Siamo nella Francia del nord, in piena estate, ai giorni nostri.
In un piccolo paesino di pescatori della Cote d’Opale, che come ogni anno si anima di colpo di giovani e belle turiste mezze nude, con la voglia di stare in spiaggia sotto l’ombrellone, si fanno i preparativi per l’apocalisse.
È nato il signore del caos e ha occhi azzurri e capelli biondi, un viso un po’ a patata.
Il padre, Jony (l’attore non professionista Brandon Vlieghe), che dovrebbe essere tipo un grande ufficiale dell’impero degli “zero”, è un tizio sulla trentina davvero bruttarello e anonimo, perennemente in tuta da ginnastica, che tutto il giorno traffica con delle barche e sembra non aver fatto altro tutta la vita. Ha una voce demoniaca, riesce a sedurre un numero incredibile di donne bellissime con quella che appare ipnosi. Ma in fondo vive con la anziana madre in una casetta fatiscente come mille ragazzi della zona, anche se è saltuariamente al comando di quattro vecchietti amanti dei cavalli. I contatti con i capi avvengono nei pressi di un boschetto poco distante dal paese, in una dimensione parallela piena di sfere fluttuanti e parlanti nere e brutte come piccolo sacchi della spazzatura, che vivono all’interno di una specie di reggia/astronave spaziale.
Chi contrasta la fine di tutto è Jane (Anamaria Vartolomei), una angelica fanciulla della razza degli “Uno”, perennemente mezza nuda, che fa affidamento come alleato quasi solo su un bambinone non troppo cresciuto, Rudy (l’attore Julien Manier) che ama le spade laser e la fantascienza e anche lui vive con la mamma a pochi passi da Jony. La creatura angelica riporta a una dimensione parallela poco distante dalla riva, a cui si accede con un passaggio subacqueo. È un luogo simile a una chiesa, in cui vivono fluttuanti e parlanti sfere blu acceso simili a mappamondi.
Sono secoli e secoli che soldati di ambo gli schieramenti aspettano dallo spazio l’arrivo del grosso delle truppe delle rispettive razze.
Alla resa dei conti finale manca davvero pochissimo, al punto che si materializzano nei rispettivi palazzi anche i comandanti spaziali in capo. Da un lato c’è Regina (Camille Cottin), che ama così tanto passare del tempo con i terrestri che si è fatta eleggere pure sindaco del paesino. Dall’altro lato c’è Belzebuth (Fabrice Luchini), che detesta i terrestri e preferisce stare isolato nel suo palazzo di potere spaziale, ascoltando creature sonore e ballando in vestiti eccentrici, in attesa di distruggere ogni cosa.
Le interferenze con la realtà di questi due eserciti extra dimensionali, che si affrontando tra le strade e la spiaggia mettendo sempre più tutto a ferro e fuoco, iniziano a creare un caos che non fa bene al turismo locale, scatenando incidenti sempre più curiosi, sui quali cercheranno di indagare i poliziotti un po’ rintronati Carpenter (Philippe Jore) e Van der Weyden (Bernard Pruvost), per lo più arrivando a conclusioni surreali.
Il giorno dello sconto finale si avvicina e Jony e Jane iniziano a pensare alla possibilità di passare il tempo “in modo diverso”, rispetto dall’annientarsi a vicenda. Sarà una tregua o nella Cote d’Opale finirà per sempre la storia della razza umana?
L’impero arriva nelle sale in quel di giugno come un autentico “ufo”: un curioso oggetto filmico poco identificabile.
Arriva come vincitore a Berlino con motivazioni forse troppo criptiche o troppo “alte”, pur avendo una estetica del tutto diversa da qualsiasi film che vince a Berlino.
Arriva letteralmente sbudellato in due da critica e pubblico, divisi fino alla morte tra chi ne è rimasto “comunque affascinato” e chi piuttosto un po’ inorridito.
Arriva quasi di nascosto, come un guilty pleasure in poche sale.
“Cos’è di preciso” L’Impero, è materia complicata.
È pieno di navi spaziali di cartapesta, donne semi nude come nella fantascienza sexy anni ‘70, personaggi buffi ai limiti della macchietta e una sceneggiatura a tratti sgangherata quasi da film indipendente Troma. È ricco di attori importanti del cinema francese ma nel cast figurano anche esordienti assoluti, di fatto trovati sui luoghi delle riprese in corso d’opera.
È forse un fantasy un po’ antipatico e girato con tre lire che ci racconta di quanto, fuori dall’estetica laccata che costa svariati miliardi, tutti i fantasy sono concettualmente di fatto antipatici e “se la tirano molto” più sulla rappresentazione che sui contenuti?
È forse un film che usa attori di strada in ruoli principali anche “favolistici”, come faceva Pasolini, in cerca di una purezza che si è persa nello star system attuale, ma che non rinuncia a grandi attori come Luchini e la Cottin in piccolissimi ruoli eccentrici?
È un film sulla religione o la politica, il bene o il male, gli uni o gli zero e in genere tutti gli “opposti”, che vivono costantemente come diadi inconciliabili, dove in fondo però tutte le idee più estreme possono convivere grazie al “sesso”, con chi la pensa diversamente?
È quindi un film d’amore vero contro spade laser e concetti metafisici farlocchi?
È un film sull’attualità o un film che in fondo riporta argomenti vecchissimi di anni?
Ma poi, a che razza di pubblico è rivolto? Al “pubblico di razza” dei cineforum o a chi i cinefili più duri e puri dicono “ma che razza di film stai guardando?” puntando l’indice a chi ama il disimpegno cinepanettonico?
Quasi lo percepiamo, a chilometri di distanza e da quella prima uscita alla Berlinale, Bruno Dumont che se la ride.
Lo fa di gusto, per tutto il caos gioioso e anarchico che ha messo sulla scena nelle effettivamente “importanti” 2 ore e dieci di durata della pellicola. Minuti a tratti concitati ma spesso interminabili, meditabondi, quasi muti, in cui i protagonisti si limitano a spostarsi da un luogo di cartapesta e l’altro come in quel grande “film sul trekking” che per Kevin Smith, in un celebre e irriverente commento, era Il signore degli anelli.
Anche per inquadrare le astronavi e le basi degli Zero e degli Uno per intero occorrono lunghissimi minuti che parodizzano la stazza degli incrociatori di Star Wars come faceva lo Space Balls di Mel Brooks.
Però qui tutto è visibilmente finto. Gli abitacoli hanno al loro interno visibilmente delle sedie da giardino e il fatto che lo scontro apocalittico finale riguardi tue tizi che vivono con la mamma nello stesso vialetto e si menano con finte spade laser ci immerge per lo più nella trama-tipo di un episodio di South Park.
Se poi consideriamo che Bruno Dumont è famoso per qualcosa di esteticamente meno fuori dalle righe, ecco il motivo del fioccare dei capelli strappati dalla disperazione di molti spettatori, ecco le accuse di essere un “bollito”, ma non gourmet. Di fatto qui il nostro Dumont gioca con l’estremo, ma non dimentica le sue origini e le sue ossessioni.
Le sue ultime ossessioni, per il concetto di vero vs apparenza, ce le ricordiamo dal suo precedente e ugualmente stranissimo, ma meno estremo, France. Lì una bellissima Lea Seidoux interpretava una famosissima quanto falsissima giornalista, cinica fino al midollo per la sua “fame di fama” e voglia di riflettori, incapace però di reale empatia. A causa di questa assenza di coinvolgimento emotivo, la Seidoux si “autoprovocava” emozioni, in modo innaturale, complesso, spingendo il suo corpo quasi a contorcersi pur di spremere fuori delle lacrime autentiche, in grado di raggiungere il cuore dei suoi spettatori. Era una contorsione da Body Horror ed ovviamente fatica sprecata, perché per Dumont tutte le infrastrutture emotive o fisiche, che non sono autentiche, sono prima o poi destinate a crollare o mostrarsi di colpo per quello che sono: per lo più vacue, seppur molto colorate bolle di sapone.
Anche L’impero ci parla di bolle di sapone e dello stacco crudele tra realtà e grandiosità, andando sarcasticamente a costruire uno scenario apocalittico del tutto anti-epico, spoglio quanto tragicamente, “fantozzianamente” dimesso. Lo scenario inadeguato per uno scontro che potrebbe portare alla fine del mondo: un evento di cui non importa nulla o comunque pochissimo agli esseri umani, specie nel periodo delle ferie estive, al di là di quelle tre/quattro persone direttamente coinvolte nella vicenda, in un paesino che non avrà neanche 100 anime.
Dumont usa santi e diavoli, ma non nasconde mai l’intento di parlarci di un potere o di una classe politica attuale quanto concreta, sempre più incapace di dialogare con se stesso e tanto meno con la gente comune. Un potere temporale quanto secolare sempre più appassionato a scenari di “distruzione intergalattica”, forse anche per la sua nascosta paura di essere ora dimenticato da tutti, di liquefarsi come bolla di sapone al sole, nell’indifferenza generale di una cittadina di pescatori che anche senza diavoli e angeli potrebbe benissimo andare avanti.
Dumont scatena così anche il più classico dei tabù in virtù del quale le persone si dimenticano del potere in genere: il sesso. È un sesso gioioso, compulsivo, del tutto intenzionato a ristabilire il primato della carne sopra una “ragione che ragiona troppo”, per colpa di un “potere sempre più alieno”, come di fatto gli Zero e gli Uno appaiono effettivamente essere “alieni”.
Il tutto viene condito poi con abbondanti dosi massicce di assurdo, mucche volanti e poliziotti surreali, sovrani intergalattici folli e ossessive manie sulla moralità o immoralità di ogni cosa.
L’impero di Bruno Dumont è una grande pernacchia a tutto ciò che è tronfio.
Per questo è anarchicamente sgangherato nella forma, esteticamente e artisticamente dimesso, ricercatamente grottesco e kitch, “libero” al punto da risultare antipatico specie a chi, con quel nome (“L’impero”) e quelle premesse (La “Space-opera”), si aspettava magari Star Wars che incontra Il Signore degli Anelli sul pianeta Dune. Un grandiosità di cui la Francia è capacissima in senso artistico e culturale da sempre, probabilmente la prima al mondo, ma anche una grandiosità che spesso, come insegnano i tempi recenti, può essere fine a se stessa. Una grandiosità che Bruno Dumont non vuole e quindi, umilmente, decide di “non-esprimere”, in un “Non-colossal”.
L’invito che rivolgo al pubblico che troverà questo strano tesoro in una sala cinematografica estiva, all’ombra di un cartone animato Pixar, un action Movie e Mad Max, è quello di “vivere L’impero” anche nella sua innegabilmente e gioiosa antipatia. Guardare alle sue spade laser di plastica come a semplici spade laser di plastica, ridere per le mille gag visive che riguardano animali teletrasportati in luoghi strani, ridere di Luchini che fa il monarca spaziale, del dress code stile Barbarella degli Angeli sotto copertura, del cast di attori della proloco, della cartapesta.
Ridere di ogni assurdo seguito da nuovo assurdo, senza cercare troppi paragoni, per infine scoprire quanto di davvero interessante e geniale questo strano hellzapoppin può offrire, nel classico stile di Bruno Dumont.
Non per tutti, decisamente. Ma si sicuro per chi ama veder scoppiare i tabù come bolle di sapone.
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