Nel cuore della notte un camion con rimorchio gira più volte, in tondo, lungo il piazzale di una cava di sabbia.
Un uomo dallo sguardo severo (Alessandro Gassman) osserva questa strana manovra costante, composto e immobile, fumando una sigaretta.
Nelle vicinanze c’è una discoteca dove si muovono al ritmo di musica techno giovani avvolti in una luce verde. Un ragazzo biondo (Francesco Gheghi) si allontana dalla massa per espletare un bisogno fisiologico, contro la flora del giardino, quando due uomini lo placcano, lo stendono con un analgesico, lo ficcano in un bagagliaio.
Gli occhi del biondo si aprono confusi in quella cava, con l’uomo dallo sguardo severo che aprendo il bagagliaio sentenzia: “A volte capita di incontrare le persone sbagliate. Stavolta tocca a te”.
Il tir si ferma.
Il biondo rintronato e trasportato come un pacco dentro al rimorchio. Il portellone si chiude sferragliando, rimane il buio, il veicolo ricomincia a girare, in tondo. Una voce giovane, umana, forse simile alla sua, certifica al ragazzo che nel buio non è solo. Poi iniziano i pugni.
Al di fuori l’uomo torna a fumare, in attesa del tempo necessario perché il camion torni a fermarsi dopo uno o più giri nello stesso punto, come se il camion sul piazzale disegnasse lo scorre del tempo come la lancetta su un orologio.
Il viaggio finisce, il portellone si apre. Il biondo è in piedi, ricoperto di sangue. Tiene con i gomiti la guardia alta, precisa e plastica come un pugile. Chi era con lui è a terra, anche se in un attimo anche il biondo sviene.
Il risveglio è nella stiva metallica e piena di tubi di una nave mercantile, ancorata al molo, con un medico che stima a due settimane il tempo di recupero. Per il biondo una stanza/prigione con sbarre ai vetri, un giaciglio consunto, un orinatoio e una porta metallica chiusa. Extra non trattabili. Da uno spioncino l’uomo che fumava lo osserva severo: allunga una ciotola di riso da un'apertura bassa simile a quella da cui possono passare i cani, comanda di mangiare. Il ragazzo non vuole, non capisce, suggerisce accordi disperati. I suoi parenti sono ricchi e potrebbero pagare, qualcuno avrà avvertito le autorità e poi, soprattutto, “perché lui?”. Risposte poche e confuse invitano a rassegnarsi: lui è già come morto, “ha già ucciso”, è diventato ormai “proprietà di qualcuno”.
Il ragazzo non ha mai più alcuna fame, viene “imboccato con la forza”, più per preservarlo come capitale che per una qualche forma di umanità.
Di nuovo controvoglia in piedi, finisce in un’altra ala della nave: una palestra gremita di ragazzi e uomini dall’aria persa e incattivita. L’uomo che fumava si fa chiamare “Minuto” e non ha altri minuti da perdere. Butta il biondo al sacco da boxe, gli butta contro pure un ragazzo tatuato di nome “Puma” come sparring. L’allenamento prevede pugni, calci, immersioni “forzate” dentro una tinozza d’acqua per sviluppare resistenza. Tra un incontro e l’altro il tempo passa in fretta e il biondo torna sul camion, diretto verso combattimenti clandestini sempre più violenti ed estremi, nel cuore di nuovi alberghi in costruzione o in ville di ricchi sadici. Incontri in cui è tassativo: “solo uno può uscire vivo”. Le cicatrici post match incoronano il biondo come grande incassatore, gli scommettitori iniziano a richiederlo. Puma, uno strano amico ormai, spiega che per ora loro due sono “cani minori”, ma che potrebbero essere promossi presto a “cani maggiori”, arrivando a guadagnare i soldi necessari per liberarsi dai debiti. Puma è in quella situazione per via di debiti chiarissimi, ma il biondo in fondo non ha ancora capito perché si trovi lì. Perché Minuto ha deciso di tenerlo separato dal resto del gruppo? Che forse il legame tra il biondo e Minuto sia simile al vincolo che lega Minuto al vecchio boss della criminalità, con un occhio solo come Odino, che organizza da sempre tutti i combattimenti clandestini (Renato Carpentieri)?
Le risposte presto arriveranno e potrebbero essere particolarmente amare, ma insieme al tempo che passa il ragazzo sta diventando ormai un cane di razza maggiore: un carnefice che fiuta il sangue delle sue prede, forse già incapace di tornare al mondo reale. Ma una donna del passato e una del “presente” riusciranno forse a cambiare il corso degli eventi.
Dal dinamico e disperato romanzo omonimo. vincitore del premio Scerbanenco nel 2008, scritto dalla celebre autrice di Dylan Dog Paola Barbato, il regista di Non Odiare ricava le vibrazioni giuste per il secondo capitolo della sua personale e (sempre più) possibile “trilogia dell’odio”, che non a caso suona e risuona come la celebre trilogia di Park Chan-Wook.
Mani Nude, oltre a celebrare al meglio l’ottimo testo della Barbato, “omaggia” l’autore di Old Boy (l’Old Boy coreano) con una trama parimenti criptica quanto crudele, ma che in una sinfonia costante, di ossa e vite “rotte a favore di pubblico”, risuona anche della narrativa esistenziale, psicanalitica e conflittuale (dis)umanità del personale Fight Club di David Fincher.
Non accontentandosi di questo, Mancini sa pescare con intelligenza e affetto temi e luoghi di una celebre elegia alla Van Damme come Lionheart- Scommessa Vincente. Sa creare gustosi collegamenti marziali e visivi con l’action alla Besson più “cinico” (termine filosoficamente con casuale), quello di Danny The Dog con Jet Li, per poi fondere sapientemente il tutto insieme con “altri tre Dog Man”: quello di Matteo Garrone, quello di Stivaletti (anche se questo si chiamava, più in romanesco, Rabbia Furiosa - Er Canaro) e quello più recente e bellissimo di Besson.
In fondo sono tutte storie di “Uomini e cani”, non distanti idealmente neanche dalla recente e apprezzabilissima Crime Story dell’omonimo romanzo di Omar Di Monopoli. Uomini trasformati in cani da combattimento un po’ per gioco e un po’ per vendetta, tanto per soldi e forse pure per amore (disilluso) verso un “cinismo” alla Diogene. Materiale favoloso come base per action movie dove la bestialità della lotta a mani nude viene nobilitata dalle arti marziali e dove Mancini ha lavorato molto bene sulle stesse (ottimi i combattimenti): rendendo eloquente e diretto l’adagio latino “homo homini lupus”.
In estrema sintesi, Mani Nude è un film di botte cinematografiche che funzionano in quanto feroci e sarcastiche, a tratti “politiche”, dure e cattive ma ma mai superficiali. Un film dove le ecchimosi fanno male anche nel profondo, nell’emotività, grazie all’ottima prova di attori capaci come Francesco Gheghi e Alessandro Gassman.
Gassman lavora tutto in sottrazione: incombe come presenza funerea sulla scena e quando parla lesina poche e letali battute che lo rendono simile agli anti-eroi di Clint Eastwood. Gheghi ha lo sguardo confuso giusto ma sa adottare una postura da vero guerriero: riesce benissimo a metterci nei panni di un ragazzo dall’animo frammentato e fratturato. Il Biondo e Minuto: due anti-eroi alla corte e nelle arene di qualcosa di molto simile a un dio “crudele e guerriero” come Odino, impersonato da un Renato Carpentieri perfetto, elegante, giustamente teatrale. Terribile quanto “inesorabile” in un mondo che gestisce con malinconica disillusione.
Sono tre attori straordinari che è un vero piacere vedere interagire tra loro, con dinamiche a volte da fratelli, in alcuni casi di padre e figlio, spesso come nemici mortali
Mancini tiene bene il ritmo per tutta la prima parte, quella più dura e carica di contusioni, una “overdose di botte”, per poi trasformare il tutto in un secondo tempo carico di fantasmi del passato e introspezione. Una seconda parte che suona come un altro film, ma che come nel caro vecchio Old Boy diventa “parte integrante”, irrinunciabile della messa in scena. Il gioco è ardito, forse troppo veloce, ma riesce. Anche perché alla fine esplora in un modo diverso lo stesso tipo di “cattiveria” di cui la pellicola è imbevuta.
Non è un film adatto a tutti. La violenza visiva è molta, anche se mai davvero gratuita.
Non è un film consolatorio.
L’ultimo lavoro di Mancini è una rasoiata sincera che dimostra come realizzare degli ottimi action in Italia è ancora possibile, e forse pure “necessario” per risollevare un po’ un cinema diventato troppo asfittico e autoreferenziale.
Una bella ventata d’aria fresca, che arriva leggera come un pugno sui denti.
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