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”, Roz costruirà sull’isola intorno a Beccolustro una piccola comunità di animali. 

Riuscirà Beccolustro a volare? Che fine hanno fatto gli uomini che costruiscono i robot in questo strano mondo futuristico ? Saprà una macchina scoprirsi “mamma”?


Portare su schermo un classico dell’infanzia: 

Il Robot Selvaggio è una fiaba ricca di ironia, azione e sentimento, che riesce a parlare a tutte le età di ecologia, inclusività e intelligenza artificiale. 

Nel raccontarci la natura ha lo stesso sapore romantico e malinconico de La gabbianella e il gatto di Sepulveda. Nei meccanismi di Roz, come nei paesaggi  lussureggianti, si possono trovare richiami all’estetica di produzioni Ghibli come Laputa e TotoroNel descrivere l’incontro tra reale e artificiale, un tema che oggi “scalda” particolarmente in relazione al dibattito sulle nuove intelligenze artificiali, lo scrittore dimostra lo stesso tatto e spirito gentile di opere come Il Gigante di Ferro di Bird. 

Il robot selvaggio è quindi una storia piena di sfumature, che dal 2016, l’anno della sua prima pubblicazione, affascina lettori di ogni età che, di fatto, a ogni lettura riescono a cogliere al suo interno sempre nuove sfumature e suggestioni. È quindi un libro prezioso, consigliatissimo anche come regalo per il prossimo Natale. 


Animare Il robot selvaggio: 

Adattare il libro illustrato di Brown era quindi una sfida stimolante, che i “rinati” Dreamworks Studios  hanno deciso di affrontare cercando di incantarci fin dal primo “sguardo”. 

Da Il gatto con gli stivali 2 lo Studio ha deciso di caratterizzare le sue produzioni attraverso una scelta di stile molto originale, che ha coinvolto anche il film Troppo Cattivi. I suoi film avrebbero miscelato le più dinamiche animazioni in computer grafica a delle “tempere digitali” quasi acquarello, in grado di ricoprire la scena conferendo alle opere una sensazione visiva quasi “pittorica”. 

Una “matita digitale” davvero moderna e versatile, fresca quanto capace di farsi  vicinissima anche all’estetica dei libri per bambini, proprio come quella usata in The  Wild Robot di Peter Brown. 

Per far sì che anche la narrativa di Brown fosse riprodotta nei modi migliori, per la  regia hanno scelto il veterano  Chris Sanders, che si è fatto amare per Lilo e Stitch, Dragon Trainer ma anche per il recente Il richiamo della foresta con Harrison Ford. Un autore in grado di farci tuffare in avventure mozzafiato ambientate in rigogliosi paesaggi naturalistici, quanto capace di conferire a ogni personaggio una sorprendente “dolcezza espressiva”, capace di farci guardare con luce tenera anche mostri spaziali e draghi millenari.

Per il cast vocale si sono scelti nomi illustri e provenienti da Star Wars come Lupita Nyong’O, Pedro Pascal, Mark Hamill, ma abbiamo anche Bill Nighy, Ving Rhames. 

Per la colonna sonora si è scelto di fare affidamento sul bravo Kris Bowers, artista poliedrico autore della colonna sonora di Bridgerton ma che ha lavorato anche con Jay-Z, Alicia Keys e Kanye West.


In sala: 

Fin dal primo minuto Il robot selvaggio porta lo spettatore all’interno di un affascinante viaggio sensoriale. Insieme alla robottina Roz veniamo lanciati su un’isola sperduta carica di pericoli e misteri, dove imparare a comunicare è prioritario anche per imparare a sopravvivere. 

Poi il ritmo cambia, la storia si riempie di divertimento e azione caricaturale come nei cartoni slapstick dei Looney Tunes, mentre la trama lentamente evolve, iniziando a parlarci di temi sempre più sottili e stimolanti. 

I bambini in sala, forse perché già abituati alla tecnologia, capiscono sempre al volo cosa la robottina Roz cerca di fare, ridendo “quasi con senso critico” delle situazioni  surreali in cui si immerge per problemi legati alla sua “programmazione”. 

I piccoli spettatori riescono anche ad avvertire con chiarezza le difficoltà comunicative di Roz con il resto degli animali e forse, guardando ai mille tentennamenti e slanci eroici che la robottina mette in atto per cercare di far crescere al meglio Beccolustro, i bambini vengono stimolati a riflettere su quanto può essere difficile il mestiere di genitore, a prescindere dal fatto di avere o meno un corpo robotico. 

Non mancavano nel libro di Brown i momenti commoventi, quelli che fanno tirare fuori i fazzoletti. 

Come non manca mai la “fantascienza”, che piano piano trova tra le file della narrazione un posto sempre più centrale, letteralmente esplodendo nella seconda parte del racconto verso un finale davvero spettacolare, che rivoluziona quasi tutto quello che abbiamo visto fino ad allora.  

È un film tutto da “raccontare”, pieno di personaggi interessanti, eventi inaspettati e cambi di scena originali che vi lascio scoprire in sala.

Un film in grado di appassionare e stimolare anche il pubblico degli adulti: facendoli “tornare bambini” nei modi più inaspettati, coinvolgendoli anche grazie alla sottile intelligenza di cui tutta la storia è pregna.


Finale: 

Il robot selvaggio è un film meraviglioso che sarebbe un vero peccato lasciarsi scappare al cinema. Le animazioni sono bellissime e l’azione è sempre coinvolgente, la trama è ritmata e carica di sputi interessanti, le scenografie sono coloratissime e cariche di effetti visivi e sonori avvolgenti. 

I personaggi sulla scena sono molto simpatici e presto ci si affeziona a tutti loro anche grazie a un doppiaggio italiano riuscito. Le musiche sono molto belle e sempre appropriate. 

Se amate l’animazione, cercate un film bello ma anche intelligente o volete solo passare una bella serata con i più piccoli, Il robot selvaggio fa al caso vostro. 

Talk0

mercoledì 16 ottobre 2024

Vittoria: la nostra recensione del film di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, con protagonista Marilena Amato

Napoli dei giorni nostri, Torre Annunziata. 

La solare parrucchiera Jasmine (Marilena Amato) si fa fare le carte. Chiede notizie sulla famiglia, chiede se le carte vedono una bambina a fianco dei suoi tre figli nell’imminente futuro. Le carte non dicono molto, ma quella bambina continua ad apparirle in sogno.

Nel sogno si trova al salone quando fuori dalla porta a vetri appare suo padre, recentemente scomparso per una malattia dovuta all’amianto presente sul posto di lavoro. Il padre la saluta con la mano e ha al suo fianco una bambina. La bambina va incontro a Jasmine e il padre, felice, scompare.

Jasmine torna a trovare il padre al cimitero in cerca di risposte. Poi le cerca nella scienza, infine nella sua famiglia. Per i medici Jasmine non può più avere figli, la gravidanza sarebbe troppo complessa. 

Con il consenso dei suoi cari si può invece adottare. Magari qualcuno che ne ha davvero bisogno, a cui si può dare calore e cambiare in meglio la vita. 

Jasmine è decisa. 

Il suo primogenito di vent’anni, Vincenzo, avviato anche lui alla professione di parrucchiere, non ha niente in contrario. Da sempre è il coccolone della mamma e anche in questo suo sogno è solidale, le promette di aiutarla e sostenerla a prescindere. 

Il tredicenne Manuel e il piccolo Luca non hanno particolari obiezioni. 

Il marito Nino (Gennaro Scarica) questo storia non la capisce. Sogna di aprire a Capri un nuovo salone per i mobili che produce come artigiano, vede che hanno già tre figli da coccolare, non sono più giovani, c’è il mutuo. Perché adottare pure costa, si dice intorno a 25.000 euro che loro attualmente non hanno. Dove li trovano?

Ci sono poi gli esami medici, incontrare gli assistenti sociali, ricevere valutazioni psicologiche e approvazioni burocratiche, poi solo alla fine si può partire per incontrare l’adottato. Se il bambino ha problemi di salute poi i tempi di attesa si riducono, ma si può voler scegliere di base un “bambino problematico”? Non è detto poi che si possa “scegliere”, in ogni caso, fra un bambino o la bambina che vorrebbero Jasmine e suo padre nel sogno. Si adotta chi ha necessità, non si fanno preferenze di altro tipo. Potrebbe arrivare benissimo un “quarto” maschio. 

Nino è confuso e tira dritto per Capri e il futuro della famiglia. Jasmine continua a pensarci, con il tempo che passa. La donna prende contatti con un orfanotrofio in Bielorussia. Ogni tanto chiede della situazione della guerra da quelle parti. Vede filmati di città lontano coperte dalla neve, sogna di riuscire nel suo piccolo a “offrire calore” a qualcuno. 

Intanto la vita va avanti. Forse Vincenzo dovrà andare a Milano per lavoro, Nino ha già pagato la caparra per Capri. Restano i soldi del processo per il risarcimento danni del padre, per la questione dell’amianto. Jasmine decide di prendere da sola la decisione: la annuncia pubblicamente come cosa già fatta a una festa. Nino è attonito.

Si potrà partire?


Vittoria è un piccolo film dal cuore grande, rivolto a un pubblico ancora in grado di emozionarsi davanti alla potenza delle “storie comuni”. 

È un film tutto parlato in napoletano stretto come Gomorra, ma che racchiude al suo interno un linguaggio universale fatto di tanti gesti e “certificazioni burocratiche” di affetto. 

Racconta con un linguaggio visivo ed emotivo quasi “documentaristico”, molto vicino al cinema sociale dei fratelli Dardenne, la storia vera “dell’incontro” di una famiglia di Napoli con una bambina dell’est. È un incontro che nasce prima di tutto a livello emotivo, partendo come una “inquietudine”, dal desiderio della protagonista di sentirsi di nuovo madre, dando voce a una interiorità che lei percepisce come “una volontà del padre scomparso”. 

Questo desiderio positivo si allarga alla possibilità concreta di adottare e inizia a “contagiare” anche i membri della famiglia di Jasmine, “rimbalza” nel giro delle conoscenze, si fa sempre più concreto, arriva alle istituzioni e tempi tecnici. 

Poi il film ci racconta la sospensione, l’attesa e forse il ripensamento. Per superarlo serve il supporto di tutto il gruppo familiare e amicale: la certificazione che “non si è pazzi”. Infine avviene l’incontro e tutto cambia di nuovo. La famiglia scopre che c’è un mondo infinitamente grande a cui si può offrire il proprio aiuto. 

È una mini-saga in tre tempi, che Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman sono molto attenti nel descriverci nella quotidianità, dando voce e volto ai mille problemi, dubbi, sogni e speranze con cui deve districarsi oggi una famiglia che si impegna nell’adozione. È quasi un’opera formativa quindi, “manualistica”, magari per gli interessanti da abbinare al bellissimo libro sull’adozione di Leo Ortolani, Due figlie e altri animali feroci.

Dietro all’occhio documentaristico, i due registi ci raccontano con garbo come possono “rimodellarsi” le dinamiche famigliari degli adottanti, “tra il dire e il fare” questa scelta di vita. 

Ci parlano dei possibili punti di “incomprensione” sull’iter di abbinamento, sulle differenze culturali da capire, sulla necessità di venire incontro a esigenze anche di salute. Ci parlano della “genuina e bellissima incoscienza” di voler incontrare e amare uno sconosciuto come fosse un figlio proprio.  Grazie all’ottimo casting, tutto viene descritto con estrema naturalezza e genuinità, come se ci trovassimo davvero davanti alle persone reali che hanno ispirato questa storia. 

Il personaggio interpretato da Marilena Amato ci parla della grande forza che può sprigionare da un abbraccio e fa di tutto per poter abbracciare una bambina che ancora non conosce. Il personaggio di Gennaro Scarica è molto critico e scuro in volto, ma all’incontro con il destino si porta dietro uno zaino con dentro un pallone da calcio e delle caramelle. 

Ci viene descritta, da una fotografia molto carica di colori, un Torre Annunziata “incasinata quanto vitale”, piena di gente ma anche di iniziative legate al volontariato: un territorio fertile per l’accoglienza e l’integrazione. 

Considerando l’attuale momento storico, impastato di paure e conflitti, Vittoria è un film che celebra la vittoria dell’altruismo sul cinismo. Un film semplice quanto prezioso, da far vedere magari a persone che si stanno convincendo dell’idea di diventare adottanti, ma pure a chi ha solo “paura” dell’idea di costruire una famiglia. 

Un film utile per parlare davvero del “futuro”. 

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martedì 15 ottobre 2024

Ken il guerriero: il film - la nostra recensione della pellicola del 1986, che arriva nelle sale per la prima volta grazie a Yamato Video e Nexo Digital


C’era una volta il mondo post-atomico di Ken il guerriero, tratto da un fumetto scritto dal malinconico/tamarro “Bronson” (pseudonimo di Yoshiyuki Okamura, dovuto alla somiglianza del mangaka con l’attore Charles Bronson) e disegnato dal “iper-muscolare/tamarro” Tetsuo Hara. 

L’opera cartacea arrivò in Italia grazie alla leggendaria Granata Press negli anni novanta, ma il cartone animato prodotto da Toei aveva già furoreggiato sulle tv locali, da inizi anni ‘80, assurgendo fin da subito allo status di “mito totale” per più generazioni di ragazzini adoranti. 

Qualsiasi cosa relativa alla serie, dalle action figures ai videogame passando per i “polsini in pelle”, vende ancora tantissimo. Tutto merito di un protagonista, Ken, che frullava al meglio tutto ciò che era davvero figo ai tempi. 

Ken in un’epoca di logorrea compulsiva (tutti negli anni '80 parlavano tantissimo) diceva cinque parole in cinque episodi: per lo più riferendosi al suo grande amore perduto, “Giulia”, oppure alla bambina che avrebbe riportato la felicità sulla terra desertica ripiantando dei semi, “Lynn”.  

Romantico, ecologista, sintetico. 

Nei frenetici anni della Milano da bere lui camminava lentissimo e ascetico, in un deserto infinito come Mad Max o Corradine in Kung Fu. Sfoggiava volto e muscoli tirati mutuati dal Sylvester Stallone del periodo Ronald Reagan, praticava arti marziali alla Bruce Lee per ripristinare “l’ordine sociale”. 

In ogni episodio arrivava in un piccolo villaggio bullizzato da punk ipersteroidati che leccavano coltelli e affamavano la popolazione. Faceva fuori i bulli, in genere rompendo un giubbotto in jeans nell’atto di gonfiare i muscoli per sfoggiare super tecniche marziali, poi procedeva oltre. 

Chi ricuciva o dove comprava giubbotti jeans di ricambio non è mai stato dato saperlo. 

Ma la serie aveva molto di più da offrire, specie quando la trama ci introduceva alle massime guide alla spiritualità post-atomica: le  scuole di Hokuto e Nanto. Tra le loro fila militavano personaggi che di fatto erano figure morali centrali per le comunità come Toki, Fudo e Shu. Altri erano a capo di grandi eserciti pseudo-organizzati come Raoh e Souther, che in un periodo in cui la maggior parte delle persone era coperta da pelli di lupo ed era tornata a vivere nelle caverne era pur un passo avanti. Altri esponenti di spicco ancora erano “schegge impazzite” come Jagi e Yuda, di fatto amanti del caos ma anche dotati di un non trascurabile “apparato di disinformazione” che ne accentuava il potere. C’erano poi in Hokuto e Nanto i “sognatori” come Juza, Ken e Shin: di fatto in giro per i deserti in cerca di “se stessi”, in genere inseguendo una tragedia personale, eroi controvoglia ma pur sempre eroi. C’erano i politici in senso stretto come Rihaku, c’era anche un personaggio magnificamente romantico e irrisolto come Shin: uno che prima detesti, poi lo capisci e quasi piangi per lui. 

Funzionava tutto bene perché Bronson pompava intrecci para-Shakespeariani quanto Hara pompava i muscoli di tutti i personaggi sulla scena: puro ipertrofismo olistico, che spesso esplodeva in infinite lacrime e splatter coreografate con tanto stile quanto ritmo. 


Questo spettacolare film del 1986 fa un po’ una sintesi degli eventi relativi alla prima serie animata della Toei ed è diretto dal mitico Toyoo Ashida, autore nel 1985 anche di quella gemma di Vampire Hunter D e di un film di Arale. 

Su grande schermo, liberi dalle restrizioni delle produzioni televisive quanto “costretti” dalla necessità folle di condensare lo spirito di 109 puntate in 2 ore, Ken e il suo mondo appaiono se mai possibile ancora più ipertrofici, spettacolari e drammatici. 

Gli inseguimenti dei punk non si svolgono più solo lunghe piste sabbiose, ma anche su vertiginose facciate di palazzi fatiscenti. L’aria di energia che precede alcuni combattimenti incanalando la forza, ora non si limita a distruggere giubbotti in pelle ed è in grado di scatenare fulmini e tornado di sabbia. Per farci capire quanto è invincibile il nostro protagonista, Ashura ce lo presenta come una entità in grado di avanzare mentre un grattacielo gli cade letteralmente sulla testa, di fatto squarciando e aprendo in due il palazzo come fosse burro. 

Sul lato simbolico/iconografico le suggestioni sul valore salvifico di Ken, si estrinsecano nel film in mille omaggi all’arte occidentale di stampo religioso, con Ken e compagni che più volte vengono ritratti in pose ultra drammatico-plastiche che ricordano la Pietà di Michelangelo o la Vergine delle Rocce. Il personaggio di Lynn spesso ci appare invece con luci stroboscopiche anni ‘60 a melodia dolce al seguito, come facesse parte di una fantasia cromatica alla Jesus Christ Superstar

Il budget della produzione ci permette pure di vedere incredibili e spettacolari scene di massa, come una battaglia tra l’esercito di Raoh e gli “uomini-lupo”. Ma c’è pure una suggestiva sequenza che viviamo in prima persona attraverso gli occhi di Jagi, di fatto sperimentando la mitica mossa dei cento colpi di Hokuto “quasi” personalmente. 


Le animazioni sono sontuose quanto la musica, che presenta al suo interno pure un mitico brano cantato per “sintetizzare una scena”, sul modello dei film di Rocky di Stallone. 

Tutto questo ci appare bellissimo proprio nel suo essere estremo, davvero unico a livello visivo e sonoro, “gasante”, epico e ovviamente “tamarrissimo”. 

Parliamo davvero di “storia dell’animazione”, perché di fatto quasi tutto ciò che è presente in questo film è stato poi “omaggiatissimo” nel mondo degli anime quanto dei videogame fino a oggi. 

Una vera gioia visiva per i fan e non solo, che Yamato Video e Nexo ci portano con nuovo doppiaggio e una nuova codifica video in 4K, frutto di un restauro certosino quanto pregevole. 

Non so se Ken sarà “anche” il salvatore del ventunesimo secolo o se la sua parabola di gloria si è ormai interrotta al termine del 198X (poi passato a 199X nella seconda serie, per “stare più larghi”), con solo i vecchi fan che ancora rimangono fedeli al personaggio. Ma dalla sala cinematografica dove ho assistito allo spettacolo ho avvertito ancora tanto calore, entusiasmo, perfino lacrime. 

Ken è tornato ed è in ottima forma. 

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sabato 12 ottobre 2024

Alien: Romulus: la nostra recensione del nuovo film di Fede Alvarez, ancora in sala e presto in streaming, che riporta al cinema il terribile xenomorpho disegnato per Ridley Scott da H.R. Giger

 


Sinossi stringata anti-spoiler: “Nello spazio nessuno può sentirti urlare”. 

A questo giro non possiamo “sentire urlare” un gruppo di ragazzini (stile quelli dei film horror slasher anni '80) che fanno i minatori in una polverosissima e inquinatissima “colonia extra-mondo”, sognando di avere i soldi per essere criogenizzati e finire a vivere, al termine di un lungo viaggio spaziale, in un lussureggiante pianeta/stazione-balneare pieno di spiagge e gente felice. 

La paga è poca e basta a stento per nutrirsi, il sogno quasi impossibile. Ma ci sono voci di una stazione spaziale scientifica, la Romulus, ritrovata da poco abbandonata non troppo distante da loro, probabilmente piena di lettini criogenici, sogni e speranze gratis. 

Probabilmente piena di cadaveri, ma sono dettagli. 

Tutto sta ad arrivare prima che la notizia si diffonda troppo. 

Saltato il turno del mattino alla miniera spaziale e requisita una ruspa spaziale, i nostri intrepidi ragazzotti spaziali partono alla conquista del bottino con un’arma segreta molto speciale: il buffo ma “strano” sintetico Andy (interpretato dal bravo David Jonsson), che una di loro, la pratica e ottimista Rain (interpretata dalla molto brava Cailee Spaeny), tratta come se fosse suo fratello in carne e ossa. Andy è l’unico in grado di aprire ogni porta blindata o codice segreto spaziale e per Rain farebbe ogni cosa. Anche se è odiato dal resto dei ragazzini per il “malfunzionamento” di altri sintetici, che in genere ha portato a varie disgrazie nelle rispettive famiglie. 

Entrare nella Romulus sembra facile, ma come in Man in the dark, precedente film sempre diretto da Fede Alvarez, ci sono “robe in the dark” che aspettano nell’ombra di papparsi ragazzini. 

Sono alieni. Sono tanti. Del resto, se la stazione spaziale era abbandonata tra le stelle, qualcosa di terribile deve essere successo. Forse però un superstite c’è, che seppure a pezzi può parlare. È il droide di un modello passato rispetto a Ben (Ian Holm) e può raccontare al gruppo una storia incredibile. 

Ma ancora più incredibile sarà riuscire a lasciare la Romulus.


Tra alieni e alienati assortiti (paragrafo del tutto facoltativo, dal sapore sociologico/nostalgico, dedicato ai fan della saga): 

“Nello spazio nessuno può sentirti urlare”. Questo era lo slogan che accompagnava, nel 1979, l’uscita del nuovo ambizioso horror/thriller fantascientifico scritto e diretto dal visionario regista Ridley Scott. 

Rinchiusi in una decrepita, labirintica quanto claustrofobica astronave da trasporto, probabilmente maleodorante, un gruppo di “camionisti spaziali”, sudati e tabagismi convinti, doveva sopravvivere a qualcosa di inquietante come avere a che fare con “qualcosa di alieno a bordo”. 

Di sicuro era aliena la creatura che il gruppo imbarcava dopo la visita inaspettata a un planetoide: la classica missione di soccorso finita male. Una specie di ragno/mano con coda strangolante attaccava uno di loro. Seguivano nausee, vomito e mal di testa, fino a che qualcosa usciva dalla pancia della povera vittima, uccidendola e nascondendosi sul cargo, tra i condotti di areazione. In poco tempo cresceva così  uno xenomorpho: un essere nero metallizzato pieno di tubi, zanne e aculei, che sviluppato arrivava ai 3 metri, veloce e aggressivo. Quadrupede, dotato di “bava acida”, coda uncinata e doppia “bocca perforante”. Ampio cranio corazzato, nessun occhio ma forse una specie di radar naturale in grado di seguire ogni rumore e odore. Un mostro che secondo le indicazioni date da Scott allo scultore svizzero H.R.Giger doveva richiamare un insetto, ma “fondendolo” con la meccanica, gli ingranaggi e tubi, i lineamenti affusolati e la cromatura lucida di una moto da corsa. 

Ma purtroppo per i camionisti spaziali c’era, di fatto, “un altro alieno a bordo”. 

Un robot dall’aspetto assolutamente umano, dall’aria decisamente più affabile e gentile, interpretato con eleganza dall’attore Ian Holm. Purtroppo però, come “l’altrettanto amabile” Al 9000 di 2001 Odissea nello Spazio, il sintetico possedeva una “mente aliena”: un modo di ragionare che per sua natura e mentalità “aziendalista” non teneva conto nelle sue priorità della sopravvivenza dell’equipaggio umano. Prima veniva il fatturato: ossia preservare a ogni costo la sopravvivenza dello Xenomorpho per portarlo al sicuro, studiarlo e farci i soldi. 

Con questi “due alieni a bordo” l’equipaggio, sudato e sempre più a corto di sigarette, doveva cercare un modo di sopravvivere concreto e veloce, dando fondo a tutte le conoscenze tecnico/scientifiche  relative alla loro astronave/camion. Dalla planimetria dei condotti d’areazione dove la creatura amava intrufolarsi, alla gestione delle stanze blindate e pressurizzate. Dalle procedure d’uso di tute spaziali e scialuppe di salvataggio, al saper maneggiare le mille fiamme ossidriche, trapani e materiali di fortuna con cui riparare paratie e quadri comandi, divelti o disciolti uno dopo l’altro dall’acido xenomorpho. 

Un film sulla sopravvivenza come un “home invasion futuristico”, con tanta atmosfera, effetti e una musica sinfonica azzeccata. Grande successo di critica e pubblico, anche grazie alla bellissima e tostissima Sigurney Weaver. 

Gli alieni sarebbero tornati al cinema nel 1986, in un film scritto e diretto da James Cameron: Aliens: Scontro Finale.

Più budget ma non troppo. Non un'astronave ma un'intera colonia spaziale come scenario della vicenda. Carri armati, robot, armi futuristiche, tanti, tantissimi alieni e tutto quello che avrebbe gasato i giocatori di ruolo del futuro boardgame Warhammer 40.000. 

La produzione sembrava già suggerire qui che i futuri film del franchise avrebbero seguito un impronta “quasi sociologica” sul piano narrativo: a ogni capitolo l’Alien di turno avrebbe giocato con tipologie umane diverse. Così gli avversari degli alieni passavano dagli Space-Truckers del primo film agli Space- Marines. Dei super soldati armati e gasati, modellati probabilmente sulla Fanteria Spaziale di Robert A. Heinlein,  a cui Cameron (autore in quegli anni pure di un trattamento di Rambo 2 - la vendetta) regalava la disperazione e schizofrenia dei reduci del Vietnam. 

Inutile dire che tutta la colonia spaziale del film diventava un nuovo tragico piccolo Vietnam, pieno di Xenomorphi nascosti “dietro ogni fottuta parete” (come ricordava sulla scena il personaggio del compianto Bill Paxton), in grado di coordinarsi tra loro e agire insieme, come tante formichine letali (come in Fanteria Spaziale), meglio di qualsiasi plotone terrestre pieno solo di spirito patriottico. Il robot del secondo film era “meno alieno”, aveva l’aria compassata e rassicurante dell’attore Lance Henricksen (ironicamente l’attore scelto da Cameron per presentare ai finanziatori il suo primo Terminator) e sembrava decisamente meno manipolativo di Ian Holm. Ma proprio perché i robot del “Modello Ian Holm” erano stati riconosciuti pericolosi e inaffidabili, nonché odiati da tutti, il povero Henricksen era comunque costantemente guardato dall’alto in basso come fosse un alieno. Il sangue sintetico bianco, che sbavava per tutto il tempo per le  esigenze di un trama particolarmente cruenta, non aiutava. 


Essendo poi il sintetico di Henricksen “poco aziendalista”, in Aliens avevamo “un terzo alieno a bordo”: un “uomo delle corporazioni” interpretato dal simpatico attore comico Paul Reiser, qui nel suo primo ruolo “scarsamente simpatico”. Così votato al fatturato da sconfinare nell’autolesionismo. Il personaggio di Sigurney Weaver tornava e aveva pure imparato a guidare un esoscheletro potenziato con pinze giganti: di fatto una specie di “muletto” per spostare i pacchi, ma anche buono per dare schiaffi agli xenomorphi. Con Cameron alla regia è tutto più grosso, dalle astronavi alle pistole, agli alieni stessi, peraltro numerosissimi e dotati di una “regina” grossa come un Kaiju. 

Il film ebbe enorme successo e si passò velocemente alla produzione di un terzo capitolo, finito nelle mani di un giovane David Fincher dopo una produzione travagliata di anni. A confrontarsi con gli alieni era un’altra categoria umana: dopo i camionisti spaziali e i Marine, era il turno dei monaci spaziali/detenuti di una colonia penale. La cosa bizzarra è che esistono due montaggi del film: in una i protagonisti sono monaci e nell’altra sono dei detenuti. Al netto di una piccola manciata di dialoghi sono praticamente la stessa cosa. Lo scenario della vicenda è questa volta un planetoide/fonderia popolato da uomini pelati causa presenza di pidocchi spaziali. 

Un ambiente “virile”, come quello del film La cosa, con uno xenomorpho che qui si rinnova in forma “canina”, citando sempre La Cosa. Sigurney Weaver, per fare pure lei “qualcosa” (ok…ho fatto giochi di parole più ispirati in passato…) di diverso, si taglia i capelli a zero, forse per uno spunto della “trama monacale”. Ma non solo: si concede anche un'evoluzione del personaggio molto particolare, tra Eros e Thanatos, che gioca molto con una sensualità rimasta troppo a lungo contratta. La sua Ripley arriva a inaspettate punte drammaticissime quanto estreme. Si dice che, da produttrice, la Weaver abbia voluto tantissimo una svolta sexy, motivo per cui in una scena appare uno xenomorpho che cerca quasi di limonarla.

L’androide “c’è”, ma rimane mezzo rotto in una busta di plastica per tutto il tempo: dopo l’indigestione di esoscheletri, tank e pistole a raggi, questo vuole essere un film spirituale. Zero tecnologia o armi futuristiche che vadano oltre lance e lanciafiamme dal sapore biblico/carcerario. Perfino gli “alieni aziendalisti”, i peggiori di tutti, relegati quasi a comparsa.

Quasi un “fantasy”, al netto di una bellissima fotografia “color ruggine” e una ambientazione sempre sovraccarica di dettagli, che si evolveranno per Fincher in una cifra stilistica unica: che porterà al successo di Seven. Ma pur salvando gli attori e qualche sequenza action, il film fu percepito (e lo è tuttora) come una pellicola controversa e incasinata. 

Forse più interessante nel montaggio “con i monaci”. 


Ma tutto ciò non fece perdere la voglia di generare un seguito del brand nel 1997, diretto da un Jean-Pierre Jeunet reduce dal successo di Delicatessen, con colori ed eccentricità da graphic novel europea (tra tutti, le porte di sicurezza che si aprono grazie all’alito, alitandoci sopra). I co-protagonisti degli xenomorphi sono qui ancora qualcosa di diverso: dei “pirati spaziali” fighissimi, vestiti in pelle, armati di coltelli e pistole retrattili nascoste sotto i loro trench,  con i volti “da duri” di Michal Wincott (il cattivo de Il corvo di Proyas), Ron Perlman e un Gary Dourdan con i rasta “pre CSI”. Il ruolo di una sintetica-donna, mai così gentile e carina, è qui riservato a una carinissima Winona Rider, che dimostra quanto i tempi siano ben cambiati, dal “modello Ian Holm”. Sigurney Weaver torna in una versione super sexy ancora più strana e inaspettata di quella del terzo film: di fatto rimanendo ricoperta per tutto la trama di olio abbronzante e vestiti aderenti striminziti, si lancia in scene action contro gli alieni picchiandoli lei stessa a mani nude grazie a dei nuovi particolari “super poteri”. Gli alieni questa volta “nuotano” (in una scena subacquea meravigliosa), alcuni sono degli ibridi ingegnerizzati che dimostrano divertenti interazioni di gruppo, uno “un po’ da incubo” ha volto e occhioni quasi umani. 

Sono tutti  prodotti “clonati” sulla stazione spaziale dove ha luogo la storia, sulla base di materiale genetico specifico (se vi dico cos’è, è spoiler). Oltre ai pirati spaziali, ci sono come nuovi “alieni aziendalisti” gli allegri scienziati pazzi, appassionati di scienze comportamentali in salsa elettroshock, che operano nella suddetta stazione. Cercano di “educare gli alieni” con giochini psicologici stile “tira la leva per la ricompensa”. Amano il sadismo. Sono così contenti del risultato dei loro “pasticci genetici” da commuoversi per i risultati dei loro “bambini”, anche se questi li stanno per uccidere in modi orribili. Sono loro ad avvicinarsi di più al senso del grottesco dell’autore di Delicatessen, conferendo all’opera un gusto  sarcasticamente malsano. Il film è incredibilmente tamarro, ma è così pieno di scene eccentriche, divertenti e pure spettacolari da “fare il giro” e risultare godibilissimo. 


Come avversari degli xenomorphi, i pirati spaziali sono poi davvero notevoli, anche in relazione ai successivi incontri ravvicinati cinematografici. Sicuramente sono più fighi dei topi da biblioteca/nerd/guide alpine di Alien vs Predator. Come hanno più intraprendenza degli abitanti del piccolo paesino della provincia americana dei giorni nostri in cui è ambientato Alien vs Predator 2. Ma del resto,  in questo dittico “Versus” curato da Anderson e dagli Strause, sono gli “altri alieni a bordo”, i Predators, a sfoggiare una personalità molto più interessante. Dopo questa parentesi, le vittime degli Aliens, nonché di un sintetico di nome David interpretato dall’ottimo Michael Fassbender, nonché di un bieco “alieno aziendalista” interpretato da Guy Pierce, tornano ad essere umanamente debolissime quanto scarsamente combattive: gli astrologi/ religiosi di Prometheus, le coppiette innamorate di coloni/ Pellegrini (anche qui accompagnate da sporadici “alpinisti”) di Alien: Covenant

Come se la caveranno ora questi ragazzotti/minatori “del futuro”, in Alien: Romulus

Ma soprattutto,  quale categoria umana affronterà in futuro gli “aliens”? Dei cuochi gourmet interstellari? Ballerini di danza moderna marziana? Turisti in crociera intergalattica? 


Man in the dark, ma nello spazio: Fede Alvarez è di sicuro un regista che ha saputo farsi notare fin da subito per la sua peculiare visione dell’azione e per la capacità di creare momenti di tensione drammatica. Il suo Evil Dead, prodotto da Sam Raimi e Bruce Campbell stessi, è uno dei remake horror più interessanti degli ultimi anni: una pellicola in grado di mantenersi gioiosamente splatter e sopra le righe, “cattiva e colorata”, in un mondo cinematografico che procede ormai con il freno tirato. Il secondo film è stato Man in the Dark, un piccolo gioiellino che ha già generato un buon seguito: merito del bravissimo Stephen Lang, nel ruolo di un ex soldato folle e non vedente, ma anche di una sceneggiatura a prova di bomba, in grado di creare situazioni interessanti giocando con originalità con spazi e psicologia. Un film pieno di cunicoli stretti, un mostro implacabile che si muove nel buio con velocità e determinazione, una donna chiamata a sopravvivere, usando l’intelligenza e un pizzico di imprudenza, ma senza avere la matematica certezza di farcela. 

Proprio guardando Man in the Dark qualcuno in casa Disney, come del resto ho fatto io, avrà sicuramente pensato: “certo, sarebbe bello dare in mano un Alien a Fede Alvarez”. Desiderio avverato. 

Alien: Romulus esegue il compito alla perfezione, risulta in ogni aspetto un film godibilissimo, con ottimi effetti speciali e attori funzionali al ruolo. Ci sono le astronavi, la base spaziale è articolata e ricchissima di dettagli, ci sono gli alieni, i sintetici, lo splatter, gli inseguimenti e pure qualche novità visivo/narrativa interessante, che collega la pellicola direttamente al primo film della saga, ma pure al “prequel” Prometheus.

Nel cast riesce ovviamente a svettare, per carisma, supponenza e freddezza, il sintetico impersonato da un Ian Holm davvero in ottima forma. Ambiguo, fintamente paterno quanto autoritario come l’imperatore Palpatine, il suo sintetico risulta da subito pericoloso quanto affascinate, “dolcemente sgradevole”.  

Anche i personaggi interpretati da David Jonsson e  Cailee Spaeny sono suggestivi e riescono a mettere in scena un rapporto molto interessante. Andy è un sintetico “da compagnia”, abituato a occuparsi di Rain come un fratello maggiore fin da quando era bambina. Offre tanto conforto, risate, quanto continue barzellette che però non fanno mai ridere. Ricorda nella malinconia e ricerca continua di empatia il piccolo robot David, del colossal A.I. di Spielberg. Quando per ragioni di trama il personaggio viene costretto a “evolvere”, assistiamo a un cambiamento caratteriale ben sviluppato: subentrano in Ben domande esistenziali, spirito di sacrificio, l’accettazione della componente “violenta” della sua natura, quanto della natura violenta del mondo che lo circonda. Rain “lo osserva”, con tanta gratitudine quando paura di vederlo cambiare troppo e troppo presto. Di fatto costringendosi anche lei a diventare adulta prima del tempo. Dalla tenerezza e spaesamento tira fuori gli artigli. 

Gli altri personaggi sono invece la classica compagine da film horror: il ragazzo timido ma gentile, il tipo collerico e sarcastico, la ragazza disinibita sfinita in una situazione fisica ed emotiva difficile, l’altra ragazza un po’ “nerd” e mascolina. Cliché, ma funzionali a una trama horror che li vuole uno dopo l’altro vittime degli eventi quanto degli alieni. Alieni molto ben realizzati in computer grafica, veloci, viscidi e sanguigni come si conviene, imprevedibili. In grado di rendere frenetica e dall’esito incerto ogni scena d’azione che viene a svilupparsi su una astronave che, come tradizione dei film di Alien, appare carica di cunicoli oscuri, paratie stagne, zone a gravità ridotta, spettrali sale comando popolate di cadaveri illuminate solo dalle luci dei computer. 



Tuttavia, in questo luccicantissimo e appropriato spettacolo pirotecnico, ben in grado di fondere la fantascienza cinematografica con le atmosfere di videogame come Dead Space  (giusto per trovare nuovo pubblico quando comprendere come di fatto l’atmosfera di Alien sia stata con il tempo fagocitata, bene, proprio  dall’immaginario videoludico), manca un po’ la “salsa piccante”: quel tocco di “umana follia” che rendeva iconici gli altri film, di fatto burlandosi delle miserie e stramberie umane. 

Mancano le puerili battutacce da action Movie che continuamente snocciolano gli Space marines in Aliens, per darsi un tono. Manca la “paura per le donne”, con effetti tragicomici, sviluppata in anni di solitudine dai  monaci/detenuti del terzo film. Mancano tutte le orribili “cose da bullo” che senza un perché il viscidissimo personaggio di Ron Perlman fa nel quarto film. Manca lo stupore un po’ cretino dell’incontro ravvicinato con un verme spaziale, che porta gli speleologi spaziali a una fine brusca quanto ridicola in Prometheus. Manca la maldestra scena dell’incontro alieno sotto la doccia, con la colona che presa dal panico si spara da sola, di Alien Covenant

Tutto in Romulus è molto composto, ordinato, ormai epurato di tutto il “weird” e del politicamente scorretto di cui le pellicole di Alien sono da sempre cosparse. Anche forse per sottolineare che c’è “qualcosa di alieno”, strano e irrisolto, anche nei comuni umani. 

Finale: Alien Romunlus è un film ben fatto sia sul piano tecnico che artistico. Adeguati  gli attori, gradevolissimo il ritmo generale, una trama semplice ma che offre interessanti guizzi nella scrittura di alcuni personaggi. Belli gli effetti speciali e ambientali. Tante le gustose citazioni al franchise. Manca un po’ della “follia” dei precedenti film, forse anche perché i tempi sono cambiati e il politicamente corretto si impone. Ma il clima di “caccia all’alieno” riesce ancora a convincere e Fede Alvarez ha il giusto occhio per lavorare su prodotti di questo tipo. 

Ancora una volta, c’è un nuovo alieno a bordo, che ha voglia di giocare con noi a “chi è più alieno”. Con tanta voglia di farci divertire tra inseguimenti, splatter, astronavi, colonie minerarie, sintetici, ragni spaziali, lanciafiamme e belle ragazze in tuta spaziale. 

C’è tutto, salvo forse la “salsa piccante” da mettere sopra i tacos. 

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giovedì 10 ottobre 2024

Iddu- l’ultimo padrino: la nostra recensione del film drammatico di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, con protagonisti Elio Germano e Toni Servillo. Recensione in collaborazione con Fantasy Magazine

Sinossi: Sicilia dei primi 2000. Catello Palumbo (Toni Servillo), politico condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, torna a casa finita la sua condanna di sei anni, trascorsi nel carcere di Cuneo. 

La moglie Elvira (Betty Pedrazzi) si è trasferita in un appartamento più piccolo e non si alza neanche dal divano per salutarlo. I soldi sono finiti e ci sono ancora troppi guai legali in sospeso. L’adorata figlia, che non gli ha mai scritto una lettera in sei anni, è incinta di Pino (Giuseppe Tantillo), il ragazzotto poco sveglio che faceva da bidello nella scuola in cui un tempo lui era preside.

Ex detenuto, ex sindaco ed ex preside, futuro probabile ex marito, Catello si sente destinato a una vita da recluso in casa, nonno controvoglia e suocero di un fesso, ininfluente e invisibile: “ex di tutto”. Pure di recente orfano dell’amicizia del potente don Gaetano (Rosario Palazzolo), di cui si appresta ad andare al funerale, ritrovato morto per malattia dopo un periodo di latitanza. 

Il Boss però aveva scelto personalmente Catello come padrino del suo terzo genito Matteo (Elio Germano): ora è lui il nuovo boss, nonché il latitante più ricercato di sempre. Questa circostanza, anche se “pericolosa”, forse potrebbe risolvere tutti i problemi. Magari farlo tornare sindaco, dopo aver debitamente risolto le beghe di un grande appalto,  in sospeso da anni causa burocrazia. 

Catello può forse riavere “visibilità e potere”.  

Matteo, costretto a essere “invisibile per scelta”, vive invece ancora nelle vicinanze, nascosto in una casa sicura e assistito da Lucia (Barbara Bobulova), una donna che per un debito di onore gli fa da cuoca, governante e segretaria. È lei a dettare a macchina tutte le lettere con cui il boss gestisce ancora il governo del territorio. 

Ogni tanto, quando guarda il cielo da un terrazzo nascosto, da dietro gli occhiali da sole a goccia che perennemente indossa, Matteo si sente chiuso in gabbia, come il canarino giallo di Lucia, ingabbiato vicino al suo abituale angolo di lettura. Non vuole finire come suo padre: morire su un letto di emergenza improvvisato attaccato a una flebo, in una baracca tra i prati, circondato dalle capre. 

Arriva il giorno del funerale e Matteo ripensa a quando Gaetano da piccolo lo aveva portato in una simile baracca isolata tra i campi, per poi sceglierlo tra i suoi fratelli: il prediletto che avrebbe sgozzato il capretto per Pasqua. Lui aveva eseguito l’ordine con fermezza e senza emozioni, “come andava fatto”. Il padre aveva apprezzato e lo aveva designato suo successore, affidandogli simbolicamente una statuina antica e pregiata, un “pupo”, tenuto nascosto in un pozzo. 

Anche Matteo, ora privato della guida e del consiglio del padre, avrebbe presto dovuto pensare a passare quel “pupo” a un successore, continuare la tradizione. Ma per ora il boss è ingabbiato in quella casa come un canarino. Si sente sepolto, come quel “pupo” nel pozzo. Per questo inaspettatamente, con vera gioia, il boss riceve una lettera dal suo padrino, il preside Catello. Lo conforta, si offre di mettersi a sua disposizione per consigliarlo e aiutarlo. “Se lui vorrà, è lì per lui”, nel segno di “quel faro nella notte” che era don Gaetano per tutti e che oggi deve essere Matteo.  

Il boss detta una nuova lettera a Lucia, sfoggiando nel lessico tutta la sua abilità stilistica: vengono poste le basi per una corrispondenza segreta e riservata. Il preside si rivolgerà a lui nelle future missive con il nome di Emmanuele, che significa: “Dio è con noi”, mentre Matteo lo chiamerà Salustio, come l’amico e consigliere dell’imperatore romano Giuliano. 

Forse questa corrispondenza è l’inizio di una ripresa dopo tanto sconforto, per entrambi. La prima lettera di Catello, arrivata al boss attraverso una complessa catena di relazioni, cambi di mano e pesce surgelato, non è però stato un atto spontaneo. Al termine del funerale di don Gaetano, il preside è stato caricato su un auto da uomini dei servizi segreti, come il lunare e ambiguo Emilio Schiavon (Fausto Russo Alesi) e la collerica Rita Mancuso (Daniela Marra). 

I servizi gli hanno offerto una “collaborazione spontanea” nella cattura del boss. In alternativa la prosecuzione di certi atti rimasti in sospeso. 

Rita Mancuso prende di petto la caccia, vuole “vedere oltre l’omertà”. Sfrutta il preside e le sue conoscenze come ariete, arriva alla sorella di Matteo, Stefania (Antonia Truppo), che è sempre più in disaccordo con la catena di comando. Ha delle fonti sicure e si avvicina sempre di più  al più noto “fantasma” della mafia. Il cerchio si sta stringendo, ai danni del preside quanto del suo “figlioccio”.  

Matteo, che per Catello è “come Amleto” nel suo dialogo con il fantasma del padre, è malinconico e forse distratto, vulnerabile. Ma se Matteo è così vulnerabile e Catello di fatto molto inaffidabile, forse qualcuno di inaspettato potrebbe scompigliare le carte. Forse anche in difesa di uno “status quo” che deve essere preservato “per il bene di tutti”.


Una nuova storia di Grassadonia e Piazza sulle “realtà non-visibili” della Sicilia: dei giovanissimi Fabrizio Grassadonia e Antonio Piazza si conobbero alla scuola Holden di Torino, negli anni novanta. Da lì nacque una collaborazione che nel 2010 portò alla realizzazione del cortometraggio sperimentale Rita: un’opera tutta girata dalla prospettiva di una ragazza siciliana non vedente, con la telecamera fissa unicamente sul volto espressivo dell'attrice protagonista, Marta Palermo, con il resto del “suo mondo” che rimaneva definito dai suoni e dalla immaginazione degli spettatori. 

Dopo i quaranta premi internazionali ricevuti per Rita, nel 2013 questo stesso personaggio “ritornava”, seppur da co-protagonista, reimmaginato e interpretato questa volta da Sara Serraiocco. I due registi la facevano rivivere nel loro primo lungometraggio, Salvo: un’altra storia sulla Sicilia, ambientata questa volta nel mondo della malavita organizzata. La “nuova Rita”, ancora non vedente, per una specie di miracolo tornava vedente dopo l’incontro rocambolesco con la canna della pistola un killer della mafia, intenzionato a ucciderla. Un film sui gangster diventava qualcosa di nuovo, quasi magico. Anche Salvo ricevette molti riconoscimenti, tra cui a Cannes entrambi i premi della settimana della critica.

Aprì invece propio Cannes 2016, primo film italiano con questo onore, il secondo  film di  Grassadonia e Piazza, Sicilian Ghost Story. La sceneggiatura, selezionata anche per il Sundance Jannuary Screenwriters Lab, aveva ancora protagonista la Sicilia, una ragazza e un tema “magico”: riuscire a scorgere la presenza di persone che non si vedono: “seguendo il loro eco”. Questa volta la storia era liberamente tratta dal racconto “Il cavaliere bianco” di Marco Mancassola: in un'atmosfera da favola amara, tra le casette ai margini di un grande bosco, una ragazzina innamorata combatte con l’omertà del piccolo paesino in cui vive, per cercare di ritrovare un suo coetaneo, che dal giorno alla notte sembra scomparso nel nulla. Scomparso come fosse diventato di colpo, pur “controvoglia”, un fantasma. Con Iddu, Grassadonia e Piazza tornano a parlarci di Sicilia e fantasmi, anche se questa volta si tratta di celebri “fantasmi per scelta”. Fantasmi invisibili ma potenti, che qualcuno paragona quasi a divinità. Fantasmi con cui avrà direttamente a che fare, ancora una volta, un personaggio femminile che Grassadonia e Piazza chiamano Rita, interpreto qui dalla brava Daniela Marra.  Questa volta però alcune suggestioni “magiche” del racconto arrivano anche dalla filosofia greca: direttamente dal mito della Caverna di Platone.  


Un film che affronta la realtà, giocando con il registro grottesco e  le maschere della commedia e della tragedia umana: Ogni tanto le storie si inseguono. Il “fantasma” di Matteo Messina Denaro e il modo in cui riusciva a essere sempre presente, per la società, ha suggestionato a lungo i due registi. 

Per la realizzazione della sceneggiatura, per distillare dalla realtà una storia “da non intendersi come una biografia cinematografica”, Grassadonia e Piazza hanno lavorato per anni, da molto prima della cattura del boss, al punto che un primo titolo di lavorazione era Il latitante

Hanno lavorato su articoli, indagini, atti dei vari processi collegati. Infine si sono imbattuti, quasi a sorpresa, nei particolari scambi epistolari del boss con l’ex sindaco di Castelvetrano, Antonino Vaccarino. Scambi  riportati nel saggio del 2008 Lettere a Svetonio, curato da Salvatore Mugno. 

Proprio in onore a quel libro, scovato dai due quasi per caso tra tutta la documentazione,  il film doveva a un certo punto chiamarsi Lettere a CatelloLe lettere, scritte dal 2003 al 2006, oltre a portare alla luce molti dettagli sulle attività criminose, offrono testimonianza anche del temperamento umano e della malinconia del boss. Dicono della fascinazione per le letture classiche. Raccontano della “figura del padre” e del suo ruolo di guida sociale, con tratti quasi messianici. In brevi stralci offrono punti di auto-analisi e auto-critica, con il sapore di un diario personale. Sono pagine di invettive e proclami, spesso terribili quanto sarcastiche, a volte ritenute “egocentriche”, ma accompagnate a pagine che ricercano complicità, vicinanza. Un bisogno di ascolto forse generato dalla troppa solitudine, per cui il boss si intrattiene a raccontarsi in mille dettagli anche esistenziali. A volte dipingendosi come vittima e a volte come carnefice della società. Spaziando dalla “gestione di questioni lavorative” a ricordi privati. Coinvolgendo nomi importanti per le inchieste, quanto citando l’arte e la letteratura, pittori, filosofi o scrittori ripreso dai libri che il boss stava scoprendo nelle letture in isolamento. 

In questi scambi, accesi quanto riflessivi, che partivano su un tema per poi evolversi in tutt’altro, per Grassadonia e Piazza emergeva materiale interessante da poter essere evidenziato, riletto e re-interpretato, sotto il segno della grande commedia italiana, giocando con il registro grottesco. Senza per questo togliere o glissare sui tratti “realmente crudeli”, che caratterizzavano e dovevano continuare a descrivere le persone coinvolte in queste vicende, poteva emergere dal “contesto relazionale” una “normalità distorta”, così incedibile da essere tragicomica. Nelle interviste legate alla promozione del film Toni Servillo afferma che la cifra grottesca della sceneggiatura risiedeva proprio in questo: nel riuscire “a far emergere con vigore, proprio in forza del ridicolo del contesto, il lato tragico della vicenda”. Tragico e al contempo ridicolo diventa quindi l’intero mondo di disperazione umana che ci viene raccontato, non solo dagli occhi del boss, ma attraverso tutti i personaggi della storia: in primis dal politico e dal boss, ma anche dai poliziotti, dalla piccola realtà di paese. Emergono tre personaggi femminili, la segretaria, la sorella e la poliziotta: diversi quanto simili, nel raccontarci tre facce diverse di un simile sentimento di solitudine e abbandono a una realtà incomprensibile quanto umanamente arida, ma che cercano comunque di “gestire”, anche con piccoli gesti. 


Tutti i personaggi indistintamente sono  dipinti come “assediati dalla disperazione”, impotenti o asserviti nei confronti di “chi ha (momentaneamente) più potere”. Tutti cercano di stare a galla in un mondo che sta cambiando, forse, ma troppo lentamente; pur accontentandosi di rivestire il ruolo di “piccoli virus ancora attivi” all’interno di un corpo sociale malato. 

Gli attori erano quindi chiamati a vestire i panni di uomini che vivevano nel paradosso. 

La sfida di Tony Servillo, soprattutto per il ruolo del suo politico, è stata preservare la “tridimensionalità umana”, fatta di lati oscuri più o meno visibili, di personaggi che anche solo visivamente potevano scivolare troppo nel caricaturale. Catello appare buffo e tronfio, ma solo in superficie. 

La sfida di Elio Germano è stata dapprima quella di  immedesimarsi al meglio nella “prospettiva sensoriale di Iddu”: calarsi per alcuni mesi nei luoghi dove erano state scritte quelle lettere. Comprendere tanto il senso di isolamento che le particolari sfumature sonore di quei luoghi. Ascoltare la musicalità del dialetto trapanese, ovattato da dietro mura e finte pareti. Il “salto paradossale” che si è poi trovato a compiere Germano, per “capire il personaggio”, è stato cercare di immaginarlo nel suo “accettarsi”, nonostante tutto come una “persona comune”, amante della lettura e dei puzzle. Come un politico o un imprenditore, con le sue riunioni e progetti di sviluppo, con le proprie debolezze e interessi privati. Un uomo pratico mosso dall’ambizione personale quanto dalla prosperità del proprio “gruppo”, che cerca di emergere sul mercato. Anche se è rappresentante di un mondo parallelo, criminale, “Iddu” è riconosciuto e sostento da una collettività dove il senso dello Stato e della giustizia sono mutati. 

Oltre a tutto questo, è anche un figlio diventato orfano di un padre dall’influenza enorme; una responsabilità che a volte lo schiaccia e reprime (vedasi la scena dell’incendio). 

Aspetti umani che Germano doveva far emergere oltre un costante muro emotivo, autoimposto dalla rigidità emotiva del personaggio: costantemente nascosto da spessi occhiali da sole scuri che non lasciano trasparire emozioni.


Tra realtà e racconto, a fine visione: Iddu sembra ispirarsi per molti aspetti a opere  complesse come Il sindaco del rione Sanità di De Filippo, come al film con protagonista Alberto Sordi Finché c’è guerra c’è speranza. “L’anormalità diventa normalità”, sotto l’influenza di un contesto sociale che per lo più ragiona secondo regole distorte di convenienza. I personaggi si adattato alla anomalia, al grottesco, diventando umanamente buffi e tragici allo stesso tempo nel tentativo di seguire le regole di un gioco “truccato”. 

Nel teatro di De Filippo un boss diventa un giudice la cui autorità e senso di equità  sono riconosciuti e accettati a tutti gli effetti più che in un tribunale. Anche il mercante d’armi impersonato da Sordi è accettato dai figli convinti pacifisti, sebbene ignorato in pubblico, perché porta a loro ricchezza e benessere. 

Il registro tragico riesce particolarmente a Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, che con Iddu si sentono liberi di indugiare sul soprannaturale, in parallelismi con i fantasmi di Shakespeare. Possono aprire a suggestioni platoniche sul timore e reverenza che suscita il potere in quanto tale, con contorni quasi manzoniani. I due registi sanno da queste premesse creare scene anche drammatiche potenti, dal grande impatto visivo ed emotivo, giocando su spazi e dialoghi dal forte sapore teatrale. 

La vena ironica “in potenziale”, se vogliamo “l’altra maschera dietro al grottesco” è pur presente in Iddu, anche se per scelta dei registi “più contratta”. Parlando in senso molto stretto di “maschere”, riesce a costruire molto, per la definizione di un registro “buffo”, proprio il trucco di scena scelto per i personaggi. 

Servillo con parrucchino e che nella prima scena sfoggia sulla giacca una cacca di piccione, visivamente non è lontanissimo dai ruoli compassati ma brillanti che “con simili vesti” Buccirosso svolge nelle commedie di Salemme. Germano che si muove con gli occhiali da sole, pallidissimo, sembra a tratti più che un nobile decaduto quasi un epigono di Dracula. Quando il suo personaggio si scusa in quanto “manchevole di ironia”, risulta molto ironico. 

Le maschere funzionano. 

Ogni tanto il film sfoggia anche momenti finemente tragicomici, come tutta la sequenza iniziale e la scena della “finestra abusiva”, ma il senso generale dell’opera è sull’accettare, senza sottolineare troppo, il fatto che i personaggi possano apparirci “anche”buffi: nella misura in cui tutti gli esseri umani, anche i peggiori, possono a tratti esserlo.  

Ciò non toglie che Iddu risulti infine un film amarissimo. Un canto funebre, purtroppo avvallato dalle circostanze dell’arresto di Matteo Messina Denaro, sull’impotenza delle istituzioni nella volontà effettiva di fermare la mafia. Una mafia ineliminabile oppure, per il paradosso e senso del grottesco presentato nell’opera, utile in quanto sostituto (dis)funzionante dello Stato, tacitamente accettato. 

Fabio Grassadonia e Antonio Piazza ci invitato a ragionare su queste meccaniche perverse, anche per magari ispirare le nuove generazioni e fare in modo che con il tempo si arrivi a un diverso modo di pensare. 

Finale: Il film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza ci ha convinto per la buona prova degli attori, per un testo dal sapore teatrale latore di una la forte critica nei confronti delle istituzioni. Funzionali le scenografie e la fotografia, che giocano con intelligenza sull’ambivalenza degli spazi di luce e di ombra, creando un costante senso di claustrofobia. Adeguato ma poco incisivo il comparto sonoro. Ritmo forse un po’ lento, ma utile a soppesare le varie sfumature dell’opera, che beneficia molto di una seconda visione per afferrare al meglio le molte sfumature di cui è composta. 

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