Georgia dei giorni nostri, mondiali di Judo.
Nella squadra femminile della Repubblica Islamica dell’Iran gareggia la giovane e determinata Leila (Arienne Mandi), assistita dalla sua allenatrice, la rigida e silenziosa Maryam (Zar Amir Ebrahimi).
Il viaggio in pullman dall’Iran è lungo e avvolto per lo più nel deserto e nel buio. L’atleta lo affronta cercando di rilassarsi, con nelle cuffie una playlist di musica pop creata affettuosamente tutta per lei dalla sua famiglia. Leila, dopo una serie di banchetti e presentazioni pubbliche piene di applausi e riconoscimenti, si sente quasi schiacciare dal peso di tutta la fiducia che ripongono in lei, la federazione come la sua famiglia.
I parenti e gli amici sono già pronti per fare il tifo davanti alla tv, ma sembra quasi che tutto il paese stia trattenendo il fiato, come se fosse un momento di straordinaria importanza che va al di là dello sport.
Maryam durante il lungo viaggio trattiene ogni sentimento ma sente di essere sicura del risultato: Leila è forte quasi dieci volte le avversarie e se rimarrà concentrata potrà vincere ogni incontro, anche in pochi secondi.
All’arrivo nello stadio, la prima doccia fredda: Leila alla pesatura è oltre il limite di categoria di mezzo chilo e forse non potrà gareggiare.
Ha solo un’ora per sistemare le cose e la ragazza, con rabbia e determinazione, si lancia nella palestra comune, diretta alla cyclette, dove tra dolore, sudore e lacrime, quasi spogliandosi del tutto di ogni energia, riesce a perdere settecento grammi. Incazzata quanto spettinata e arruffata, è ora pronta per la lotta.
Davanti a sé tutto il suo mondo si riduce al quadrato delle gare: il tatami. È lì, al centro della scena, tra avversarie di tutte le nazioni e giudici di gara, che dimostrerà il suo valore.
Le sfidanti sono forti e fin dal primo scontro di qualificazione mostrano i denti, sfuggono agli attacchi alle gambe, kimono e alla cintura, evitano gli assalti e dimostrano stabilità d’acciaio. L’esito di ogni incontro non risulta mai semplice, perché non lo è: tra prese a tenaglia, proiezioni e leve articolari, tutte vogliono la vittoria, non arretrano né si arrendono.
Leila avanza, raccoglie dolori e stanchezza come medaglie, procede dritto dimenticandosi dei lividi e di tutto il mondo che si trova al di fuori del tatami, quasi sentendo nelle orecchie il tifo del marito e dei parenti.
Maryam, a bordo ring, a dispetto del suo atteggiamento sempre composto e impeccabile, ringhia a ogni errore e impartisce ordini. È severa quasi al punto da apparire spietata con la sua protetta. Anche lei ha “fame di vittoria” lo fa per dimenticare quando in passato era arrivata vicino alla vetta, ai campionati, prima che un infortunio fermasse per sempre la sua vita agonistica.
Leila vince veloce come era previsto, ma qualcosa di inaspettato inizia a muoversi oltre il tatami.
Lo vuole lo Stato.
In Georgia si è qualificata per le gare anche una atleta israeliana e dall’alto hanno deciso, in modo incontrovertibile, assoluto e intrattabile, “sacro”, che un incontro contro di lei, per l’Iran, non è auspicabile per questioni politiche.
La direzione vuole obbligare l’atleta a ritirarsi, subito, promettendo che ci saranno altre occasioni per dimostrare il suo valore. Maryam riceve la telefonata e prova a parlarne con Leila con la morte in cuore, anche lei in passato si era trovata in una situazione simile e l’Iran ha più volte ritirato le sue atlete per motivi di questo tipo, al punto da far sollevare sospetti a livello di regolarità sportiva.
Maryam spiega e Leila rimane incredula: perché la hanno supportata e fatta partire festanti fino a poche ore prima? Poi cerca di mediare: Il campionato è “mondiale”, ci sono ancora tanti incontri e la possibilità concreta di incrociare proprio l’israeliana è quantomeno remota, anche solo seguendo l’andamento del tabellone. L’israeliana poi non è favorita, potrebbe lasciare ai primi turni la competizione.
Leila vuole andare avanti, Maryam per il momento capisce che non ha senso fermarla.
L’Iran vince ancora e ancora, riscuotendo molto interesse anche da parte degli osservatori internazionali. Purtroppo va avanti anche Israele.
Dopo ogni vittoria, lo Stato Iraniano telefona a Maryam, ma non per complimentarsi. Il tono è sempre meno accomodante. Questa “ostinazione a non ritirarsi” parla per loro di un inaccettabile affronto alle autorità religiose da parte di un paio di donne. Si ventila la fine della carriera per l’atleta insubordinata, poi si minacciano “conseguenze indesiderabili” per il futuro di entrambe.
Infine si arriva alle vie di fatto.
Lo Stato prende in ostaggio la famiglia dell’allenatrice Maryam: le mostra da un cellulare il padre con dei fucili davanti al volto. Il padre la maledice e rinnega, la supplica di sottomettersi alla decisione. Presto lo Stato riuscirà a fare lo stesso con la famiglia di Leila, questione di minuti.
Tra gli spalti del palazzetto dello sport iniziano a farsi largo loschi figuri governativi, magari pronti a strangolare personalmente le due donne in caso di vittoria. La ragazza deve smettere subito di combattere anche se sta vincendo, se tutto l’Iran con lei, di fatto, sta vincendo.
Un tentativo disperato di farsi squalificare per commozione cerebrale, prendendo a testate lo specchio del bagno, non risulta credibile. Tuttavia qualcuno sembra intenzionato a schierarsi dalla parte delle due atlete, fornendole una via d’uscita.
Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi confezionano un film potente e doloroso, con al cento la vita di due donne coraggiose quanto profondamente umane.
È un film sul mondo del judo, rappresentato in tutta la sua dinamicità agonistica e velocità da un cast tecnico di primissimo livello. Le professioniste del combattimento coinvolte sono in grado di esprimere sempre con assoluta chiarezza e competenza le dinamiche di lotta. Un montaggio veloce e accurato rende sempre diverso quanto intellegibile ogni confronto, il reparto sonoro in presa diretta conferisce la giusta spazialità e profondità all'azione. Lo sport diventa vivido, quasi frenetico, rabbioso come epico: la pellicola è perfettamente ascrivibile tra i migliori film d’azione di stampo “sportivo realistico”.
Una fotografia quasi in bianco e nero, unita a una scenografia semplice fino all’essenziale, rende il tatami, quanto i luoghi limitrofi al torneo, simili a uno “spazio a parte”: una zona fuori dai colori e sfumature del mondo. Un “altrove”, agonistico quanto democratico, dove tutti sono uguali per uniforme e spazio sulla scena, uniti da ritualità di stima e disciplina. Un luogo in cui si può dialogare in modo universale, proprio grazie allo sport.
Il mondo esterno e i suoi colori ocra, caldi ma sbiaditi, presto interferiscono con la sacralità del tatami e del torneo, conferendo nuove sfumature al film, altrettanto riuscite.
Tra telefonate e flashback sempre più invadenti, ci troviamo spostati dalla scena principale al retroscena, dalle luci dello sport alle ombre interiori. I personaggi sono costretti a fare i conti con una realtà più dura delle botte, soprattutto perché avvertita come rigida, assoluta: un luogo in cui ogni possibilità dialogica muore.
Lo sport diventa di colpo “altro”, quando forse narrativamente, nelle intenzioni iniziali “di chi comanda”, doveva essere per lo più una parentesi frivola.
Lo sport diventa prima vittima di una “politica prudente” e poi, in rapida escalation, mezzo per “un’eresia”, in quanto possibile atto di ribellione a un comando “di principio”. Non importa più l’esito dell’incontro, il destino delle atlete o delle loro famiglie: si deve reprimere.
Quasi in tempo reale assistiamo quindi agli scontri sul tatami, esaltanti quanto splendidamente ripresi, mentre tra un incontro e l’altro si dipana una “tragedia greca” sotto forma di thriller psicologico/politico, in cui l’esito fino alla fine è incerto, con la vita delle due protagoniste sempre più a rischio .
I personaggi interpretati dalle bravissime Arienne Mandi e Zar Amir Ebrahimi, riescono, con i loro corpi contratti e feriti e con la loro mente sempre messa a dura prova, a comunicare un intero universo di passione, impegno e sofferenza. Possenti quanto fragili, sono chiamate a dover “resistere o perire” a un deus ex machina profondamente sordo ai loro ideali positivi e impegno. Un deus che le “vuole e impone” come pedine sacrificabili, “per un bene più grande”, seguendo logiche ineluttabili, che appaiono prima di tutto tragicamente ingiuste e infine quasi sadiche.
Tatami forse parte come un episodio di Rocky, Warrior di O’Connor o Million Dollar Baby di Eastwood, ma arriva presto a giocare nel campo di Rollerball di Norman Jewison. Con la variante significativa che se il capolavoro con James Caan era di fatto un’opera di fantascienza distopica, la pellicola di Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi parte da situazioni reali ben documentate, sulla base delle quali sono nati sistemi di sostegno agli atleti internazionali come la “squadra degli atleti rifugiati”. Tatami, in un modo originale quanto rispettoso, riesce a parlarci anche di queste realtà internazionali e di come agiscono.
Tatami in un modo asciutto, e più universale di quanto si voglia credere, ci parla di come il ruolo della donna sia ancora contratto in molte parti del mondo. Ci parla di come la politica possa di fatto non seguire gli interessi delle persone che pur operano per il successo nel mondo del loro paese.
Tatami, come faceva Rollerball, sottolinea quanto lo sport di fatto possa assumere un ruolo importante nella società odierna, a livello di simbolo, di “nuovo eroismo”. Un messaggio che Tatami condivide anche con il film sulla ginnastica artistica Olga, anche lui tratto da una storia vera.
Tatami un film che vale la pena di vedere tanto se siete appassionati di Judo che di diritti umani.
È un film importate e ben recitato, che sa scorrere via in un attimo e fa uscire dalla sala con la voglia di “cambiare il mondo”: magari iscrivendosi a una palestra per praticare judo.
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