Si può “fare giustizia” utilizzando come arma una maledizione?
È con questa ferrea convinzione, forse l’ultima, che un poliziotto con il passamontagna si trova in auto davanti al covo di alcuni spacciatori, mentre il demone che è dentro di lui sta finendo di divorarlo. Mentre le allucinazioni stanno iniziando a prendere il sopravvento, l’uomo cerca con tutte le forze rimaste di arrivare a guardare negli occhi un criminale, magari il pezzo più grosso lì dentro: è solo allora che la creatura entrerà in lui.
Il piano non funziona.
Al termine di uno scontro a fuoco il demone del sorriso si impossessa di un piccolo spacciatore di nome Louis Fregoli (Lukas Gage), che poco dopo passa a sua volta la maledizione alla giovane cantate Skye Riley (Naomi Scott), una ex compagna di scuola che ogni tanto lo frequenta per avere degli anti dolorifici extra per la sua schiena.
Il mondo in cui vive Skye è già così com’è strano e confuso, al punto che il fatto di avere una creatura maligna millenaria che ne altera le percezioni, crea incubi e vuoti di memoria, per “nutrirsi della sua disperazione”, all’inizio non cambia troppo le cose.
Ogni giorno SKye ha a che fare con una madre (Rosemaire DeWitt), manipolativa quanto autoritaria e anafferiva, che la riempie di incarichi, tormenti e personali frustrazioni.
È ancora molto recente, nella mente come sulle cicatrici della cantate, il trauma per l’incidente in auto al quale è sopravvissuta per miracolo pochi mesi prima, mentre il suo compagno, l’attore Paul (Ray Nicholson), ha perso la vita.
Tra i milioni di fan si fanno ormai largo agli eventi pubblici dei veri e propri stalker: persone disturbate quanto inquietati, con le quali è sempre più complicato interagire come previsto dal contratto.
Poi ci sono le prove di un grande e complicato concerto da portare a termine. Le invadenti richieste di apparizioni pubbliche della casa discografica, nelle quali si è costretti a sorridere e stringere mani. È tempo di cambiare un’immagine pubblica “buona, ma da rivedere sotto una veste più accattivante”, anche con il rischio calcolato di snaturare ogni scampolo di personalità, se è per vendere più dischi.
Fortuna che c’è sempre Gemma (Dylan Gelula), l’amica di sempre disposta a seguirla in mezzo alle tempeste emotive, infondendo calma e razionalità. Fortuna che gli esercizi di meditazione imparati di recente funzionano, ripristinano tranquillità, placano ossessioni e disagio.
C’è in giro uno svitato infermiere di nome Morris (Peter Jacobson) che sa molto su quel demone e forse può aiutarla, ma in fondo serve a SKye questo aiuto? Se lo spirito che è dentro di lei spesso si limita a far dubitare la vittima di quello che la circonda, facendole pensare che le persone al suo fianco le sorridano malevolmente per poi volerla aggredire, il demone deve fare decisamente di più per impressionare una pop star.
Ma le creature interdimensionali millenarie hanno sempre più di un asso nella loro manica, quando si tratta di divorare dei piccoli e miseri umani.
Dopo il grande successo di critica e pubblico del primo capitolo, Parker Finn torna a scrivere e dirigere il secondo atto delle “gesta sovrannaturali” del demone di Smile.
Formula che vince non si cambia e Finn porta ancora in scena una storia ben scritta e ben recitata, carica di ironia, tanto mestiere e qualche piccolo tocco di genio. La cifra di Smile consiste ancora nel metterci come spettatori sui binari del più classico “tunnel dell’orrore”, dove quasi a ogni inquadratura si salta sulla sedie, per improvvisi spaventi (in gergo i cosiddetti “bus”): la colonna sonora che di colpo si fa aggressiva, un movimento di macchina veloce indugia su figure inquietanti, onirico e reale si confondono. “Spaventarelli” classici della grammatica Horror, a cui in sala seguono a volte risate, anche se a volte dopo lo spavento la tensione non smette di salire, portandoci verso una sana inquietudine.
Se il primo Smile, pur in una logica squisitamente lovecraftiana, era molto debitore, per atmosfere rarefatte e “corpi mutanti”, delle suggestioni di molto cinema horror asiatico, Finn qui rilancia la sua passione per l’Oriente, scrivendo una sceneggiatura che è una vera e propria lettera d’amore a uno dei capolavori animati del compianto Satoshi Kon: Perfect Blue.
Ancora al centro della scena è di fatto una pop star e il mondo che intorno a lei è mutato in modo sinistro a causa della fama.
Tornano come in quel film del ‘97 i fan/mostro come “Me Mania”. Torna il difficile rapporto tra un mondo privato e pubblico che non riesce più a costruire dei confini sani, giungendo spesso a conflitti e sovrapposizioni che portano alla paranoia. Arriva a svilupparsi un dialogo “impossibile” tra la protagonista e la parte più oscura di se stessa, che spesso le parla attraverso il suo riflesso in uno specchio, come l’entità di un mondo parallelo.
Tutte suggestioni in cui il demone di Smile può sguazzare alla grande: confondendo ulteriormente le carte, agendo come un agente del caos emotivo particolarmente autodistruttivo, rendendo disumano ogni rapporto umano o “supposto tale”.
Come la protagonista di Pefect Blue, il personaggio di SKye interpretato dalla bravissima Naomi Scott aumenta in complessità emotiva e disperazioni ogni minuto che passa, trascinandoci dentro un incubo vivido quanto disperato. Un’ulteriore bravura del lavoro di Finn consiste anche nell‘innestare, nella parabola emotivo/soprannaturale che vive la povera SKye, sfiziose “suggestioni celebri”: frammenti di vita ispirati alla “storie da rotocalco” di alcune cantanti famose.
Assistiamo in lei a una “perdita dell’innocenza programmata”, nella sua immagine pubblica, che riporta alla mente una fase professionale travagliata e difficile di Miley Cyrus.
Emerge lo strano e spesso conflittuale rapporto, più imprenditoriale che protettivo, che si instaura tra la star e i suoi genitori, con suggestioni che rimandano alla biografie di Britney Spears. Si parla della difficoltà reale nell’organizzare e portare in scena degli spettacoli sempre più grandi, con tutte le conflittualità legate al bisogno di coordinarsi con un piccolo esercito di ballerini, musicisti e registi, in enormi strutture come quelle che ospitano realmente i concerti di Taylor Swift. A tratti la storia di SKye ci parla anche della caduta della star negli abissi delle relazioni tossiche e degli abusi di sostanze, come accaduto alla povera Amy Winehouse.
SKye è in fondo un mosaico di molte suggestioni, più o meno note, ma Naomi Scott, ben guidata da Finn, riesce a rendercela comunque unica, credibile bei suoi mille tic nervosi (come l’ossessione per l’acqua), disagi emotivi (la paura di essere riconosciuta in pubblico), insicurezze (l’incubo che si trasforma in una performance di ballo). La Scott infonde al personaggio grande umanità e la determinazione che richiedono le scene più drammatiche e horror, ma sa anche esibirsi in prima persona, in ottime performance di canto e ballo che la renderebbero assolutamente credibile come Rockstar.
Come l’Alien di Scott, lo “Smile” di Finn ha delle scene “tutte per lui”: per farsi ancora di più ammirare e riconoscere nella sua forma primordiale, quasi da divinità lovecraftiana. Affascinante quanto respingente, idealmente tra Society di Brina Yuzna e From Beyond di Stuart Gordon. Ha un corpo filiforme ed elastico, nella sua forma “vuota” quasi simile a delle budella umane, in grado di contrarsi e distendersi come un guanto all’interno dell’ospite, fino a muoverlo come un burattino. Riesce ad avanzare e adattarsi sotto la pelle e la mente di ospiti sempre nuovi, cannibalizzandoli dal di dentro, masticando con gioia ogni loro linfa vitale, come una zanzara.
Tra le righe Finn ci parla ancora di come il peggiore male dei nostri giorni sia l’indifferenza alla sofferenza altrui, che spesso porta le persone più fragili a nascondersi in mondi chimici effimeri quando senza uscita.
I mille, brutti sorrisi che il demone fa comparire davanti alla vittima, giocando con la sua mente, servono ancora per deriderla e confonderla, offrendole ancora una volta il volto di un mondo dove l’empatia è morta. Guardare quei sorrisi stirati al cinema, quasi da “uncanny valley”, fa ancora “male”: scava nel profondo dello spettatore, crea quell’ambiguo cortocircuito in virtù del quale ridere durante la visione, delle sventure di SKye, fa sentire crudeli come i “mostri che ridono” che la circondano.
Finn sa il fatto suo ed è sicuro che non si fermerà al capitolo 2. Anche perché, piano piano, inizia a costruire dietro a questi racconti, per moltissimi versi autonomi e autoconclusivi, una piccola “lore” carica di suggestioni e rimandi. Il quadro si fa sempre più grande e affascinante e il finale del secondo capitolo apre a una prospettiva futura inedita, che non vediamo l’ora di esplorare.
Smile 2 è un film ben recitato e studiato, che gioca con intelligenza e mestiere collocandosi all’interno di un cinema horror molto classico, fatto di slasher, splatter e “spaventi a schiaffo” come nel classico tunnel dell’orrore. Ogni tanto la pellicola gioca bene le sue carte anche su un piano “più cerebrale”, dimostrando di avere la stoffa per evolversi magari verso forme diverse di “terrore”.
Se avete amato il primo capitolo non perdetevelo assolutamente. Se non avete ancora visto il primo Smile, è tempo che gli diate una concreta possibilità.
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