mercoledì 1 maggio 2024

Il posto: la nostra recensione del secondo surreale e intimista film del regista de La sedia, Gianluca Vassallo, con protagonista Michele Sarti

Pietro (Michele Sarti) è un regista cinematografico sardo in ascesa dopo la sua opera prima: un film che gli ha portato un grande successo, quanto la paura di affrontare una “opera seconda” che confermi l’entusiasmo di pubblico e critica. 

Ha in mano un soggetto peculiare, su cui crede molto, che sta cercando ancora di elaborare anche se nel frattempo non gli sta dando troppi “feedback positivi”. 

È una specie di film alla Ocean’s 11 ma con un cast di anziani, gag di stampo comico-geriatrico, forse una sottotrama sull’uso del computer per realizzare il furto a una grande banca, per la quale vuole chiedere aiuto al suo poco convinto amico informatico, che lavora in una sartoria. 

Pietro cerca di parlare della sua nuova pellicola con “chiunque ha a tiro”, con entusiasmo e infilandola in ogni tipo di conversazione, per capire se è sulla strada giusta e magari pregustare reazioni positive sul volto di chi lo ascolta. Ma sembra che a nessuno freghi nulla di vederla. 

Così come sembra a tutti gli “intervistati involontari” che il suo primo film non è che fosse la cosa migliore al mondo: sì, bellissimo per fotografia e trama originale ma troppo triste, troppo politico, troppo intellettualmente arrogante…

Pietro, che vaga nella sua cittadina in cerca di conferme, si tormenta.

Le persone e i paesaggi della sua Sardegna, anche il mare, non sembrano ispirarlo o confortarlo verso una nuova epifania creativa. 

Con la sua compagna, ha ormai solo una relazione a distanza telefonica, che forse non è più neanche una relazione o forse è qualcosa di semplicemente infelice. 

Nella sua casa gira un tizio vestito in un elegante smoking bianco, che sembra a tutti gli effetti un'allucinazione. Ricorda a Pietro le telefonate da fare che si è dimenticato di fare, gli parla di come avere successo nella vita, seguendo i consigli di un libro motivazionale che impugna come una reliquia. 

Quando va al bar, Pietro incontra sempre più di frequente, accanto al barista, un altro tizio strano: uno che fa discorsi filosofici/metafisici sullo spazio e sul tempo e forse è un alieno, o comunque ha per moglie la persona che comanda su ogni cosa. 

Tutto sembra caotico e senza senso.

Poi Pietro ascolta una voce femminile al telefono. Prima cerca di liquidarla come chi ti vende un nuovo piano tariffario, poi prova ad ascoltarla e scopre che è un lavoro su commissione: vogliono lui a Milano per un documentario sulla vita di una azienda, la DEGW: una società che realizza spazi per uffici e imprese da 50 anni. Ora Pietro ha “un posto dove andare”, potendosi sottrarre momentaneamente dal vagare di meta in meta. 

Le persone della DEGW sembrano entusiaste e lo possono sommergere di attenzioni, storie e tutti i materiali che saranno necessari per questo lavoro. Pietro accetta ma sa che per poter realizzare la pellicola dovrà prima capirci qualcosa su quella ditta, trovare una buona storia e il suo cuore. Ma Pietro sarà in grado di mettere alle spalle la sua crisi creativa e realizzare un film su commissione “come vuole lui”: ossia un film “personale e d’autore”? 

Forse basterà solo trovare la giusta ispirazione, nel giusto posto. 

Ma esisterà, per Pietro, questo posto giusto?


Torna in sala dopo il folgorante La Sedia il regista sardo Gianluca Vassallo, come ritorna protagonista della scena il suo attore/alter ego Michele Sarti. Il film è nuovamente scritto, diretto, prodotto è in questo caso anche musicato da a Vassallo, che ama curare le sue opere dalla A alla Z. Ritorna in Sardegna, ma poi passa in zona Milano, per una storia ancora una volta ironica e simbolica. Una storia che in qualche modo “espande” la sua opera prima e al contempo sa strutturasti in un modo davvero inconsueto, spiazzante quanto sarcastico.   

La vicenda si collega ancora una volta a filo doppio con la passione del regista per l’architettura e il design. 

Nel primo film era “protagonista sulla scena”, teatralmente, come potente “oggetto Beckettiano”, la “Sedia 1” di  Enzo Mari. Un oggetto realizzato nel 1974, lo stesso anno di nascita di Vassallo, che una trasmissione radiofonica culturale, inserita nella pellicola nell’autoradio del protagonista, descriveva come semplice, essenziale, simbolicamente “costruita con gli stesso materiali poveri della croce di Cristo”. 

Di fatto la Sedia 1, nella trama unico lascito di un padre scomparso al figlio, anche per la sua semplicità realizzativa puntava a essere la “sedia di tutti”, quella che poteva essere presente in tutte le famiglie, anticipando il “do it yourself” dei mobili prefabbricati Ikea. Come oggetto “comune/familiare” e al contempo così “mistico”, la sedia veniva durante la pellicola portata da Sarti lungo luoghi da sogno bucolico della Sardegna, divenendo più volte un giaciglio sul quale il protagonista si adagiava per parlare con gli altri personaggi in scena, di fatto creando così un piccolo “spazio mobile relazionale”. In Il posto Vassallo, espandendo il concetto, riflette sulla possibilità di trovare spazi relazionali anche in ambienti “più grandi”, industriali. Spazi in grado di legare funzionalmente, ma anche “amorevolmente”, un “fattore umano disperso” anche all’interno di una grande azienda dell’Italia anni '70. Come canterebbe Jovanotti, a Vassallo importa “l’elemento umano nella macchina” e riesce a curarlo con una particolare sensibilità e originalità nella costruzione narrativa, proprio attraverso una riflessione sul design.

È così che piano piano nel film si fa largo la storia della DEGW e la filosofia di coniugare lavoro e relazioni, in modo diretto e “democratico”, che viene espressa a livello architettonico attraverso gli ambienti cosiddetti di “open Space”. 

Ancora una volta interviene sulla scena un media che “racconta l’arte”, nello specifico proprio la costruzione degli spazi attraverso l’architettura, nella forma di un surreale televisore in bianco e nero, che trasmette un documentario in inglese, in un bar sardo dei giorni nostri. Un momento criptico quanto Lynchano, che va poi chiarendosi funzionalmente, ma che subito appare autoironico e dissacrante, quanto la poetica dell’autore sardo impone. Un autore che qui alla seconda opera, ascoltando le sue stesse dichiarazioni a margine della produzione, sembra anche voler mettere proprio se stesso sulla scena, senza filtri, raccontando in modo divertito, ma anche “timoroso”, una crisi artistica occorsa al fatidico momento della realizzazione della seconda opera cinematografica. 


Vassallo con tanta autoironia “incasina” la vita personale e artistica del suo regista/protagonista/alter-ego fin dal primo minuto. Gli fa affrontare le grandi aspettative e i grandi dubbi del pubblico e della critica. Mette in luce la sua poca costanza e mille dubbi su “cosa vuole fare da grande”. Lo fa affiancare da allucinazioni (certo più simpatiche di un coniglio gigante alla Harvey/Donnie Darko), lo fa vagare come un detective alla ricerca dell’ispirazione e infine gli fa trovare il suo “posto”, il suo “scopo di narratore”: una storia comune e su commissione su una grande azienda, che però può valere la pena essere raccontata anche perché legata a una storia umana.

Il sempre più bravo Sarti dà voce e corpo a un personaggio complesso ma simpatico, che bene riesce a raccontare il tour de force emozionale, sempre più vorticoso e caotico, a cui progressivamente va incontro. Il suo Pietro sa essere sognatore quanto disilluso, malinconico quanto sarcastico, sfuggente quanto centrato. Il suo è un one man show che convince, dalla sua camminata inarcata, goffa e quasi timida, ai surreali momenti di “confronto onirico”, alla malinconia delle telefonate a distanza con un amore lontano. In alcuni punti, come gli “incontri con il pubblico e critica” del regista, Sarti riesce anche a ricordarci gustosamente il Nanni Moretti degli inizi e i suoi surreali dialoghi meta/cinematografici con il pubblico dei suoi film. 

Il film sa divertire molto, a tratti anche  commuove, al netto di un finale forse un po’ contratto, incentro sul rilanciare o sospendere la narrazione. 

Davvero originale, ma anche coraggiosa (e il coraggio spesso paga), la scelta di DEGW di avvallare la pellicola di Vassallo per raccontare i 50 anni della loro realtà imprenditoriale. Non è certamente un film convenzionale sulla storia personale e imprenditoriale del loro gruppo, anche se sono presenti alcuni dirigenti che simpaticamente hanno interrogato se stessi. È certamente un film che riesce a rappresentare al meglio la filosofia di un design funzionale ma anche “etico”. È interessante che Vassallo non si limiti a esplorare delle aziende recenti, ma vada anche a ricercare i siti delle aziende del passato, ora dismessi e diventati dei campi fioriti in segno di una attuale fase industriale di “ricongiungimento alla natura”. 

Il posto funziona, a volte spiazza, spesso diverte.

Aiuta a riflettere, in modo non banale, sulle implicazioni della “forma di un luogo di lavoro”,  in ragione ai rapporti umani che al suo interno potrebbero svilupparsi.

È una pellicola che conferma il talento di Vassallo come regista unico nel suo genere: personale e fuori dagli schemi, ma anche sensibile e originale narratore di temi difficili come l’arte e il design. 

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