martedì 19 marzo 2024

Chi segna vince (Next goal wins): la nostra recensione della divertente commedia sportiva di Taika Waititi con protagonisti Michael Fassbender e dei simpatici samoani

Isole Samoa Americane. 

Un autentico paradiso naturale, ottima cucina, meravigliose tradizioni popolari locali, persone cordiali, generose e buffe a ogni dove. Un luogo da sogno, ma in cui si gioca a calcio malissimo. 

I peggiori al mondo. 

Dopo una partita particolarmente umiliante i pochi giocatori seri/professionisti si sono dileguati, lasciando il posto a improvvisati bonaccioni da “dopo lavoro” che non hanno la minima cognizione di come funzioni il gioco, amano per lo più pascolare per il campo, si scambiamo il cinque gioiosi ogni minuto con il sentiment:  “è bello stare insieme su un campo verde, senza che il senso di competizione rovini la nostra gioia interiore” . 

Ormai ogni partita finisce con un punteggio tennistico, Il presidente pro tempore della associazione Tavida (Oscar Kightley), saltuariamente ristoratore nonché unico cameraman dell'unica televisione locale samoana, sta arrivando alla disperazione. Specie da quando, in seguito all’ennesima partita persa, ha perso pure una importante “scommessa di onore”. Gli hanno per penitenza disegnato, sulla faccia e sulla pelata, con il pennarello indelebile, un gran numero di tette (umorismo samoano). Tavida sognava che almeno la squadra riuscisse a segnare un gol, un solo dannato gol. Per un colpo di fortuna o di disperazione, almeno quel piccolo miracolo. Ma non è arrivato, con i suoi samoani in campo che sembrava non sentissero per nulla l’esigenza di vincere e si accontentassero dell’abbagliante splendore infantile del giocare insieme felici a palla. 

La situazione era stagnante e le tette disegnate sulla faccia pesavano, specie fin pubblico.


L’allenatore Ace (David Fane), che dormiva a casa di Tavida senza riuscire a combinare qualcosa di più emozionante nella sua vita, non riusciva a farsi rispettare e la compagine, pur guidata dalla trascinante “fa’afatine” Jaiyah (la bravissima attrice non binaria Kaimana), nel tempo libero cameriera del locale di Tavida, non era ancora riuscita a giocare insieme come una squadra.  

Serviva una spinta esterna, qualcuno che vedesse il calcio non come gioco amichevole tra amici ma come cloaca composta da sfida fratricida, frustrazione bestiale, odio esistenziale, rancore agonistico e rabbia profonda. 

Così viene chiamato a Samoa il celebre Thomas Rongen (Michael Fassbender): un allenatore americano che quando una squadra gioca male e poi perde si incazza come una iena. Thomas lancia sedie in campo e contro i giocatori, urla fino a farsi buttare fuori dagli arbitri, fa piangere con gli insulti chiunque ha intorno a sé e ha una voglia maledetta di vincere. 

L’uomo ideale, anche se un po’ cinico.

Per i pacifici samoani sarebbe una specie di terapia d’urto e guarda caso Thomas è “disponibile”. La federazione sotto la guida di Alex Magnussen (Will Arnett), capo carismatico nonché da poco compagno della ex moglie di Thomas, Gail (Elisabeth Moss), cosa che lo ha reso ulteriormente incazzatissimo, ha deciso di mettere il rissoso allenatore “in pausa”. Fuori dai grandi giochi dei grandi team per un po’: per riprendersi e rigenerarsi dopo un periodo piuttosto brutto, farsi una nuotata, stare un po’ immerso tra le palme e il mare, mangiare cibi sani.

Più che un esilio una vacanza, nelle intenzioni. 

La federazione è stata felicissima di regalarlo alle Samoa Americane ma l’adattamento alla nuova squadra al nuovo coach necessita di alcuni accorgimenti. Starà al presidente e a Jaiyah portare Thomas dalla loro parte, facendogli sbollire l’istantanea incazzatura che l’incazzato allenatore sentirà all’istante di provare nei confronti dei suoi nuovi giocatori della domenica. Un po’ con la filosofia e la ricca tradizione folkloristica samoana, un po’ con “momenti motivazioni”, tragicomici e molto Disneyani, volti ad ammorbidirlo, l’impresa pare subito abbastanza ardua.

Se nel progetto ci crederà Thomas, ci crederà forse anche la squadra. 

E forse pure alcune vecchie glorie del passato calcistico samoano potrebbero appendere la depressione al chiodo e tornare in campo da titolari.


Il geniale e irriverente Taika Waititi ci porta in campo con il più classico film per famiglie Disney “a tema sportivo”.  

I temi sono noti: si parla certo di agonismo e della relativa malattia, ma si enfatizza subito sul gioco di squadra che si oppone all’individualismo. La storia evolve sul saper andare gioiosamente oltre i propri limiti per sentirsi più forti “con se stessi”, prima che “vincenti”. Si aggiunge alla forma un po’ di assurdo e di sogno impossibile, si shakera con la figura di un allenatore che è sempre in bilico tra la figura paterna e il professore pignolo della scuola superiore. Si sprizzano sopra i buoni sentimenti, le relazioni dentro e fuori dal campo, magari l’ispirazione da “una storia vera”: la ricetta è fatta.

 Un po’ Cool Runnings e un po’ Miracle

Un po’ buffo e un po’ malinconico, il nuovo film dell’autore neozelandese è intriso dei temi più classici, ma appena può vira sullo scorrettissimo humor alla Monty Python amatssimo da Waititi, quando sulle meravigliose stilettate drammatiche che sono da sempre un suo personalissimo marchio di fabbrica. 

Il regista di Jojo Rabbit sa farci ridere in tutti i modi. 

Dalla risatina più gioiosamente e candidamente infantile delle gag fisiche, alla risata più liberatoria e demenziale offerta dell’immagine assurda e dal personaggio più surreale. Dal sorriso strutturato che sale quando si gioca con la nostra intelligenza, fino alle risate satiriche e sarcastiche, quelle “cattive”, con cui ci sfoghiamo delle miserie sociologiche, politiche e fisiche di tutto il genere umano. È un dono saper far ridere con tante sfumature, che spesso al giorno d’oggi pure confonde, perché non siamo più abituati ai Monty Python, agli Zucker, Mel Brooks o Leslie Nielsen. 

Waititi costruisce una trama comica a orologeria proprio partendo dal modello Disney “su commissione” e ribaltandolo, non prendendo mai sul serio l’estetica patinata del momento sportivo, mettendo alla berlina gli stereotipi epico/narrativi “hollywoodiani” classici come “l’ex campione redento”, “l’allenatore che riscopre la passione”, sottolineando che sono solo illusioni prefabbricate a basso costo e sforzo. 

Ma fa un abbondante e scorrettissimo uso del Black Humor, anche in un paio di scene in cui questo uso sembra proprio “tanto cinico”, quasi del tutto fuori dal “contesto”. È un aspetto così spericolato e coraggioso che in sala può dividere il pubblico: un pubblico che magari si domanderà specificamente sul valore di due scene quasi “a specchio” . 

C’è una prima scena, che riguarda un incidente d’auto. Si parla poi, più avanti nel film, di una situazione analoga. La prima volta quei fatti sono percepito come buffi, perché Waititi usa un registro spiccatamente comico/demenziale. La seconda è decisamente drammatica, ma è veramente lo stesso accadimento, con la differenza che i fatti riguardino personaggi principali e non di contorno.

Waititi gioca qui sul senso stesso del “ridere delle disgrazie altrui”, facendoci riflettere su come la situazione emotiva dello spettatore stesso muti, pure in prospettiva di “senso di colpa”, una volta acquisito un differente punto di vista, pur nella consapevolezza che i registri narrativi utilizzati, prima comico e poi drammatico, sono differenti. 

È roba da studiare. 


È un bel Trigger, anche perché quando con decisione quel giocherellone di Waititi vira sul drammatico “sul serio” sa mandarci in pezzi, solo come lui sa fare.  

Magari svelandovi di colpo quanto possano essere “profondi” i sentimenti che albergano negli stessi personaggi che fino a un secondo prima ci sono risultati  buffi, protagonisti di siparietti stile “gara di rutti”. 

Waititi parte leggero e poi colpisce bassissimo, in modo del tutto inaspettato, spesso al cuore, anche perché ha per le mani degli attori molto bravi quanto duttili, in grado di cambiare in un istante tutta la gamma delle loro emozioni. 

Si parla quindi di calcio, di gioco di squadra, di orgoglio e redenzione, peraltro sulla base di una storia ancora una volta vera, autentica (che ha ispirato tutto il progetto e nei titoli di coda mette a fianco le foto dei personaggi quanto le persone reali di questa storia). Si parla di sport ma anche di integrazione gender, in modo per niente scontato o superficiale, perché è vera anche la storia della giocatrice in transizione Jaiyah. Interpretata dalla meravigliosa Kaimana con tanta sensibilità, orgoglio e spirito positivo, Jaiyah al contempo riesce a far emergere la gioia e l’impegno ma anche tutti i tormenti e le difficoltà di una vita complessa quanto autentica, vissuta anche contrastando l’odio. 

Come autentica e tragica è la storia dell’allenatore, interpretato da Fassbender, che anche noi “viviamo” narrativamente dal “suo lato positivo”, quello con cui lui cerca con un particolare “rituale” di sopravvivere a un momento umano e professionale molto difficile. 

Poi ci si diverte, tantissimo e in modo surreale. Tutta l’isola samoana sembra trasformarsi in un parco giochi per sempre nuove gag, a cui partecipa anche Waititi stesso ritagliandosi un ruolo di guida religiosa di una comunità sopra le righe ma anche calorosa e simpaticissima. 

Il campo da calcio diventa un luogo sempre più astratto per questi strani personaggi alteti/non professionisti, quasi una zona bimbi di un centro commerciale, almeno fino a che non cambia la prospettiva di squadra, arriva il campionato e tutto un po’ si “normalizza”. Ma il viaggio è stato folle fino ad allora e rimane il pezzo forte dell'esperienza.

Il nuovo film di Taika Waititi, produttivamente sfortunato e non sempre capito dalle critiche, è il classico prodotto della generosa sovrabbondanza comica dell’autore neozelandese. In questo caso Waititi si è preso forse dei rischi in più, facendo ragionare troppo il pubblico sul “valore di una risata” e sul momento inaspettato in cui la commedia si trasforma in tragedia. Non la sua prova più centrata, in effetti, anche se sempre molto divertente e mai banale. 

Ma “avercene” di registi in grado di stimolare un tale caos emotivo sulla base di un progetto semplice e lineare, quasi “istituzionale” come questo.

Bravi tutti gli interpreti, colorata e gioiosa la fotografia, calde e avvolgenti scenografie spesso da cartolina, dalle ottime tempiste comiche il montaggio. 

Waititi continua a farci ridere e piangere in un prodotto mainstream. È come sempre un regalo. 

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