In Bluray e DVD
Lo sport è da
sempre lotta tra se stessi e altri uomini. Più la lotta incalza e
si mettono in luce due o più campioni a contendersi un titolo, più
il pubblico esulta, rivive geneticamente l'arena dei gladiatori
aspettando la sconfitta-morte (figurata) di uno dei contendenti, ama o
odia. Così il pubblico diventa anch'esso una variabile, amico o
avversario sempre pronto a far sentire la sua voce. Giudica anche la
vita privata degli atleti, accusa e si indigna per un calo di
rendimento, fischia il campione che un momento prima idolatra. Perché non si ragiona più in termini terreni, si parla di “miti” e il
pubblico si sente autorizzato a parlarne non riferendosi a uomini, ma
a medaglie vinte o perse.
Due sportivi, due
piloti. Hunt e Lauda. Il primo un nome che molti non appassionati ai
giorni nostri fanno fatica a collocare, il secondo uno dei massimi
uomini giunti a pilotare una Ferrari. Bandiere di uno sport, la
formula 1, che non a caso è soprannominato il circo dei motori,
spettacolo che fa tappa in tutto il mondo e da sempre affascina e
vende. Vuoi per la doppia competizione tra uomini e motori, due mondi
che non sempre riescono insieme a comunicare, vuoi per la sensazione
di pericolo costante che fa di ogni gara una possibile sfida contro
la morte, che un tempo giungeva con sinistra costanza e che i più
cinici aspettavano di vedere, vuoi per il glamour fornito dall'“altro” circo, quello delle modelle-ombrelline, delle star e degli
sponsor che sempre presenziano e sfilano tra una gara e l'altra (e
che in Italia, perché sono stronzi o perché sono miopi non ci fanno
mai vedere... ma inquadrateci le ombrelline, chissenefrega
dell'inviato trombone ai box che spara banalità!! Fine sfogo...).
Oggi i tempi sono cambiati, c'è molta più sicurezza nelle gare
automobilistiche e motociclistiche. Oggi c'è anche molta più noia
nel seguire integralmente certe gare (colpa dei cronisti stranoiosi
rai per lo più e della endemica mancanza di inquadrature sulle
ombrelline... questo l'ho già detto ma va ribadito...), ma ripeto,
vediamo questo dato anche in positivo. Il rischio rimane e anche di
recente gli appassionati delle due e quattro ruote piangono vite
spezzate di giovani piloti. Ma tutto continua, la voglia di velocità,
bene interpretata anche dal titolo di questo film, che inneggia al
vivere la vita “di fretta”, è una pulsione irrefrenabile tanto
per i piloti quanto per gli spettatori.
La sfida tra Hunt
e Lauda è quasi uno spartito codificato sull'agonismo motoristico,
permette agli appassionati di rivedere attraverso queste vicende
migliaia di altre sfide intraprese da persone diverse quanto
incredibilmente simili. Perché il mondo delle corse è spesso anche
drammaturgia.
Hunt era percepito
come guascone, eccessivo, spericolato, donnaiolo, l'anima della
festa. Lauda dava l'impressione del tipo schivo, quasi antipatico,
preciso, un po' misogino. Non che i due uomini fossero solo questo, ma
il pubblico attraverso i media del tempo li vedeva così e la
pellicola sposa l'impressione attuando la classica tecnica di sintesi
drammaturgica. Così attraverso Hunt e Lauda vengono incarnate le
due “maschere” tipiche del pilota. Da un lato lo spericolato, in
grado di imprese impossibili in quanto benedetto dall'incoscienza e
spinto dal cuore. Dall'altro il calcolatore, l'uomo che agisce e
migliora basandosi sulla conoscenza tecnica delle specifiche del
mezzo, che riconosce e memorizza tutte le curve, l'uomo di cervello.
Lo spericolato in genere è quello che il pubblico più ama, rapito
dall'imprevedibilità che questo scatena. Il calcolatore in genere è
il rompipalle che, se benedetto dall'auto più potente, è in grado
di uccidere la competizione già al secondo giro, distaccando di
chilometri ogni concorrente. Ma la vita è uguale per entrambi,
ugualmente pronta a elargire gioie e dolori che vengono sempre
amplificati sotto la lente di ingrandimento della celebrità. E se la
vita è imprevedibile, incredibilmente quello che è il proprio
rivale è anche l'uomo che più assomiglia, che può essere l'amico
più sincero e disinteressato.
Mettere in scena
questo mondo non è cosa facile. Perché ci sono i motori da un lato,
da rendere credibili e scattanti con gli effetti speciali, e i
sentimenti dall'altro, a cura magari di bravi attori che possano dare
il giusto peso ai primi. Il rischio “telenovelas” è altissimo e
molte pellicole che hanno affrontato il tema “donne e motori” ci
sono cadute. Laddove la via più comoda è mettere al centro i
sentimenti e i dialoghi e mettere del tutto da parte le meccaniche di
gara, risparmiare sugli effetti e relegare le competizioni alla
sporadica visione della scaletta delle tappe di una stagione, un paio
di ricostruzioni obbligatorie e poco più. Specularmente il rischio
“documentario” è ugualmente alto. Laddove venga messa in soffitta
tutta la drammaturgia per inquadrare solo curve (di fatto una
componente drammatica c'è anche in Fast'n'Furious). Equilibrio è la
parola chiave, unita in questo caso a una robusta e realistica
cornice storica. A fare film belli sulle corse e piloti ci hanno
provato in molti, ci sono riusciti in pochi. Io ricordo ancora con
affetto Joe Tanto (Driven.cit.), ma mi rendo benissimo conto dei mille
limiti della pellicola in cui è protagonista. Per comprendere questo
mondo non basta passione, occorre un innato occhio critico-storico.
Per questo ho applaudito da subito il fatto che a dirigere una
pellicola sulla formula 1 fosse Ron Howard. Ho ancora negli occhi il
suo Apollo 13. Mi ricordo ancora la mia totale ignoranza sui fatti
dell'Apollo 13 e una mia amata compagna di classe che mi ha
“spoilerato” il finale (che credo fosse noto a tutti) rovinandomi la
pellicola.
Pellicola bellissima, ben recitata e storicamente
ricostruita, a perfetta sintesi dell'avventura spaziale americana.
Se la strada di Howard è lì descrivere “un mondo da un episodio”,
il regista sceglie la stessa tecnica per Rush. Per offrire una summa
delle storiche rivalità tra piloti si focalizza sulla “rivalità
di un anno” tra Hunt e Lauda, potendo così fotografare al meglio
uno specifico momento storico, la seconda metà degli anni '70 e nello
specifico la stagione automobilistica del '76, riproducendo determinati
avvenimenti e determinate gare in un credibile, solido inquadramento.
Hunt vs Lauda. Simpatico contro antipatico, bello contro bruttino,
mondano contro solitario, biondo contro moro. Hunt e Lauda sono in
tutto e per tutto speculari (l'ho già usato questo termine e credo
lo farò ancora) al punto da essere archetipi. Una scelta perfetta già
sulla carta.
La scelta di
questi nomi specifici permette di parlare molto anche del mondo che
si trova al di là dell'abitacolo da gara perché raccontare la vita
di questi piloti lo permette. Così vediamo come lo sport come
business non possa vivere senza gli sponsor a veicolarlo e
condizionarlo. Vediamo come le fan e divette si buttino sui campioni
tanto per la luce mitica che emanano, tanto per l'incoscienza che li
spinge a giocare costantemente con la morte, quanto per la copertina
e la fama riflessa che comporta uscire con una star. Vediamo però
anche il contrario, come un pilota perdente si ricavi un margine di
fama proprio in quanto esce con una star del cinema. Assistiamo alle
limitazioni che la vita del pilota comporta, come impossibilità di
vivere qualcosa di diverso dalle gare per via di un lavoro
totalizzante sui motori a cui seguono spesso crisi in ambito
familiare. Abbiamo l'occasione di cogliere le motivazioni di chi
sceglie di vivere a fianco di un pilota che rischia la vita: tanta
fama, ma anche notti insonni.
C'è anche l'occasione di riflettere sui
pericoli connaturati con questo sport e spesso sottovalutati, laddove
anche con la prospettiva del “senno di poi” diamo un peso diverso
a quelli che per i fan sembrano solo capricci, come la volontà dei
piloti di sospendere una gara per maltempo, osteggiata dai colleghi
in quanto significa principalmente, al di là di ogni
possibile-prevedibile rischio, subire una perdita economica. Il
cinismo della stampa. L'amicizia virile tra piloti. I fan italiani.
Perchè dico i fan italiani? Perché è sempre la solita iterazione
su pellicola delle buffe-assurde amenità che gli stranieri
attribuiscono a noi italiani. Roba da prendere a schiaffi le guide
turistiche, che illustrano ai vacanzieri un mondo che sarebbe il
nostro, ma che non esiste nella realtà. Roba da sorriderci sopra per
non piangere, laddove in quel di Trento nella metà degli anni '70
l'italiano medio è rappresentato da una coppia di baffuti, ruspanti
(e simpaticissimi) siculi a bordo di una Duna (o simile) tenuta
insieme dall'adesivo da pacchi. Probabilmente nel bagagliaio era
presente il mandolino di ordinanza, perso in un taglio di pellicola.
Tutti temi, che
sfilano nel contesto di scenografie e costumi sgargianti seventy,
dettagliati e accurati, catturati da una fotografia luminosa ma non
invadente. A questo si unisce un lavoro magistrale per le
ricostruzioni delle corse automobilistiche. Sfrecciano su circuiti
storici copie fedeli delle macchine dell'epoca in mano a piloti
professionisti e gli effetti speciali, il ritmo del montaggio e le
“coreografie di gara” offrono un autentico spettacolo visivo.
Pur nella scelta
di “sintesi” il film, già da quanto sopra esposto, appare quanto
mai complesso e “grosso”. Riprodurre tutte le gare e gli
avvenimenti del '76 di Hunt e Lauda è impossibile e improponibile a
meno di non farci una miniserie di 13 puntate. Ugualmente affrontare
tutti i temi esposti necessita di dedicare un congruo tempo dagli
stessi. Howard fa i miracoli e si destreggia con grande talento in
tutti i campi supportato da un magistrale cast di attori. Magistrale
perchè pesca dallo star system gli interpreti più adatti a
incarnare al meglio i personaggi. Chris “Thor” Hemsworth
interpreta Hunt. È un attore specializzato in ruoli da "figaccione" da
tenere d'occhio. Quasi un caratterista, non profondo quanto Brad
Pitt, ma con la faccia e il mood giusto per essere ottimo per un
numero considerevole di ruoli: dall'eroe all'amante, dallo sportivo
alla vittima sacrificale in un film horror. Fisico statuario, occhi
azzurri e sorriso che fa partire l'ormone alle donne, Hemsworth non è
privo di autoironia e in questo travalica i limiti del semplice
“belloccio”, risultando anzi piuttosto simpatico. In Rush mette
in luce anche (da me) inaspettate doti drammatiche che me lo fanno
vedere ancora puù simpatico e si vuole inevitabilmente bene al suo
personaggio. Peraltro è decisamente più affascinante dell'Hunt
originale, un omone muscolare ma dal nasone pronunciato e
dall'improbabile caschetto biondo (ma che all'epoca usava). Daniel
Bruhl interpreta Lauda. L'attore è per lo più noto per Goodbye
Lenin e una filmografia prettamente europea, ma ha fatto capolino
anche in Bourne Ultimatum e Inglorious Basterds di Tarantino, dove ha
vestito i panni dello sfortunato in amore soldato-eroe-nazionale
Fredrick Zollen, un ruolo da antologia. Bruhl è versatile e i
personaggi che interpreta sono diversissimi l'uno dall'altro,
tuttavia il suo Lauda è deciso, convincente, ossessionato e
dolorante, una figura quasi Shakespeariana. Ma a mio avviso eccede in
cupezza e antipatia, discostandosi un po' dall'originale. Nel suo caso
il trucco lo rende perfino più bruttino di Lauda, ma voglio pensare
che sia un effetto ricercato nell'economia della storia. Olivia Wilde
è una Suzy Miller, starlette compagna di Hunt, più complessa e
raffinata di come a primo impatto appare e nelle sue brevi scene
riesce a dominare la scena. Alexandra Maria Lara, che interpreta
Marlene Lauda, è altrettanto brava e trasmette vividamente nello
spettatore le gioie e angosce del suo personaggio. Menzione anche
per Pierfrancesco Favino nel ruolo di un Clay Regazzoni compagnone,
profondamente umano e altruista. È un peccato che il suo ruolo sia
così piccolo, ci sarebbe piaciuto vederlo di più.
Rush è quindi una
bella pellicola che regala un ottimo intrattenimento e lascia
qualcosa nello spettatore. Non è esente da difetti, primo fra tutti
una certa compressione del narrato che lascia con la voglia di vedere
di più, conoscere maggiormente le vicende. Fosse stata una miniserie
di 13 episodi sarebbe stata perfetta, ma non possiamo certo
lamentarci. Howard, allontanate da sé le trasposizioni dei libri di
Dan Brown sembra rinato e pronto a nuove sfide. E speriamo che il suo
progetto a lungo cullato dell'adattamento della saga della Torre Nera
di King prenda effettivamente forma.
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