martedì 8 aprile 2025

Cure: la nostra recensione dell’horror-psicologico del 1997, scritto e diretto dal regista di culto Kiyoshi Kurosawa, che oggi arriva al cinema in versione restaurata in italiano grazie a Double Line

 


Sinossi: ci troviamo in una Tokyo notturna e disperata di fine anni ‘90. Con la “Bubble Economy” ormai scoppiata, le persone ormai si trascinano senza sogni e tanta rabbia tra periferie suburbane fatiscenti, reparti di psichiatria e luoghi del crimine, bar e appartamenti domestici simili a piccoli inferni. 

Il dipartimento di polizia metropolitana è alle prese con una serie di omicidi di cui fatica a parlare ancora con la stampa. I corpi delle vittime appaiono profondamente mutilati, quasi distrutti dalla foga, ma tutti accomunanti da due profondi tagli verticali. Tagli che partono dai lati del collo e arrivano sul lato opposto alle estremità del petto, andando a intersecarsi come una “x”, all’altezza della carotide.

I colpevoli hanno quasi tutti cercato di togliersi la vita dopo aver commesso il crimine, al punto che la scoperta dei corpi mutilati spesso è avvenuta solo una volta segnalato alle autorità in zona un suicidio tentato o riuscito.   

Non si riscontrano legame tra i colpevoli, salvo il fatto che dichiarano tutti di non ricordarsi nulla degli eventi che li hanno portati a commettere il gesto estremo. 

Descrivono il momento dell’esecuzione, di cui in genere sono vittime loro coniugi o colleghi, come un “atto del tutto naturale”, spontaneo. Quasi una “riappacificazione”, anche se tutti sono convinti di non aver mai nutrito dei risentimenti reali verso chi hanno ucciso.

Il solitario e umorale detective Takabe (Koji Yakusho) e il misurato medico forense Sakuma (Tsuyoshi Ujiki) seguono una matassa sempre più ingarbugliata e surreale, fino a trovasi presto a dover cercare una misteriosa figura di nome Mamiya (Masato Hagiwara). 

Appare come un ragazzo disordinato e confuso, spesso comparso dal nulla su una spiaggia isolata o sul tetto di un vecchio edificio. Sembra del tutto privo di memoria a breve tempo ma ha modi gentili, quasi timidi, è in grado di entrare in forte empatia con chiunque si trovi ad avere a che fare con lui.

Può apparire fragile e smunto, ma per lo più sinistro: una creatura simile a un fantasma che predilige nascondersi in stanze del tutto prive di luce, parlando sottovoce, emotivamente si definisce “un guscio vuoto” ma sostiene di aver trovato un modo infallibile per “aiutare le persone”. Una tecnica che permette a chiunque di liberarsi delle proprie paure inconsce. Indagare su Mamiya spingerà inevitabilmente i due detective a fare i conti anche con la sua “cura”. 


L’opera di un regista in grado di leggere la Storia in un modo spesso profetico

Nato a Kobe nel 1955, Kiyosuke Kurosawa girava piccoli film fin dai tempi del liceo, iniziando a utilizzare il formato super 8 ai tempi in cui studiava alla Rikkyo University di Tokyo. Film per lo più “di genere”, dall’Erotico (in Giappone i Pink Movie) agli Yakuza Movie, ma sempre dotati di una grande originalità e “voglia di introspezione”. 

Nel 1989 realizzava il divertente horror slasher Sweet Home, diventato nello stesso anno un videogame di Capcom per il Nintendo 8bit firmato da Tokuro Fujiwara. Proprio rielaborando moltissime idee di quel gioco, unite alle atmosfere del film di Kurosawa e alle capacità tecniche nel nuovo sistema Playstation, Fujiwara nel 1996 realizzò il primo episodio della saga di Resident Evil (in originale Biohazard), capostipite del nuovo genere “survival horror” è uno dei fenomeni mass-mediali più famosi di sempre.

Tornando invece al 1997, a due anni di distanza dall’horror psicologico Seven, di David Fincher, Fujiwara realizzava giocando quasi nello stesso territorio visivo e psicologico l’altrettanto cupo e disperato Curse. Tuttavia la materia in mano a Kurosawa assumeva contorni del tutto nuovi, organali e mistici, forse anche in ragione delle atmosfere nipponiche. Il ritmo ruvido di una indagine hard boiled si fondeva così ad situazioni più “rarefatte”, silenziose e dilatate, con scene “sospese”, a tratti immobili, quasi “oniriche”. Una costruzione visiva ed emotiva che accentuava il profondo senso senso di malinconia e nichilismo alla base della storia. Molti dei tratti che sarebbero andati a confluire di lì a poco nella “grammatica” del cosiddetto cinema  “J-horror”.

Contorni che si sono fatti a un certo quasi inquietanti, quando il 20 marzo 1995, nel mezzo della produzione del film, avvenne a Tokyo il tragico attentato alla metropolitana, che portò alla morte di 13 persone e moltissimi feriti tramite l’utilizzo del gas Sarin. 

Kurosawa stava realizzando un film che parlava di qualcosa di sinistro quanti molto simile a quanto era da poco successo nella realtà. L’attentato era stato rivendicato da una setta e il regista Kurosawa si decise a cambiare in Cure il titolo originale dell’opera, Evangelist, proprio per cercare di tenere le distanze da quell’evento. 

Tuttavia si potrebbe forse affermare che, come le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki hanno portato alla creazione cinematografica di Godzilla, il clima da fine del mondo dell’ultima parte degli anni ‘90, unito purtroppo anche alla memoria storica dell’attentato alla metropolitana di Tokyo, hanno di fatto portato ad amplificare le paure e suggestioni alla base del J-Horror, fino a farne un fenomeno di portata internazionale. 

Un fenomeno apprezzato, più volte “clonato”, anche se spesso non compreso fino in fondo. 

Un fenomeno idealmente iniziato con il Ring di Hideo Nakata del 1998, che ha trovato il suo apice  nel 2022, con Ju-Oh di Takashi Shimizu (ma che ha influenzato anche pellicole di Hong Kong come The Eye dei Pang Bros). 

In questa gloriosa corrente anche Kurosawa avrebbe comunque fatto sentire ulteriormente la sua voce, con il suo “unico e sperimentale” Pulse, del 2001 (finito pure lui inevitabilmente per “godere” di un remake “USA e getta”). Se il J-horror, che lui aveva contribuito a creare, affrontava principalmente i legami contorti tra “passato e presente”, con storie che sviluppavano temi come “la memoria e il rancore” in chiave horror, con Pulse Kurosawa guardava già ai legami tra “presente e futuro”. L’autore in Pulse raccontava l’alienazione umana causata da un contatto sempre più simbiotico e tossico con il mondo dei computer e dei social. Anticipando di anni il tema degli hikikomori digitali e la “smaterializzazione” dei rapporti umani che oggi soprattutto patiamo.  

Kurosawa è ancora attivissimo: dopo opere interessanti pur minori (come Retribution del 2006) e dopo aver toccato anche altri generi di racconto “più leggeri”, è  tornato nel 2024 al thriller e al surreale, con pellicole come Serpent’s Path e Cloud.

Lo scontro tra un uomo di legge e un uomo di scienza deviato

Un giovane ma imponente Koji Yakusho in Cure del 1997 interpreta il ruolo del brusco e malinconico detective Takabe, ma lo abbiamo già visto (nel “futuro”) nel 2010 come uomo maturo a capo di un gruppo di ronin nel bellissimo action 13 Assassins di Takashi Miike, come di recente è stato il vecchietto dallo sguardo sognante protagonista della meravigliosa pellicola malinconica di Wim Wenders, Perfect Days

Lo “sbrindellato” ma diabolico Kunio Mamiya, l’oscuro “burattinaio” dietro alla vicenda di Cure, ha invece il volto di Masato Hagiwara: attore, narratore, sassofonista e pure giocatore professionista di mahjong. Lo abbiamo visto nel disaster movie Fukushima 50, nel supereroistico demenziale Kamen Teacher e pure nell’imperdibile live action di Sampei il ragazzo pescatore del 2009; ma l’aria del giocatore di mahjong professionista, neutra quanto impalpabile, la tiene con convinzione anche in questa pellicola di Kurosawa.

Il personaggio di Yakusho cerca la logica, muovendo i pugni con concretezza. Vuole a tutti i costi preservare una “maschera di facciata, rassicurante e professionale”, nonostante viva un dolore familiare indicibile (pure a se stesso) e tutti i giorni si confronti con la sua “impotenza professionale” nel cambiare il mondo in meglio. 

Il personaggio di Hagiwara, che recentemente qualcuno (Nocturno) ha felicemente paragonato al ruolo di Nicolas Cage in Longlegs di Oz Perkins, non muove quasi per niente le mani. Ama invece moltissimo l’idea che la “maschera di facciata, rassicurante e professionale” del detective cada. Per far cadere quella maschera, insieme alle maschere di tutte le sue “vittime”, l’incolore Mamiya le trascina in luoghi bui simili a trappole emotive. Luoghi intimi di orrore suburbano decadente (ottima la fotografia di Tokusho Kikumura): appartati, oscuri, ma in fondo molto simili a una stanza da psicanalisi. Caverne dalle quali può solo emergere dalle vittime, con le “suggestioni giuste”, un’ombra.

Un’ombra che in senso “junghiano” è manifestazione dell’inconscio più inaccettabile socialmente: ciò che in genere una maschera cerca di trattenere. 

Attraverso il personaggio di Mamiya, Kurosawa ci “svela” l’alta manipolabilità di chi già vive sotto stress. Uno stress che se era alto nel Giappone del 1995 ai tempi della produzione di Cure, con i fanatici che hanno attaccato la metropolitana, oggi non sembra molto calato. Soprattutto in una società che ha ormai incorporato anche l’alienazione digitale di Pulse

Rimane il duello tra il detective e il “colpevole”, ma l’esito è giusto che lo scopriate in sala.

Finale

Cure è un film invecchiato bellissimo e che oggi, in un mondo carico di forti conflittualità emotive, appare ancor più attuale, urgente. Un film meraviglioso, con ottima fotografia, musica e ritmo narrativo, attori molto coinvolti e una trama che sa insinuarsi sotto la pelle degli spettatori. Suscitando domande dalla risposta amara. Come solo i migliori horror di sempre sanno fare. 

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