sabato 12 ottobre 2024

Alien: Romulus: la nostra recensione del nuovo film di Fede Alvarez, ancora in sala e presto in streaming, che riporta al cinema il terribile xenomorpho disegnato per Ridley Scott da H.R. Giger

 


Sinossi stringata anti-spoiler: “Nello spazio nessuno può sentirti urlare”. 

A questo giro non possiamo “sentire urlare” un gruppo di ragazzini (stile quelli dei film horror slasher anni '80) che fanno i minatori in una polverosissima e inquinatissima “colonia extra-mondo”, sognando di avere i soldi per essere criogenizzati e finire a vivere, al termine di un lungo viaggio spaziale, in un lussureggiante pianeta/stazione-balneare pieno di spiagge e gente felice. 

La paga è poca e basta a stento per nutrirsi, il sogno quasi impossibile. Ma ci sono voci di una stazione spaziale scientifica, la Romulus, ritrovata da poco abbandonata non troppo distante da loro, probabilmente piena di lettini criogenici, sogni e speranze gratis. 

Probabilmente piena di cadaveri, ma sono dettagli. 

Tutto sta ad arrivare prima che la notizia si diffonda troppo. 

Saltato il turno del mattino alla miniera spaziale e requisita una ruspa spaziale, i nostri intrepidi ragazzotti spaziali partono alla conquista del bottino con un’arma segreta molto speciale: il buffo ma “strano” sintetico Andy (interpretato dal bravo David Jonsson), che una di loro, la pratica e ottimista Rain (interpretata dalla molto brava Cailee Spaeny), tratta come se fosse suo fratello in carne e ossa. Andy è l’unico in grado di aprire ogni porta blindata o codice segreto spaziale e per Rain farebbe ogni cosa. Anche se è odiato dal resto dei ragazzini per il “malfunzionamento” di altri sintetici, che in genere ha portato a varie disgrazie nelle rispettive famiglie. 

Entrare nella Romulus sembra facile, ma come in Man in the dark, precedente film sempre diretto da Fede Alvarez, ci sono “robe in the dark” che aspettano nell’ombra di papparsi ragazzini. 

Sono alieni. Sono tanti. Del resto, se la stazione spaziale era abbandonata tra le stelle, qualcosa di terribile deve essere successo. Forse però un superstite c’è, che seppure a pezzi può parlare. È il droide di un modello passato rispetto a Ben (Ian Holm) e può raccontare al gruppo una storia incredibile. 

Ma ancora più incredibile sarà riuscire a lasciare la Romulus.


Tra alieni e alienati assortiti (paragrafo del tutto facoltativo, dal sapore sociologico/nostalgico, dedicato ai fan della saga): 

“Nello spazio nessuno può sentirti urlare”. Questo era lo slogan che accompagnava, nel 1979, l’uscita del nuovo ambizioso horror/thriller fantascientifico scritto e diretto dal visionario regista Ridley Scott. 

Rinchiusi in una decrepita, labirintica quanto claustrofobica astronave da trasporto, probabilmente maleodorante, un gruppo di “camionisti spaziali”, sudati e tabagismi convinti, doveva sopravvivere a qualcosa di inquietante come avere a che fare con “qualcosa di alieno a bordo”. 

Di sicuro era aliena la creatura che il gruppo imbarcava dopo la visita inaspettata a un planetoide: la classica missione di soccorso finita male. Una specie di ragno/mano con coda strangolante attaccava uno di loro. Seguivano nausee, vomito e mal di testa, fino a che qualcosa usciva dalla pancia della povera vittima, uccidendola e nascondendosi sul cargo, tra i condotti di areazione. In poco tempo cresceva così  uno xenomorpho: un essere nero metallizzato pieno di tubi, zanne e aculei, che sviluppato arrivava ai 3 metri, veloce e aggressivo. Quadrupede, dotato di “bava acida”, coda uncinata e doppia “bocca perforante”. Ampio cranio corazzato, nessun occhio ma forse una specie di radar naturale in grado di seguire ogni rumore e odore. Un mostro che secondo le indicazioni date da Scott allo scultore svizzero H.R.Giger doveva richiamare un insetto, ma “fondendolo” con la meccanica, gli ingranaggi e tubi, i lineamenti affusolati e la cromatura lucida di una moto da corsa. 

Ma purtroppo per i camionisti spaziali c’era, di fatto, “un altro alieno a bordo”. 

Un robot dall’aspetto assolutamente umano, dall’aria decisamente più affabile e gentile, interpretato con eleganza dall’attore Ian Holm. Purtroppo però, come “l’altrettanto amabile” Al 9000 di 2001 Odissea nello Spazio, il sintetico possedeva una “mente aliena”: un modo di ragionare che per sua natura e mentalità “aziendalista” non teneva conto nelle sue priorità della sopravvivenza dell’equipaggio umano. Prima veniva il fatturato: ossia preservare a ogni costo la sopravvivenza dello Xenomorpho per portarlo al sicuro, studiarlo e farci i soldi. 

Con questi “due alieni a bordo” l’equipaggio, sudato e sempre più a corto di sigarette, doveva cercare un modo di sopravvivere concreto e veloce, dando fondo a tutte le conoscenze tecnico/scientifiche  relative alla loro astronave/camion. Dalla planimetria dei condotti d’areazione dove la creatura amava intrufolarsi, alla gestione delle stanze blindate e pressurizzate. Dalle procedure d’uso di tute spaziali e scialuppe di salvataggio, al saper maneggiare le mille fiamme ossidriche, trapani e materiali di fortuna con cui riparare paratie e quadri comandi, divelti o disciolti uno dopo l’altro dall’acido xenomorpho. 

Un film sulla sopravvivenza come un “home invasion futuristico”, con tanta atmosfera, effetti e una musica sinfonica azzeccata. Grande successo di critica e pubblico, anche grazie alla bellissima e tostissima Sigurney Weaver. 

Gli alieni sarebbero tornati al cinema nel 1986, in un film scritto e diretto da James Cameron: Aliens: Scontro Finale.

Più budget ma non troppo. Non un'astronave ma un'intera colonia spaziale come scenario della vicenda. Carri armati, robot, armi futuristiche, tanti, tantissimi alieni e tutto quello che avrebbe gasato i giocatori di ruolo del futuro boardgame Warhammer 40.000. 

La produzione sembrava già suggerire qui che i futuri film del franchise avrebbero seguito un impronta “quasi sociologica” sul piano narrativo: a ogni capitolo l’Alien di turno avrebbe giocato con tipologie umane diverse. Così gli avversari degli alieni passavano dagli Space-Truckers del primo film agli Space- Marines. Dei super soldati armati e gasati, modellati probabilmente sulla Fanteria Spaziale di Robert A. Heinlein,  a cui Cameron (autore in quegli anni pure di un trattamento di Rambo 2 - la vendetta) regalava la disperazione e schizofrenia dei reduci del Vietnam. 

Inutile dire che tutta la colonia spaziale del film diventava un nuovo tragico piccolo Vietnam, pieno di Xenomorphi nascosti “dietro ogni fottuta parete” (come ricordava sulla scena il personaggio del compianto Bill Paxton), in grado di coordinarsi tra loro e agire insieme, come tante formichine letali (come in Fanteria Spaziale), meglio di qualsiasi plotone terrestre pieno solo di spirito patriottico. Il robot del secondo film era “meno alieno”, aveva l’aria compassata e rassicurante dell’attore Lance Henricksen (ironicamente l’attore scelto da Cameron per presentare ai finanziatori il suo primo Terminator) e sembrava decisamente meno manipolativo di Ian Holm. Ma proprio perché i robot del “Modello Ian Holm” erano stati riconosciuti pericolosi e inaffidabili, nonché odiati da tutti, il povero Henricksen era comunque costantemente guardato dall’alto in basso come fosse un alieno. Il sangue sintetico bianco, che sbavava per tutto il tempo per le  esigenze di un trama particolarmente cruenta, non aiutava. 


Essendo poi il sintetico di Henricksen “poco aziendalista”, in Aliens avevamo “un terzo alieno a bordo”: un “uomo delle corporazioni” interpretato dal simpatico attore comico Paul Reiser, qui nel suo primo ruolo “scarsamente simpatico”. Così votato al fatturato da sconfinare nell’autolesionismo. Il personaggio di Sigurney Weaver tornava e aveva pure imparato a guidare un esoscheletro potenziato con pinze giganti: di fatto una specie di “muletto” per spostare i pacchi, ma anche buono per dare schiaffi agli xenomorphi. Con Cameron alla regia è tutto più grosso, dalle astronavi alle pistole, agli alieni stessi, peraltro numerosissimi e dotati di una “regina” grossa come un Kaiju. 

Il film ebbe enorme successo e si passò velocemente alla produzione di un terzo capitolo, finito nelle mani di un giovane David Fincher dopo una produzione travagliata di anni. A confrontarsi con gli alieni era un’altra categoria umana: dopo i camionisti spaziali e i Marine, era il turno dei monaci spaziali/detenuti di una colonia penale. La cosa bizzarra è che esistono due montaggi del film: in una i protagonisti sono monaci e nell’altra sono dei detenuti. Al netto di una piccola manciata di dialoghi sono praticamente la stessa cosa. Lo scenario della vicenda è questa volta un planetoide/fonderia popolato da uomini pelati causa presenza di pidocchi spaziali. 

Un ambiente “virile”, come quello del film La cosa, con uno xenomorpho che qui si rinnova in forma “canina”, citando sempre La Cosa. Sigurney Weaver, per fare pure lei “qualcosa” (ok…ho fatto giochi di parole più ispirati in passato…) di diverso, si taglia i capelli a zero, forse per uno spunto della “trama monacale”. Ma non solo: si concede anche un'evoluzione del personaggio molto particolare, tra Eros e Thanatos, che gioca molto con una sensualità rimasta troppo a lungo contratta. La sua Ripley arriva a inaspettate punte drammaticissime quanto estreme. Si dice che, da produttrice, la Weaver abbia voluto tantissimo una svolta sexy, motivo per cui in una scena appare uno xenomorpho che cerca quasi di limonarla.

L’androide “c’è”, ma rimane mezzo rotto in una busta di plastica per tutto il tempo: dopo l’indigestione di esoscheletri, tank e pistole a raggi, questo vuole essere un film spirituale. Zero tecnologia o armi futuristiche che vadano oltre lance e lanciafiamme dal sapore biblico/carcerario. Perfino gli “alieni aziendalisti”, i peggiori di tutti, relegati quasi a comparsa.

Quasi un “fantasy”, al netto di una bellissima fotografia “color ruggine” e una ambientazione sempre sovraccarica di dettagli, che si evolveranno per Fincher in una cifra stilistica unica: che porterà al successo di Seven. Ma pur salvando gli attori e qualche sequenza action, il film fu percepito (e lo è tuttora) come una pellicola controversa e incasinata. 

Forse più interessante nel montaggio “con i monaci”. 


Ma tutto ciò non fece perdere la voglia di generare un seguito del brand nel 1997, diretto da un Jean-Pierre Jeunet reduce dal successo di Delicatessen, con colori ed eccentricità da graphic novel europea (tra tutti, le porte di sicurezza che si aprono grazie all’alito, alitandoci sopra). I co-protagonisti degli xenomorphi sono qui ancora qualcosa di diverso: dei “pirati spaziali” fighissimi, vestiti in pelle, armati di coltelli e pistole retrattili nascoste sotto i loro trench,  con i volti “da duri” di Michal Wincott (il cattivo de Il corvo di Proyas), Ron Perlman e un Gary Dourdan con i rasta “pre CSI”. Il ruolo di una sintetica-donna, mai così gentile e carina, è qui riservato a una carinissima Winona Rider, che dimostra quanto i tempi siano ben cambiati, dal “modello Ian Holm”. Sigurney Weaver torna in una versione super sexy ancora più strana e inaspettata di quella del terzo film: di fatto rimanendo ricoperta per tutto la trama di olio abbronzante e vestiti aderenti striminziti, si lancia in scene action contro gli alieni picchiandoli lei stessa a mani nude grazie a dei nuovi particolari “super poteri”. Gli alieni questa volta “nuotano” (in una scena subacquea meravigliosa), alcuni sono degli ibridi ingegnerizzati che dimostrano divertenti interazioni di gruppo, uno “un po’ da incubo” ha volto e occhioni quasi umani. 

Sono tutti  prodotti “clonati” sulla stazione spaziale dove ha luogo la storia, sulla base di materiale genetico specifico (se vi dico cos’è, è spoiler). Oltre ai pirati spaziali, ci sono come nuovi “alieni aziendalisti” gli allegri scienziati pazzi, appassionati di scienze comportamentali in salsa elettroshock, che operano nella suddetta stazione. Cercano di “educare gli alieni” con giochini psicologici stile “tira la leva per la ricompensa”. Amano il sadismo. Sono così contenti del risultato dei loro “pasticci genetici” da commuoversi per i risultati dei loro “bambini”, anche se questi li stanno per uccidere in modi orribili. Sono loro ad avvicinarsi di più al senso del grottesco dell’autore di Delicatessen, conferendo all’opera un gusto  sarcasticamente malsano. Il film è incredibilmente tamarro, ma è così pieno di scene eccentriche, divertenti e pure spettacolari da “fare il giro” e risultare godibilissimo. 


Come avversari degli xenomorphi, i pirati spaziali sono poi davvero notevoli, anche in relazione ai successivi incontri ravvicinati cinematografici. Sicuramente sono più fighi dei topi da biblioteca/nerd/guide alpine di Alien vs Predator. Come hanno più intraprendenza degli abitanti del piccolo paesino della provincia americana dei giorni nostri in cui è ambientato Alien vs Predator 2. Ma del resto,  in questo dittico “Versus” curato da Anderson e dagli Strause, sono gli “altri alieni a bordo”, i Predators, a sfoggiare una personalità molto più interessante. Dopo questa parentesi, le vittime degli Aliens, nonché di un sintetico di nome David interpretato dall’ottimo Michael Fassbender, nonché di un bieco “alieno aziendalista” interpretato da Guy Pierce, tornano ad essere umanamente debolissime quanto scarsamente combattive: gli astrologi/ religiosi di Prometheus, le coppiette innamorate di coloni/ Pellegrini (anche qui accompagnate da sporadici “alpinisti”) di Alien: Covenant

Come se la caveranno ora questi ragazzotti/minatori “del futuro”, in Alien: Romulus

Ma soprattutto,  quale categoria umana affronterà in futuro gli “aliens”? Dei cuochi gourmet interstellari? Ballerini di danza moderna marziana? Turisti in crociera intergalattica? 


Man in the dark, ma nello spazio: Fede Alvarez è di sicuro un regista che ha saputo farsi notare fin da subito per la sua peculiare visione dell’azione e per la capacità di creare momenti di tensione drammatica. Il suo Evil Dead, prodotto da Sam Raimi e Bruce Campbell stessi, è uno dei remake horror più interessanti degli ultimi anni: una pellicola in grado di mantenersi gioiosamente splatter e sopra le righe, “cattiva e colorata”, in un mondo cinematografico che procede ormai con il freno tirato. Il secondo film è stato Man in the Dark, un piccolo gioiellino che ha già generato un buon seguito: merito del bravissimo Stephen Lang, nel ruolo di un ex soldato folle e non vedente, ma anche di una sceneggiatura a prova di bomba, in grado di creare situazioni interessanti giocando con originalità con spazi e psicologia. Un film pieno di cunicoli stretti, un mostro implacabile che si muove nel buio con velocità e determinazione, una donna chiamata a sopravvivere, usando l’intelligenza e un pizzico di imprudenza, ma senza avere la matematica certezza di farcela. 

Proprio guardando Man in the Dark qualcuno in casa Disney, come del resto ho fatto io, avrà sicuramente pensato: “certo, sarebbe bello dare in mano un Alien a Fede Alvarez”. Desiderio avverato. 

Alien: Romulus esegue il compito alla perfezione, risulta in ogni aspetto un film godibilissimo, con ottimi effetti speciali e attori funzionali al ruolo. Ci sono le astronavi, la base spaziale è articolata e ricchissima di dettagli, ci sono gli alieni, i sintetici, lo splatter, gli inseguimenti e pure qualche novità visivo/narrativa interessante, che collega la pellicola direttamente al primo film della saga, ma pure al “prequel” Prometheus.

Nel cast riesce ovviamente a svettare, per carisma, supponenza e freddezza, il sintetico impersonato da un Ian Holm davvero in ottima forma. Ambiguo, fintamente paterno quanto autoritario come l’imperatore Palpatine, il suo sintetico risulta da subito pericoloso quanto affascinate, “dolcemente sgradevole”.  

Anche i personaggi interpretati da David Jonsson e  Cailee Spaeny sono suggestivi e riescono a mettere in scena un rapporto molto interessante. Andy è un sintetico “da compagnia”, abituato a occuparsi di Rain come un fratello maggiore fin da quando era bambina. Offre tanto conforto, risate, quanto continue barzellette che però non fanno mai ridere. Ricorda nella malinconia e ricerca continua di empatia il piccolo robot David, del colossal A.I. di Spielberg. Quando per ragioni di trama il personaggio viene costretto a “evolvere”, assistiamo a un cambiamento caratteriale ben sviluppato: subentrano in Ben domande esistenziali, spirito di sacrificio, l’accettazione della componente “violenta” della sua natura, quanto della natura violenta del mondo che lo circonda. Rain “lo osserva”, con tanta gratitudine quando paura di vederlo cambiare troppo e troppo presto. Di fatto costringendosi anche lei a diventare adulta prima del tempo. Dalla tenerezza e spaesamento tira fuori gli artigli. 

Gli altri personaggi sono invece la classica compagine da film horror: il ragazzo timido ma gentile, il tipo collerico e sarcastico, la ragazza disinibita sfinita in una situazione fisica ed emotiva difficile, l’altra ragazza un po’ “nerd” e mascolina. Cliché, ma funzionali a una trama horror che li vuole uno dopo l’altro vittime degli eventi quanto degli alieni. Alieni molto ben realizzati in computer grafica, veloci, viscidi e sanguigni come si conviene, imprevedibili. In grado di rendere frenetica e dall’esito incerto ogni scena d’azione che viene a svilupparsi su una astronave che, come tradizione dei film di Alien, appare carica di cunicoli oscuri, paratie stagne, zone a gravità ridotta, spettrali sale comando popolate di cadaveri illuminate solo dalle luci dei computer. 



Tuttavia, in questo luccicantissimo e appropriato spettacolo pirotecnico, ben in grado di fondere la fantascienza cinematografica con le atmosfere di videogame come Dead Space  (giusto per trovare nuovo pubblico quando comprendere come di fatto l’atmosfera di Alien sia stata con il tempo fagocitata, bene, proprio  dall’immaginario videoludico), manca un po’ la “salsa piccante”: quel tocco di “umana follia” che rendeva iconici gli altri film, di fatto burlandosi delle miserie e stramberie umane. 

Mancano le puerili battutacce da action Movie che continuamente snocciolano gli Space marines in Aliens, per darsi un tono. Manca la “paura per le donne”, con effetti tragicomici, sviluppata in anni di solitudine dai  monaci/detenuti del terzo film. Mancano tutte le orribili “cose da bullo” che senza un perché il viscidissimo personaggio di Ron Perlman fa nel quarto film. Manca lo stupore un po’ cretino dell’incontro ravvicinato con un verme spaziale, che porta gli speleologi spaziali a una fine brusca quanto ridicola in Prometheus. Manca la maldestra scena dell’incontro alieno sotto la doccia, con la colona che presa dal panico si spara da sola, di Alien Covenant

Tutto in Romulus è molto composto, ordinato, ormai epurato di tutto il “weird” e del politicamente scorretto di cui le pellicole di Alien sono da sempre cosparse. Anche forse per sottolineare che c’è “qualcosa di alieno”, strano e irrisolto, anche nei comuni umani. 

Finale: Alien Romunlus è un film ben fatto sia sul piano tecnico che artistico. Adeguati  gli attori, gradevolissimo il ritmo generale, una trama semplice ma che offre interessanti guizzi nella scrittura di alcuni personaggi. Belli gli effetti speciali e ambientali. Tante le gustose citazioni al franchise. Manca un po’ della “follia” dei precedenti film, forse anche perché i tempi sono cambiati e il politicamente corretto si impone. Ma il clima di “caccia all’alieno” riesce ancora a convincere e Fede Alvarez ha il giusto occhio per lavorare su prodotti di questo tipo. 

Ancora una volta, c’è un nuovo alieno a bordo, che ha voglia di giocare con noi a “chi è più alieno”. Con tanta voglia di farci divertire tra inseguimenti, splatter, astronavi, colonie minerarie, sintetici, ragni spaziali, lanciafiamme e belle ragazze in tuta spaziale. 

C’è tutto, salvo forse la “salsa piccante” da mettere sopra i tacos. 

Talk0

Nessun commento:

Posta un commento