domenica 1 settembre 2024

Dario Voltolini - Invernale: la nostra recensione del romanzo edito da La nave di Teseo

Fine anni ‘70. 

Il “padre” lavora come macellaio in un banco specializzato in conigli, pollame e agnelli, presso il mercato di Torino. Il suo “ceppo” è sempre pulito, le vasche con le frattaglie ordinate. I clienti accalcati lo osservano, ipnotizzati, mentre disossa le bestie con la maestria e l’eleganza di un chirurgo o un prestigiatore. 

Con toni musicali concitati simili a tamburi, un’armonia unica di gesti e coltelli, il padre apre un animale spellato dal suo interno, come un sipario. Lo fissa ai ganci, lo divarica. Lo divide in parti geometriche, lo frammenta per lungo come un tappezziere curerebbe la sera. Scompone,  fino a che si trasforma il tutto in gemme compatte rubino o bistecche con l’osso: da animale a pietanza, riposta in pacchetti di carta candida, che si può già figurare a casa, in padella. Il sangue, le poltiglie delle lame e le parti rimaste fuori dal processo scompaiono all’occhio, nessuno le vede, tutto il bancone riflette una luce pulita come il cristallo. 

Il padre, per molte ore di lavoro infaticabile, vive al di là del vetro del suo banco da lavoro, insieme alle bestie. Quasi sul limbo tra la vita e la morte, anche se lui è solo un passaggio intermedio, tra il boia/cacciatore e l’acquirente. Alle spalle, grossi ganci a trenta centimetri dalla testa, più in basso coltelli enormi e pesanti in grado di spaccare per lungo con un solo colpo teste e colonne vertebrali. Davanti, la fretta dei clienti, la necessità di compiere un continuo “balletto” insieme ai suoi assistenti per non ostacolarsi al ceppo, alle vasche, alla cassa per prendere i soldi e dare il resto. 

Tutto deve svolgersi e si svolge in modo preciso, geometricamente previsto al millimetro, dall’esperienza meccanica del braccio e da un “occhio” in grado di soppesare ormai ogni pezzo, ancor prima della conferma di una bilancia elettronica.

Poi qualcosa si inceppa.

La danza di corpi vivi e sezionati si deforma per un istante dietro il bancone.

Arriva il taglio, l’urlo, l’inizio di un cambiamento.

Sotto la pelle vive qualcosa di nuovo, che prima cerca di fuoriuscire tra rigonfiamenti e striature lucide e poi sembra gradualmente scomparire.  

Sangue di agnello mischiato in sangue d’uomo, per gioco del destino, si sono fusi nel padre, attuando una metamorfosi lenta quanto profonda, che tocca il suo piano fisico ma anche psicologico.  

L’uomo si fa sempre più “misterioso”. 

Nel lavoro è ancora puntuale e infaticabile, ma inizia a vedere il suo mestiere in un modo diverso, quasi “sacrale”. Viaggia la sera con la mente e le sigarette in territori lontani e inesplorati, che crede di aver visto in altre vite. Vede la realtà stessa in modo diverso, con tempistiche diverse: anticipa le traiettorie degli eventi quasi acquisendo una specie di “preveggenza”, che si tratti di un cross in una partita di calcio o la struttura esterna di un palazzo mai visitato. 

Si rifugia, di giorno, nelle pause dal bancone, in luoghi della città che non ha mai battuto. Il corpo del padre nel tempo viene esaminato da più esperti, quasi mai sicuri del cambiamento che di sicuro è (forse) in atto, fino a che la sua cartella clinica si fa un libro, un “libro del mistero”. 

Cosa è cambiato o sta ancora cambiando, nella vita di quest’uomo?  


Qualche volta torniamo felicemente a parlare di libri. Lo facciamo oggi con questo libricino di 140 pagine, edito da La nave di Teseo, arrivato secondo al prestigioso premio Strega. 

Una copertina semplice ma impattante, un titolo ricercatamente “criptico”, un ritmo narrativo concitato unito a una flagranza delle parole che ci prendono al bavero dalle prime righe, non ci mollano almeno per una cinquantina di pagine. Capitoli brevi e intensi. 

Una rigogliosa terminologia tecnica, ricercata quanto affascinante, vivida quanto “cruda”, “elegantemente splatter” quanto un’opera di Cronenberg. 

In poche pagine si corre visceralmente, kafkianamente, dall’anatomia di un agnello a quella di un uomo, tra viscere e inconscio, brandelli e scampoli di memoria. 

Violtolini ci apre a tratti anche alla “mistica dell’anima”, raccontandoci di legami ancestrali tra uomo e terra, lo spazio e il tempo. Poi senza pietà ci scaglia nel più crudo e disperato “nichilismo dei lumi”, nel “meccanicismo medico” più spietato, legato a ferree dinamiche di causa/effetto. 

A tratti, da fan del cinema, ci pare di percorrere i territori horror del Black Sheep di Jonathan King o del Lamb di Valdimar Johannsson. Nell’infinito e elegante balletto di macellazione dei primi capitoli sembra di stare a guardare Il gusto delle cose di Tran Anh Hung. 

Più passiamo il tempo su queste pagine, più acquisiamo una visione diversa del testo. Qualcosa che lo avvicina al pirandelliano L’uomo dal fiore in bocca

Il “padre” è quasi sempre un personaggio silenzioso, a tratti indecifrabile. Un uomo osservato e raccontato, con molto affetto ma anche quasi con timore, da un figlio che lo vede perennemente “grande”, “forte e invincibile”, “eroico anche nel dolore”. Quasi  fosse per il nostro narratore un modello tristemente irraggiungibile. 

Il padre forse potrebbe “salvarsi da solo”, e forse questa sua metamorfosi lo ha già reso qualcosa di ancora più grande e affascinante. Ma il figlio in caso contrario non sarebbe certo in grado di salvarlo, sembra dirci con dolore fra le righe. 

Allora, dopo un incipit fatto di sangue, interiora, fuoco e carne pulsante, in cui è il padre è solo lui il protagonista epico sulla scena, iniziamo a sentire tra le pagine il freddo, l’inadeguatezza del figlio. Il nuovo protagonista, anti-eroe controvoglia, della vicenda. Una piccola vicenda banale rispetto alla lotta/fusione del padre con l’agnello. Un eroe inadeguato davanti alla magia di un Minotauro. Un “narratore in disparte” che quasi non sa raccontarsi, dopo aver dimostrato benissimo di saper raccontare con gioia e tantissima attenzione suo padre . Sentiamo davvero nel figlio “l’inverno che avanza”. Lo svanire del mito dell’invincibilità paterna pesa più a lui che al genitore, che ormai viaggia in un altro livello di conoscenza del senso della vita. 

Il figlio si aggrappa alla debolissima speranza di sbagliarsi, non cadere nella depressione, provando a essere simile al padre. Ma non è facile. Nella disperata ricerca di un senso più profondo delle cose, solo immagini sfuggenti. 

Invernale si legge veloce. Le pagine sono scritte anche in grande, basta un pomeriggio. Poche pagine e che sanno però scavare dentro il lettore, anche a tratti facendolo incazzare, costringendolo a maneggiare uno dei sentimenti più difficili da apprezzare nella immedesimazione in un racconto: il senso di impotenza. 

La forma è colorata di epica, a tratti persino di horror, ma l’intreccio rimane fortemente innaffiato dalla tragica e brutale realtà. Una realtà, titanica quanto avvilente, che viene condivisa ogni giorno dalle persone e i parenti che sono costrette dalla sorte a entrare e uscire da un ospedale, sentire medici, sperando come respirando. Ogni tanto “l’inverno” arriva prima per qualche persone e anche solo la possibilità di avvicinarsi a questa umana tragedia può a molti risultare insopportabile. 

Anche per questo il libro di Voltolini è duro, qualcuno di abbastanza superficiale direbbe “banalmente duro”. Se non fosse per la straordinaria forma con cui il nostro autore sa avvolgere ogni parola, donandole la possibilità di volare in aria, leggera come i sogni e l’epica. Un’illusione di forma, come un ricchissimo affresco gotico nascosto in un monolocale in periferia. Un’illusione  amara, qualche volte dolce, ma che per me è comunque interessante leggere. 

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