Siamo nel Giappone dei giorni nostri, tra i quartieri periferici e verdeggianti di una grande città.
Minato (Soya Kurokawa) è un ragazzino intelligente e taciturno, ma che giorno dopo giorno sta diventando sempre più strano, assente. Questa spirale sembra cominciata la notte in cui ha preso misteriosamente fuoco un locale di intrattenimento per adulti, attirando tutti i pompieri e le ambulanze della zona, con la città che splendeva a giorno per via delle fiamme. Poco dopo Minato ha deciso di tagliarsi i capelli da solo con le forbici, senza dire nulla a nessuno e quasi facendosi male.
Un giorno Minato è tornato a casa senza una scarpa. Una notte è uscito di casa all’improvviso per essere poi ritrovato nei pressi di uno spettrale tunnel, abbandonato tra i campi. Giungono voci da scuola sul fatto che Minato abbia compiuto violenze su piccoli animali.
Infine accade una strana colluttazione in classe, durante le ore di lezione, nella quale sembra che il gentile e simpatico professor Hori (Eita Nagayama) sia stato costretto ad alzare le mani con la forza contro il ragazzino.
Saori (Sakura Ando), la madre di Minato, l’unica che si occupa di lui dalla scomparsa del marito, lavorando con i doppi turni, è incredula. Davanti a questi eventi cerca subito di parlare con la scuola, ma da Hori, dalla lunare preside Fushimi (Yuko Tanaka) e dall’intero corpo insegnanti, la madre non riesce a ottenere che plastici inchini di cordoglio, mezze-parole, scuse poco sentite o argomentate, un surreale clima di omertoso e imbarazzato silenzio.
Forse Minato è davvero, come dice sottovoce qualcuno, “un mostro”. Forse il Mostro è però il professor Hori, che si sospetta condurre una seconda vita dissoluta insieme a delle accompagnatrici.
Oppure c’è dietro un alto tipo di mostro: qualcosa che ha a che fare con un compagno di scuola di nome Yori (Hinata Hiiragi).
Yori è minuto, aggraziato e non ha paura a rispondere a tono: motivi sufficienti per essere vittima dei bulli. Vive con un padre davvero mostruoso, alcolizzato e di fatto “bullo” pure lui: percuote ogni giorno il figlio, lo maledice e si rivolge a lui in modi cinici e sprezzanti. Ai suoi occhi, la causa di tutte le sue sventure, compresa la morte della moglie, è unicamente del figlio: è Yori, apparentemente gentile ma malevolo, probabilmente “manipolatore”, l’unico, vero, autentico “mostro”.
Cosa sia successo davvero in quei giorni, come “chi” sia il vero mostro della vicenda, lo scopriremo dissolvendo un “mosaico alla Rashomon”: rivivremo, divisi in capitoli, gli eventi dal punto di vista di più personaggi. Punti di vista che daranno vita a storie dal sapore sempre diverso, unico quanto a tratti contraddittorio, irrisolto.
Vedremo gli adulti intenti in una personale “caccia al mostro” e tormentati da un personale senso di colpa. Immersi in atmosfere plumbee, thriller, quasi horror. Vedremo i giovani invece protagonisti di una storia così diametralmente diversa e intima, da assumere quasi i tratti della favola. Un racconto solare di crescita e scoperta dei sentimenti, genuino quanto forse così “puro” da essere inconfessabile.
Da che parte sta la realtà?
Chi ha “gli occhi giusti” per vederla?
Vincerà in questa vicenda l’anima sognante o quella tragica?
L’innocenza è l’ultima opera a cui ha regalato una colonna sonora il compianto, gigantesco e inarrivabile Ryuichi Sakamoto. Il tema musicale è struggente, carico di colori, complicato, austero quanto gentile. Assomiglia al discorso impacciato di un bambino, che cerca con poche speranze di confrontarsi con adulti troppo distanti, quasi alieni, incapaci o senza voglia di capire il suo punto di vista. Ricorda per certi aspetti il sussurro sbilenco di The Crisis di Morricone e allo stesso modo riesce, con le sue “corde emotive scoperte”, a commuovere per davvero. Ancora una volta Sakamoto, che ha lavorato con generosità a questo progetto come faceva con i film di Miyazaki, finché la forza glielo ha consentito, sa prendere le lacrime dalla ghiandola e non ti molla finché non le spremi tutte.
Su questo tappeto sonoro unico e prezioso, Kore’eda Hirokazu confeziona una storia che in qualche modo amplifica il senso di difficoltà con cui oggi, troppo spesso, un po’ tutte le persone cercano con difficoltà di comunicare tra loro.
Kore’eda Hirokazu ci racconta con i personaggi il “suo” Giappone, dipingendolo come una società così contratta emotivamente da sembrare ormai arida: così chiusa in se stessa e nei suoi “riti relazionali protocollati” da creare dal nulla equivoci e caos. Gli adulti di conseguenza si muovono in base a schemi che li pretendono “neutri”, corporativamente compatti, con la conseguenza che qualcuno “implode”, come il professor Hori.
Tutto può apparire per l’istituzione scolastica “disonorevole” e pertanto deve essere taciuto. Al punto che i singoli, impossibilitati nell’esprimere vicinanza e calore umano a parole, spesso cercano il dialogo attraverso “nuovi linguaggi”, come quello della musica (bellissima la sequenza di dialogo musicale tra Minato e la preside).
In alternativa esistono solo gli scontri, fisici quanto distruttivi, come di contro si creano come muri di distanza sociale le “etichette”: strumenti veloci con cui bollare una persona come strana, matta o “mostro” (Monster è il titolo originale giapponese del film, pertanto) e cercare così per lo meno di “stare alla larga”.
Se gli adulti sono ormai quasi condannati a un’esistenza di depressione, incomprensione, solitudine, etichette e infamie, forse il mondo innocente dei bambini, per Kore’eda Hirokazu si può salvare.
I piccoli possono e devono vedere le cose da una prospettiva diversa, credere nel poter cambiare il loro destino, saper sognare a occhi aperti in una natura, a pochi passi dalla grande metropoli, che con la sua calma e i suoi ritmi può regalare scorci non dissimili ai mondi paralleli di Miyazaki.
Ma la scuola, unita alla impellenza sociale di trasformare presto i bambini in adulti, sembra essere lì già per soffocare tutto, provvedendo prestissimo a omologare ed etichettare, complicare e istituzionalizzare ogni relazione umana.
Forse per il regista la salvezza unica e amara da questo “gioco sporco” è non essere costretti più a crescere. È un messaggio che fa male, ma che porta anche il film a diventare per davvero un potente strumento di riflessione sociale.
L’innocenza è un film meraviglioso sotto ogni punto di vista. Molto bravi gli attori, con un plauso agli interpreti più piccoli. Geniale il mondo in cui la sceneggiatura riesce a cavalcare più generi cinematografici pur conservando una sua precisa, fortissima identità simbolica. Avvolgenti la fotografia e le scenografie di luoghi a metà tra la cruda realtà e il sogno. Incredibile e potente l’ultima colonna sonora di uno dei massimi compositori degli ultimi anni.
L’innocenza è un film da non perdere. È un film che fa riflettere, commuovere, sognare e arrabbiare. Un caleidoscopio unico.
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