mercoledì 4 settembre 2024

Paradise is Burning: la nostra recensione dello struggente ma bellissimo film drammatico diretto dall’esordiente Mika Gustafson

 


Svezia dei giorni nostri, nel mezzo di un torrido periodo estivo. 

Ai margini di un quartiere operaio di Stoccolma, legate con tenacia e amore disperato l’una all’altra, vivono con spensierata imprudenza e mezzi di fortuna tre sorelle rimaste sole. 

La più grande è l’adolescente Laura (Bianca Delbravo), che di fatto si è sobbarcata lo status di madre provvisoria e cerca come può di far quadrare il bilancio con piccoli lavori e una, pur “complessa”, aura di severità e rigore verso le più piccole.  Mira (Dilvin Asaad) è la sorella intermedia e sta scoprendo i primi amori e le prime “voglie” di stare senza le altre due. Steffi è la più piccola e forse necessita di tante coccole (Safira Mossberg), ma non fa pesare troppo la questione. 

Dalla morte dei genitori vivono di espedienti, nascondendosi dove possono per evitare di essere divise, “barando” con la burocrazia e potendo contare su poche, fidate persone che possono supportarle. Si spostano di continuo, ma comunque riescono a frequentare le scuole, lavorare e nei ritagli di tempo pure far parte di un piccolo “branco” di giovani post-hippy: novelli millennials figli dei fiori che amano vivere tra i campi e i fiumi a contatto con la natura, ma saltuariamente cercano di occupare le ville con piscina di ricchi momentaneamente in vacanza, scavalcando recinzioni e serrature. 

Anche loro in fondo hanno bisogno di vacanze, recinzioni permettendo. 

Le tre sorelle “fanno la spesa” al supermercato in un modo abbastanza rodato: la più piccola attira l’attenzione simulando finte tragedie “al sangue di carne bovina” per spaventare i commessi, le altre due si muovono veloci tra i frigoriferi senza essere scoperte. Poi vanno a ricongiungersi all’uscita e all’auto per la fuga,  rocambolescamente. Il gioco tiene ormai “da anni” e la più grande delle tre, pur tra alti e bassi, riesce per un po’, grazie alla sua vitalità ribelle, a crescere la sua disastrata famiglia. 

Ma i sevizi incombono per colpa di uno sfortunato scherzo del destino e Laura è costretta a fare i conti con la necessità di dover sfoggiare, seppure per finta, una “madre provvisoria”. È così che la ragazza si avvicina alla affascinante e solitaria vicina di casa Hanna (Ida Engvoll), che sembra essere stata proiettata in quel luogo quasi da un altro pianeta. 

Il marito non è mai in casa, Hanna muore di noia e pare davvero affascinata dallo strano mondo “visto dagli occhi di Laura”. Un mondo dove si può entrare in università per scroccare un caffè caldo alla mattina. Un luogo dove giocare con la memoria di anziane signore, fingendosi parenti o corrieri, per entrare provvisoriamente in un appartamento sfitto dove stare indisturbate. Una “dimensione” che permette di vivere alla giornata, tra mille trucchi e assecondando una contagiosa, trascinante richiesta continua di libertà. 

Zero regole, solo affetto per i propri cari. Forse è questo, il vero paradiso. I mondi di Hanna e Laura si avvicinano, ma la situazione prenderà pieghe inaspettate e le tre ragazze saranno costrette a “crescere” ancora più in fretta.


Presentato a Venezia lo scorso anno, risultando vincitore nella categoria Orizzonti, la prima pellicola di Mika Gustafson ci travolge dal primo all’ultimo minuto, immergendoci in una realtà di confine complessa quanto vivida: così realistica/cruda che se vogliamo possiamo considerarla figlia di quello stesso cinema sociale dei fratelli Dardenne. Un cinema che comunque viene stemperato a tratti da una riuscita “piccola punta di sarcasmo”, vicina alle opere di Xavier Doland, che permette alla storia di prendersi ogni tanto una boccata d’aria, “per sognare e ridere” delle disgrazie.  

Il “paradiso” delle tre protagoniste appare come un posto precario e crudele anche in una Stoccolma ultra moderna, composta e pulita, ordinata e quasi da cartolina. All’ombra del lusso, una umanità giovane, dispersa e disparata, si accapiglia per scampoli di gioia provvisoria con la temerarietà e romanticismo dei pirati. 

Se le persone comuni, pur con le eccezioni, risultano ben disposte, accoglienti e generose verso questi “giovani di strada”, sono lo Stato e i suoi servizi a vivere in uno status quasi schizofrenico: tirando fuori, specie sui più deboli, rancori e comportamenti autoritari quasi inaccettabili. Assistenti sociali in pieno burn-out, coperti sarcasticamente di cerotti e lividi, sembrano essere in grado di fare più danni della “legge della strada”, sfoggiando codardie e una mancanza di empatia che sfocia quasi nel crudele. Non fosse per il fatto di essere “destinati alla sconfitta” e a sfoggiare nuovi cerotti, grazie alla magia del cinema, quasi come il Coyote dei cartoni Warner. 

Anche il sistema-famiglia tradizionale, visto attraverso gli occhi sognanti ma contradditori del personaggio di Hanna, sembra essere una istituzione/casa al bivio, “atomizzata”, votata all’auto distruzione o all’autoreferenziale, in grado di frantumarsi quanto ri-consolidarsi male in un attimo, quasi irrazionalmente, di fatto non riuscendo più a comunicare con il sociale e “con il resto del mondo” a nessun livello.    

Impossibile in questo scenario non provare affetto e complicità per le tre piccole, adorabili e disperare protagoniste, a cui danno corpo tre straordinarie giovani interpreti, delle quali probabilmente sentiremo ancora molto parlare. La loro libertà quanto l’ingegno per mantenerla sono contagiosi, a tratti folli, ma il loro legame, pur fatto di continui scontri, va sempre a disegnare una piccola o grande crescita interiore in ogni personaggio. 

Se Laura all’inizio della storia è a tutti gli  effetti la “madre vicaria”, in attesa della “madre di facciata” Hanna, il ruolo di “adulto del gruppo” riesce nel corso della storia  a passare sorprendentemente a Mira e qualche volta pure alla piccola Steffi!  In qualche modo, senza ricorrere a troppi voli pindarici o in adulti/ectoplasmatici, proprio la genuinità del loro legame consente a tutte e tre delle piccole pause: momenti per “tornare provvisoriamente bambine”, nutrire i propri sogni e speranze, “riappropriarsi” di spazi, amori e di una normalità da ragazzine. Tutto quello che il caso le ha negato, se lo sono ripreso. 

Gustafson è molto attento e accorto, quasi elegante, nel fare in modo che questo “balletto di ruoli” risulti sempre credibile, “onesto” quanto inclusivo dello specifico punto di vista di ognuno dei personaggi. È così che un film duro, con tutti i crismi e patimenti della storia reale, riesce nel miracolo di salvarsi dal cinismo proprio del mondo reale. Una favola vera, che crede nel potere delle nuove generazioni di salvare il mondo, a dispetto di un mondo che non ci crede più.

Se amate il cinema d’autore, quello che da masticare con gusto temi sociali e sentimenti, fatevi un regalo e andare a riscoprire, se non lo avete visto alla biennale, questo piccolo grande film svedese di un regista esordiente. 

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