lunedì 6 maggio 2024

Coincidenze d’amore (What happens later): la nostra recensione della commedia romantica scritta, diretta e interpretata da Meg Ryan, con co-protagonista David Duchovny, adattamento della piece teatrale Shooting Star di Steven Dietz


In un cielo notturno e freddo, due fiocchi di neve calano dalle nuvole, sospinti dal vento in  traiettorie autonome che infine li incastrano uno con l’altro. Iniziano una danza avvolgente, quasi un valzer. Vorticano sempre più veloci e infine si respingono. Continuano il loro volo in caduta, verso le luci fioche di un aeroporto americano dei giorni nostri. 

Di nuovo si incrociano, ballano, forse si amano, ma poi si allontanano di nuovo. 

In costante moto centrifugo e centripeto, simili a questi fiocchi, sono anche due passeggeri in attesa. In attesa di prendere un aereo per ricominciare anche loro a volare, mentre ora vagano stanchi e un po’ annoiati tra i sedili della sala d’attesa. 

Più volte intimi, ma al contempo destinati a tornare ciclicamente distanti, Bill (David Duchovny) e Willa (Meg Ryan), si trovano di nuovo insieme per caso, dopo dieci anni, dopo la fine “confusa” della loro storia d’amore e di tante altre cose. 

Lui è un uomo sulla sessantina, ancora atletico e impeccabile in completo scuro, brizzolato e inamidato, trolley di classe. La voce calda, compassata e calma, mentre risponde pur meccanicamente al telefono. Vaga tra le poltroncine, alla costante ricerca di una presa di corrente per il caricabatterie del cellulare, determinato a collegarsi a costo di dover spegnere l’insegna elettronica di una pubblicità dell’aeroporto. Nelle cuffie e tra le mani, dei manuali su come sviluppare una mentalità vincente.

Lei per candore sembra avere una età indefinita, tra la ragazzina e la signora più matura, al contempo atletica ma stanca. Si siede ovunque, a gambe incrociate, e canticchia qualcosa per passare il tempo. Veste un lungo abito bianco abbinato a giacca in pelle nera e anfibi, come Madonna negli anni ‘80. Capelli lunghi biondi e ricci che esplodono da tutte le parti quasi a coprire tutto il volto, gli occhi azzurri quanto le rughe. Aria spaesata, un curioso bagaglio a mano costituito da un “bastone della pioggia” per purificare dalla malasorte. 

I due si trovano scrutando tra la folla, si riconoscono ma non si avvicinano. Si sono già “rivisti” in passato, proprio in quel luogo di partenze e arrivi, ma hanno fatto finta di nulla e lo possono fare ancora! Non è obbligatorio! Poi però il destino li pone sadicamente uno davanti all’altro e non c’è più fuga che tiene, devono parlarsi. 

Bill e Willa, per esteso William Davis e Willhelmina Davis: nessun rapporto di parentela pregresso, sono un generico “W.Davis” appuntato su una simile borsa da viaggio che una volta li avrà accomunati in un posto come quell’aeroporto. Forse per quella annotazione comune è avvenuto il loro primo incontro, in quel di Madison, venti o venticinque anni prima. 

Poi erano successe tante cose, tra un paio di concerti dei Radiohead e una convivenza all’inizio felice, che hanno segnato ancora più le loro differenze. Lui troppo cerebrale, amante della programmazione e timoroso delle sorprese. Timido quasi a essere introverso, si è sempre sentito nelle relazioni come una solida e fiera zavorra. Lei troppo estroversa, fanatica della new age e della spiritualità, della libertà a tutti i costi e in tutti i campi. Disordinata e smemorata, si è sempre sentita come “un palloncino sospeso”.

Un palloncino e una zavorra che lo tiene a terra, i presupposti della coppia perfetta “equilibrata”. Forse. Forse una volta. Giusto il tempo di scambiarsi uno sguardo e due battute, poi ripartire per le rispettive vite, ma ecco che il fato ci mette lo zampino. Di nuovo. I due rispettivi voli vengono cancellati, per lo stesso motivo anche se per mete diverse, lasciandoli vittime della stessa tormenta meteorologica ed emotiva.

La neve ha coperto tutto, gli alberghi in zona sono pieni degli altri passeggeri che più velocemente si sono impossessati di una camera. Bill e Willa hanno cincischiato troppo sperando in una ripartenza impossibile o due, ora hanno tutta la notte per aggirarsi da soli in un aeroporto vuoto, tra un bar vuoto o duty free vuoto, cercando di convivere civilmente. 

Dall’alto, “a confortarti e illuderli”, la voce quasi ultraterrena degli annunci: ogni tanto metallica, qualche volta così intima che pare dialogare proprio con loro. In filo diffusione dagli altoparlanti tanta musica pop del passato, che a volte suona fin troppo allegra o troppo forte per gli umori dei nostri eroi: più prossimi a tirare fuori gli scheletri dagli armadi che godersi insieme una birra o una carezza. Forse. 

Come passeranno la notte Bill e Willa? 

Torneranno di nuovo a volare e magari a incontrarsi sulla stessa strada?


A otto anni da Ithaca - l’attesa di un ritorno, termina l’attesa per il ritorno alla regia Meg Ryan, con questo piccolo film girato a Bentonville, nello stato del Nebraska nell’autunno del 2022, insieme a David Duchovny. Un film a due, un continuo contrappunto di battute e tenerezze, che ha il sapore di Harry ti presento Sally come di Prima dell’alba giusto un po’ più pensoso, a volte anche troppo. 

L’aeroporto incarna al meglio una ipotetica “stanza dello spirito del tempo” dove tutto è immobile, sospeso e “provvisiorio” come in Terminal di Spielberg, prima che i personaggi possano tornare Tra le nuvole, come George Clooney, a distaccarsi salvificamente dai dolori della realtà.  

Siamo in un aeroporto del Nebraska, ma potrebbe essere benissimo il palco di un teatro off Broadway, tanto intime e distillate solo le interazioni tra i due attori rispetto a uno scenario “sconfinato ma vuoto”, che li ingloba senza correre mai il rischio emotivo e fisico di “schiacciarli uno contro l’altro”. Uno scenario che viene reso dalla fotografia ancora più etereo e avvolto di bianco del normale, quasi un'infinita e fredda pista di pattinaggio. 

A “riscaldare la scena” servirebbe il calore che è ancora in grado di esprimere la coppia dei protagonisti, ma conviene forse tenere il cappotto per tutta la visione, perché la Ryan non sembra intenzionata a percorrere le strade della commedia romantica per cui è diventata famosa.

Non c’è qui quell’intesa adolescenziale/cinico/giocosa come con Billy Crystal in Harry ti presento Sally. Manca quella ricerca di “gentili attenzioni impossibili” tra estranei, come con Tom Hanks in C’è posta per te e Insonnia d’Amore. Siamo lontani da quella amabile comunione spirituale ultra kitch scattata con Nicolas Cage in City of Angels. Non c’è al fianco dell’eroina moderna il romantico viaggiatore temporale Hugh Jackman di Kaye e Leopold, a farle riscoprire la bellezza del romanticismo ottocentesco. 

C’è Duchovny, impeccabile ed elegante come il suo agente Fox Murder, ma con la Ryan manca quasi programmaticamente di intesa. Quasi lo avremmo preferito affiancare Gillian Anderson, in una semi-rimpatriata di X-Files dove la tormenta di neve che li blocca all’aeroporto è dovuta a qualche complotto dietro cui è nascosto un uomo che fuma.

Meg Ryan è distante, altrove.

Il suo personaggio sembra inseguire ancora quel look e quel mood da eterna fidanzatina d’America, ripete a piccoli tratti lo schema di una seduzione giocosa e buffa, ma sta molto malinconicamente “sulle sue”. Non capisce più cos’è una relazione o il mondo che la circonda. Non riesce forse più a capire neanche se stessa. 


È un personaggio perseguitato da un enorme senso di vuoto, problemi di memoria, cocci di una vita vissuta male. È un personaggio che forse come la stessa Ryan è andata in cerca di una nuova identità, intraprendendo un percorso a scossoni come quello che l’attrice aveva già intrapreso da prima, nei primi del 2000, quando aveva scelto quel ruolo super sexy in In the cut di Jane Campion e poi quel ruolo da manager scafata di Boxe per Against the rope. Ruoli più disperati che romantici che forse non è riuscita ad abbracciare fino in fondo. 

Così ora Meg Ryan, vestendo il personaggio di una piece teatrale da spettacolo off che sembra cucirsi addosso con forza, si trova ad affrontare le crepe di una immagine da fidanzatina d’America ormai vintage, fuori tempo: una Sally che non ha più incontrato Harry, aspettandolo per trent’anni in aeroporto. Una donna senza un Tom Hanks che illumini per lei tutto un palazzo a Seattle, una eroina moderna senza che un angelo disceso dal cielo con il volto di Nicolas Cage o uno scienziato vittoriano con il volto di Hugh Jackman la salvino da un destino avverso. 

Meg, nel film “Willa”, è sola e spaesata. 

In cerca di affetto, poca fiducia sulla sua memoria (forse malata) e intenta a manovrare un bastone sciamanico portafortuna, ma soprattutto sola, anche se circondata da molte persone. Duchovny è gentile e quasi paterno, ma la regista, sceneggiatrice, interprete è come se ponesse costantemente un pesante muro emotivo sulla loro relazione, una “impossibilità fattuale” di avvicinarsi, al di là dei piccoli giochi con le poltroncine e i carrelli porta bagagli. Piccoli momenti di quiete a quel moto centrifugo/centripeto delle relazioni che infine appare più duro, concreto e vero del classico finale “e vissero felici e contenti”. Di conseguenza il confronto tra i personaggi sulla scena diventa quasi una seduta di analisi, ermeneutica più che emotiva. Quasi un'autopsia più che una ballata malinconica, dove ogni tentativo di empatia suona solo nostalgicamente come una eco triste. 

Il testo di Steven Dietz aveva potenzialità brillanti, a partire da quella voce fuori campo che annuncia la cancellazione dei voli per poi diventare quasi un confidente emotivo (come la voce del Signore in Aggiungi un posto a tavola), ma la Ryan sceglie di porre, anche coraggiosamente, un grosso tappo a quello sviluppo, depotenziando ogni siparietto leggero e prediligendo inquadrare la solitudine della neve che cade, il buio notturno dell’aeroporto quando tolgono le luci, il vuoto di corridoi enormi. 

È un film sincero e doloroso, onestamente sbiadito nei colori.

Con una musica che non si sintonizza con i sentimenti, con una fotografia quasi glaciale per schematicità e “plasticità” dei luoghi, con personaggi che seppur invogliati, interiormente, all’idea di iniziare un lungo valtzer, sembra che pregustino la fine del ballo fin dall’inizio.

Tutto questo dona un sapore peculiare a Coincidenze d’amore, che forse chi va in sala aspettando una commedia romantica come le classiche della Ryan potrebbe non voler cogliere al volo, magari rimanendo deluso da tanto potenziale “inespresso”. 

È una Ryan a nudo, con rughe e dolori, davvero inedita. 

Forse è l’inizio di una nuova fase della sua carriera, gliela auguriamo di cuore. Ma la spensieratezza che da sempre accompagnava i suoi ruoli un po’ già ci manca.

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