domenica 15 giugno 2025

Milarepa: la nostra recensione del film “spirituale” di Louis Nero

Ci troviamo in un luogo alla fine del tempo: un’isola ai confini di un mondo futuro diventato desertico, medioevale, pieno di miseria e complotti, maghi e streghe.

Qui le donne non hanno più il diritto di leggere o studiare, si occupano di campi rinsecchiti e vivono all’ombra di stazioni ferroviarie in disuso, aspettando di essere sposate per suggellare patti di potere. Un giorno il nobile capo di un villaggio, padre di due figlie, viene colpito gravemente in un agguato. Le ultime disposizioni sono che gli zii succedano al comando, fino a che la sua figlia più grande, Mila (Isabelle Allen), sarà in età da marito. Ma gli anni passano e i patti non vengono rispettati. La madre (Iazua Larios) e le due figlie vengono cacciate dal palazzo insieme al nonno Oyun (Frank Murray Abraham). La madre vuole vendetta, taglia i capelli di Mila come quelli di un maschio e la manda a studiare arti oscure, che le permettano di distruggere con la mente i palazzi e rendere aridi i campi usurpati. Sotto la guida del saggio Yuguntun (Hal Yamanouchi), Mila impara la scienza e i fondamenti della magia, forse sogna per sé un futuro felice, ma la vendetta che reclama a gran voce la madre la porta a diventare agli occhi di tutti un’arma spietata: una strega.

La ragazza scopre di essere potente ma al contempo si macchia di colpe indicibili. Cerca il Lama Marpa (Harvey Keitel), per arrivare a una crescita spirituale che la renda ancora più forte. Ma la guida, trattandola come un manovale, non fa altro che chiederle di costruire e distruggere torri, senza mai farla accedere alla sua sapienza.

La ragazza cade presto in un vortice di disperazione, dal quale può forse uscire grazie all’aiuto di un misterioso viandante (Franco Nero).

 


Arriva a otto anni di distanza da The Broken Key il nuovo film di un autore originale, “spiazzante” e profondo come Louis Nero. Nero ha uno stile registico che può ricordare, per suggestioni/assonanze visive, ricchi costumi e intrecci dal sapore di favola, il Pasolini più esoterico. Gira spesso in low budget, ricercando e ricreando un senso di fantastico che gli viene offerto dalla rielaborazione, con fotografia ed effetti visivi, di scorci reali e celebri dell’Italia dei giorni nostri. Crede a un’idea di cinema senza confini e sul set predilige la lingua inglese e dialoghi semplici, quasi religiosi. Tratta temi che spaziano dal fantasy (Golem) alla psicanalisi (Hans), affondano nelle radici della multiculturalità (Il mistero di Dante), sfiorano la fantascienza unita al sacro (The broken Key). Sono molte le star internazionali che, nel tempo, sono state attirate dal suo talento, anticonvenzionale quanto “alieno” da molte meccaniche produttive ritenute ormai “standard” nella settima arte. Louis Nero offre per questo un cinema profondamente autoriale e difficile, volutamente “imperfetto” e non adatto ai giusti delle ampie platee. Per qualcuno risulta davvero bizzarro se non forse “troppo fuori standard”, ma Lous Nero riesce a essere un artista sempre ricco di suggestioni e passione.

Non fa eccezione questo suo ultimo lavoro, che racconta e reinventa in una chiave nuova, “femminile”, la storia di un mistico tibetano dell’anno 1000, rimmaginandolo in un luogo futuro/apocalittico che Nero ha ricercato per due anni tra i paesaggi, i colori e i canti corali della Sardegna. Come sempre sul lato visivo l’autore sorprende e affascina, qui per un grande lavoro di ricerca volto a mettere in assonanza, tra Oriente e Occidente, la “funzione” di alcune costruzioni del passato: come nuraghe che si trasformano in tombe tibetane. Anche i canti della tradizione corale sarda sanno mischiarsi in modo suggestivo con le litanie tibetane.

Sul lato narrativo il discorso è diverso e più complesso.

La storia del mistico Milarepa (raccontata anche da Jacques Bacot in un libretto per la collana Adelphi) è una vicenda che aveva colpito e appassionato il regista fin da quando era un ragazzo di 20 anni (quell’età magica in cui anche il Siddhartha di Hermann Hesse affascina tanti lettori), andando a influenzare i suoi studi sui miti e le religioni antiche. Nel 2025, in un periodo in cui sentimenti come la rabbia e la vendetta sembrano esplodere su tutto lo scacchiere mondiale, inasprendo ogni relazione umana, Nero ha sentito l’urgenza di portare in sala un adattamento del racconto che invitasse il pubblico a “superare la rabbia”, accettando la spiritualità e la meditazione come una vera e propria cura dell’animo umano.

Un progetto ambizioso, quasi “sciamanico”, pur con qualche licenza in molti passaggi vicinissimo alla storia ufficiale. Una storia simile a una favola oscura che prende la forma di un viaggio unico, curioso e strano. Sulla scena; temi come la morte e la rinascita, l’immenso ma effimero potere offerto dalla vendetta, il duro e amaro cammino verso il perdono di sé stessi.

Nero decide di giocare con tanta, troppa mitologia e simboli, spesso a discapito di una direzione degli attori più chiara, di un montaggio più sintetico. Nella messa in scena, per precisa volontà dell’autore, i personaggi spesso risultano “rigidi”, “straniti”: quasi fossero racchiusi in una gabbia simbolica troppo impenetrabile, che rende difficile empatizzare con loro.

Isabelle Allen dà vita a un personaggio che dovrebbe vivere di molte trasformazioni, ma che per una ricercata fissità espressiva risulta quasi assente. Il Lama di Harvey Keitel è così trattenuto e indurito da sembrare una statua, anche quando dovrebbe portare alla luce la forte contraddittorietà delle sue azioni: cambia umore e viso all’istante, quasi fosse un giano bifronte. Ogni relazione umana diviene di conseguenza un processo estremamente meccanico, più simile a una preghiera che a un dialogo.

Tuttavia, proprio questo “senso di alienazione” rende i personaggi di Nero particolarmente affascinanti, inconsueti.

Così come il film vuole essere a modo uso esattamente una “preghiera”, al punto che dal 19 giugno sarà proiettato in 100 sale in accordo con associazioni legate allo Yoga e alla Crescita Spirituale. Insieme alla visione, saranno organizzati momenti di riflessione e meditazione collettivi.

Siamo nell’area della “lezione” più che della “rappresentazione”, del “racconto corale” più che del cinema nella sua forma più canonica. Uno spettatore non adeguatamente preparato può rischiare di perdersi tra mille domande e uscire magari sconfitto dalla visione, “insoddisfatto” da un messaggio che può non essergli arrivato con la dovuta chiarezza. 

Ma se ricercate un film fuori da ogni schema, che tradisce/ignora moltissime delle convenzioni narrative della settima arte scegliendo liberamente di esprimersi con un linguaggio proprio, spesso imperfetto, spesso compresso e troppo esteso, siete nel posto giusto. Anche senza conoscere il mito di Milarepa, è possibile approcciarsi all’opera osservandola come uno “strano oggetto filmico non identificato”, sorvolato nelle nostre sale, nel mezzo dell’estate del 2025, in un modo non diverso da come l’anno scorso abbiamo avvistato L’impero di Bruno Dumont. Entrambe pellicole fieramente non accomodanti, a loro modo entrambe “fantasy”, frammentate ma stimolanti, genuine quanto forse accessibili in pieno solo al loro autore. Se vi ha colpito lo stranissimo film di Dumont, un giro su Milarepa di Louis Nero lo potete fare.

Se vi aspettate un film stile Piccolo Buddha di Bertolucci o magari Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera di Kim Ki-duk, vi trovate qui davvero su una galassia lontana lontana.

Se tutto questo vi spaventa più che stimolarvi, vade retro.

Del resto, in genere, gli Ufo cinematografici e non da sempre spaventano, per mille validi motivi.

Ma se sarete abbastanza audaci, pronti a farvi stimolare, sconvolgere e appassionare, da un autore complesso e unico nel suo stile come Louis Nero, potreste trovare in sala qualcosa di felicemente inaspettato. 

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