Siamo in una torrida giornata di settembre del 2017. Lo scrittore ottantenne Pietro (Diego Abatantuono) ha deciso di farla finita, proprio nel giorno del suo compleanno.
Per lui è come se ci dovesse essere almeno una “punta di gioia”, per farla finita.
Sono ormai passati due anni da quando sua moglie pittrice Sara non c’è più. Da allora la vita gli appare inevitabilmente “storta”: storta come i tanti quadri di Sara nello studio, che sembrano essere appesi effettivamente storti, nonostante lui cerchi sempre di raddrizzarli. Come scrittore ha già da dieci anni suggellato il suo cinico testamento artistico con il libro “Andate tutti affanculo” e ora non resta che aggiungere a quanto già scritto una piccola appendice: la sua lettera da suicida. Dopo ”averci mandato tutti”, meticolosamente, catalogando su una agendine nera tutte le tipologie umane “meritevoli”, affanculo decide di andarci lui, spontaneamente, seguendo una pista di pastiglie accompagnate da whisky, seduto alla sua scrivania, ascoltando musica a tutto volume. Un po’ da rockstar.
Dalla segreteria telefonica arrivano gli auguri da parte della figlia e del genero, si parla di una torta e della possibile presenza del nipote Mattia (Biagio Venditti). Tutto in sospeso, forse c’è dietro una sorpresa. Dipende “chi fa a chi”, la sorpresa.
Non si può morire in pace che bussano alla porta, quasi la sradicano. È la polizia e ha brutte sorprese. La figlia di Pietro e il genero, disposti su due lettini di ferro. Corpi da riconoscere. Forse una buca, magari un piccolo incidente. La macchina ha girato su se stessa. Pure i quadri appesi all’obitorio, sono storti. Mattia ora è solo e già abbastanza triste, reduce da un pomeriggio brutto di suo, dove è stato scartato come batterista di una band di coetanei.
Il ragazzo ha gettato per terra le bacchette poco prima di incontrare questo nonno strano, assente e distante, che lui chiama solo ed esclusivamente “Pietro”. Lo aspetta sulla porta, anche se poteva benissimo entrare, aveva le chiavi di casa. Ha una brutta faccia. In breve ha una brutta faccia pure Mattia.
C’è il doppio funerale, rigorosamente in una giornata di pioggia. C’è il giorno dopo la pasta al sugo di Pietro che viene lasciata fredda nel piatto del nipote, che sembra aver smesso del tutto di mangiare e parlare. Ci sono gli assistenti sociali, che obbligano il minorenne Mattia a stare a vivere con un congiunto o finire in affidamento da qualche parte.
C’è una telefonata inaspettata, da un tizio di nome Marcello, che dice di essere lo zio di Mattia, è ricco e disposto a prendersi cura del ragazzo. Solo che Marcello sta a Roma e gli altri a Milano. Tra tante cose storte, forse è l’unica dritta.
Pietro tira fuori dalla polvere del garage la sua Citroen Vs 23 metallizzata semi-oro, poi coinvolge il cane Syd e Mattia in un viaggio on the road che condurrà fino a un porticciolo di Roma, dove lo zio Marcello con yacht, famiglia e filippino sta per partire per una crociera.
Voltare pagina con brezza marina extra.
Il viaggio non può essere che eterno, nell’ordine delle decine di ore: perché nella agendine nera del nonno ci sono sia autostrade che camionisti. La gloriosa Vs 23 va a rilento sotto le note dei Ribelli e la loro “Pugni Chiusi”, combattendo la calura interna dell’abitacolo con un ventilatore da tre euro.
Una piccola odissea di fine settembre, tra ricordi e forse nuovi amori (con co-protagoniste le “ninfe/post-hippy” interpretate da Marit Nissen e Guendalina Losito) che cambierà giocoforza la vita di Pietro e Mattia: imponendogli di fare i conti con se stessi e mettendoli davanti, volenti o nolenti, alla necessità di “tornare a vivere”. Se non per se stessi, almeno per chi dobbiamo proteggere. In fondo, si può vivere storti per sempre.
Gianni De Blasi arriva al lungometraggio adattando insieme a Antonella Gaeta e Pippo Mezzapesa (sceneggiatori di Ti mangio il cuore, il film con Elodie) un malinconico e affettuoso libro generazionale di Lorenzo Licalzi. Ne nasce un film il cui Diego Abatantuono e Biagio Venditti con estrema naturalezza ci conducono in un racconto strano, carico di parole non dette e conflitti interiori irrisolti, vestendo i panni di due personaggi per lungo tempo pensosi e contratti, cordialmente “bofonchianti”, ostinatamente poco comunicanti. Il loro “autunnale” viaggio lungo l’Italia, assume subito e con rimorso i connotati di un malinconico lungo addio alla rispettiva “vita precedente”: un doloroso e non voluto percorso in linea retta, molto parco di risate e traboccante di dolore, dove anche i paesaggi più da cartolina sembrano qualcosa di intangibile, spesso crudele. “C’è della gioia”, nel mondo, ma è come se la coppia protagonista indossi un impermeabile abbastanza forte da non farsi intaccare dalla sua influenza positiva. Si procede inciampando più o meno negli stessi errori e malinconie, sordi alle emozioni fino a quando le emozioni diventano così travolgenti e oniriche da auto-imporsi, in una specifica “tappa del viaggio”. Un “non-luogo” di sosta forzata dal dolore, troppo bello e “felliniano” per essere realisticamente vero, iconico quanto purtroppo non condiviso dai due personaggi. Protagonisti pure qui pervicacemente vicini fisicamente, ma al contempo separati emotivamente. Soli lungo una strada predefinita giusto un po’ più colorata, viaggiatori autonomi, fino a un epilogo quasi contratto, dove arriva però salvifico un alleggerimento generale dei toni.
C’è tanto, tantissimo “thanatos”, malinconia e affini. C’è troppo poco “eros” e purtroppo in fondo poca condivisione, scarsa voglia di riuscire a ridere, stemperare in un sorriso il tragico.
Abbiamo un Abatantuono lunare, quasi troppo crepuscolare, che ricorda in più punti il De Sica de I limoni di Inverno nel suo attendere inerme il decorso degli eventi. Anche in questo caso ci aspettiamo la zampata del grande comico, quella in grado di abbattere la malinconia, lo “sberleffo”: ma rimaniamo per lo più a bocca asciutta. Anche perché abbiamo un Venditti troppo “realisticamente adolescente”, e quindi pessimista quasi in modo cosmico. Non motivato nel cercare di risollevare il tono generale plumbeo del fluire degli eventi.
Non aiuta all’economia del film un regista che si fissa, pervicacemente, nel voler sottolineare il “tono triste e introverso dell’opera”, con il pennarellone più grosso e monocolore di cui dispone, quasi temendo di maneggiare le altre sfumature. Consapevole della bellezza della fotografia e scenografia, dell’interessante contributo della colonna sonora e del buon feeling che Abatantuono e Venditti riescono a costruire sul set, De Blasi costruisce e consolida un continuo muro divisorio tra il piano visivo ed emotivo dei personaggi. Un muro formalmente perfetto, dove l’incomunicabilità è una cifra di stile precisa, quasi accostabile ai lavori più introspettivi di Makoto Shinkai.
Ne esce un film decisamente e “riuscitamente” drammatico, in grado di evocare nello spettatore i peggiori spettri emotivi che si annidano anche sotto la più radiosa cornice da cartolina. La perfetta rappresentazione di un mondo dove la gioia è relegata a fugaci sogni da cui distogliersi con fretta all’alba (come nell’epilogo del capitolo del “casolare”), per tornare meticolosamente a redigere, nel quotidiano, un elenco preciso delle persone che detestiamo al mondo.
Un mood tragico, disincantato quanto condivisibile, che come dimostra la visione dei Giffoni è stato in grado di incontrare la curiosità e il gusto di un pubblico anche giovane. Stiamo per assistere a una nuova corrente di film super-tragici?
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