Roma, periodo del Lockdown.
Una telefonata in piena notte trattiene sveglia, da un sonno impossibile e poi molto ricercato con delle pastiglie, la giovane interprete Irene (Barbara Ronchi). È Pietro (Claudio Santamaria), il suo ex che vive a Ginevra e non vede da sei mesi. Sembra confuso. Le dice che voleva solo sentire la sua voce e che ormai, per ogni altra cosa, “è troppo tardi”.
Le ricorda di quando hanno guardato l’alba insieme l’ultima volta, sul tetto della casa sul mare a Santa Marinella, in estate. Dai rumori di mattonelle smosse in sottofondo alla telefonata, Pietro sembra trovarsi proprio su un tetto, camminando quasi nel vuoto, con l’intenzione di gettarsi da un momento all’altro a fine chiamata.
La donna è preoccupata, ma sa che finché resterà in linea con Pietro, forse lui non potrà gettarsi. Se proverà a raggiungerlo, lui minaccia di ammazzarsi prima.
Irene lo intrattiene mentre con un altro cellulare prova a chiamare di nascosto il suo vicino di casa di Ginevra, che dice di non vederlo da giorni. Immagina allora che Pietro sia proprio a Santa Marinella, a un’ora di macchina.
Prende l’auto e parte, di impulso. C’è poca benzina, il caricabatterie è rotto e il cellulare non ha molta autonomia. La donna non dispone di alcuna autocertificazione Covid o documento in caso la fermi la polizia, ha solo una carta di credito, zero contanti per una pompa di benzina automatica di vecchio modello, che prende solo pezzi da 20.
Farà il possibile per farsi bastare tutto, ingegnarsi e nel contempo, un po’ camuffando i suoni e rumori del viaggio, proverà a trattenere al telefono Pietro, tranquillizzandolo del fatto che quella notte rimarrà a casa, alla cornetta, solo per ascoltarlo.
Il ricordo di una vacanza in Spagna in cui Pietro ha preso troppo sole, il vestito che lei indossava nel loro primo incontro galante, le foto dei concerti insieme. Piccoli mattoncini di felicità che Irene, tra un problema logistico e l’altro, richiama all’attenzione del suo ex, pur di non perderlo.
Pietro vuole invece affrontare i lati bui del loro rapporto, a partire dal giorno in cui si sono lasciati in modo burrascoso e “per colpa sua”. Vuole parlare dell’incidente terribile che prima di quel giorno ha cambiato tutte le cose. Vuole raccontarle della insostenibile lama che lo trafigge ogni giorno, facendogli desiderare di gettarsi dal balcone almeno ogni dodici ore. Contate ossessivamente, ogni volta.
Le distanze si assottigliano ma gli animi sono del tutto lontani. Tutti gli imprevisti legati a quella partenza improvvisa e sfortunata si palesano uno dopo l’altro, trasformano il viaggio in una specie di corsa ad ostacoli, a tratti sadica e disperata, a tratti eroica.
Riuscirà Irene ad arrivare in tempo?
Torna alla regia Manfredi Lucibello per un film che scrive insieme a Jacopo Del Giudice.
Un piccolo ma interessante road movie, notturno e serrato, di 90 minuti, prodotto da Rai Cinema e portato in sala da I Wonder. Protagonista assoluta sulla scena la brava Barbara Ronchi, che vediamo per lo più alla guida della sua auto con un occhio alla strada e uno fisso sugli indicatori di benzina, carica del cellulare, distanza da percorrere sul navigatore. Concentrata come in un action hero anni '80 sul tragitto e i suoi possibili contrattempi, quanto “maternamente” intenta nel tenere viva la voce sconnessa, ossessiva e a volte petulante di Pietro, interpretato da un convincente quando a volte assillante Claudio Santamaria.
Insieme, cercheranno di non giungere al tragico epilogo palesato fin dalla primissima scena, percorrendo una storia intima e quasi psicanalitica, a tratti simbolica e a volte pure felicemente declinata in più sequenze dall’animo action (che possono ricordare l’action Cellular con Statham).
Non riattaccare ci parla attraverso i due protagonisti del loro reciproco e implacabile “rimorso”, che cercano di intervallare saltuariamente con una debole, quasi latente, speranza di rimettere tutte le cose a posto. Il tono del linguaggio all’inizio appare volutamente concitato, criptico e irrisolto nella narrazione: si cerca di dare voce alle pulsioni più che a personaggi, si danno voce alle azioni prima che alle intenzioni. Ma con il tempo, anche grazie a un felice slalom tra situazioni di tensione e pericolo, semplici quanto ben strutturate, avviene un lento ripristinarsi della comunicazione: dall’action passiamo alla anamnesi di una storia d’amore attraverso ricordi, foto condivise su whatsapp, necessari e non procrastinati momenti di autocritica, segni di reale vicinanza emotiva.
Il rapporto pur precario tra i due ricomincia a fiorire, in un non-paesaggio reso ancora più magico e alieno dalla fotografia di Emilio Maria Costa. Tra le luci artificiali a bordo carreggiata, all’ombra di un cruscotto illuminato di blu, la coppia in qualche modo (soprav)vive, legata al cordone ombelicale telefonico. Le strade sono deserte e sinistre come nel periodo covid. Ai margini del tracciato, uomini e animali estranei sporadici appaiono sempre fuori posto, quasi metafisici, a volte sinistri come a volte benigni.
Pur se la produzione risulta di stampo televisivo, per la tecnica da presa, la grande atmosfera, le musiche curate da Motta e il montaggio, il film riesce bene a tenerci incollati alla vicenda.
Questo nonostante per la maggior parte del tempo ci troviamo, di fatto, in un’auto guidata dalla Ronchi nel cuore della notte. Grazie a una pregevole direzione artistica, la strada con le sue luci, gallerie, curve e autogrill, riesce a espandersi e dilatarsi, rotolandosi e ribaltandosi su se stessa. A volte può contrarsi o restringersi come momentanei balzi di umore legati alla emotività dei protagonisti. A volte diventa qualcosa di quasi organico, di vivo e pulsante, che invece riesce a dialogare proficuamente con loro, come il famoso filo rosso dì Kieslowski che “unisce le persone innamorate”.
Liberamente tratta da un libro di Alessandra Montrucchio, pubblicato da Marsilio editore, la pellicola di Lucibello riesce a tradurre bene il racconto con il linguaggio cinematografico, costruendo con grande mestiere un'atmosfera unica e avvolgente. Tra i produttori risultano i Manetti Bros e in effetti in più momenti di Non riattaccare ci sembra di ritrovarci nel ristretto e claustrofobico, semplice e “brutale”, quanto narrativamente accogliente, ascensore di Piano 17.
Non riattaccare è un piccolo film di 90 minuti, che racconta con gusto una storia semplice ma accattivante, avvalendosi di bravi attori e tecnici e di un ritmo che non perde un colpo dall’inizio alla fine. È il film perfetto per una seconda serata malinconica e solitaria, particolarmente consigliato a un pubblico amante delle trasposizioni Rai dei gialli Sellerio. Ci aspettiamo per Lucibello un futuro non lontano dagli eroi dei gialli di Manzini e Camilleri, ma siamo sicuri che se saprà assecondare la sua “anima notturna”, qui molto presente, potrà andare anche più lontano.
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Non sono riuscito a vederlo ma dalla trama mi pare molto simile a "Locke", il film con Tom Hardy. Confermi?
RispondiEliminaPuò ricordare in effetti Locke (che è moooolto bello), come The Cellular, per certi aspetti anche Il talento del calabrone. Possiamo parlare quasi di un genere a se, che si presta a infinite iterazioni. Ricorda anche “Il colpevole”, di Gustav Moller.
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