Francis Underwood (Kevin Spacey) e la moglie Claire (Robin Wright) sono una coppia di bastardi, spietati, mostri alla continua ricerca di potere nella Washington dei giorni nostri. Lui è un politico manipolatore e vanesio. Lei un'imprenditrice ossessionata dall'apparenza e insensibile alle miserie umane. Insieme vivono nella loro squallida villona di svariati milioni, anche se di fatto si frequentano per pochi secondi al giorno, tanto sono presi nel loro lavoro, intessere innumerevoli ragnatele nelle quali far cadere delle prede.
Poi un giorno arriva al piccolo Francis un potente schiaffo in piena faccia. Nonostante sia l'uomo di punta del nuovo presidente neo eletto, gli hanno fatto le scarpe e hanno preferito a lui un altro pavone per l'incarico di segretario. Ma il nostro non ne ha a male. Questa è solo una ghiotta occasione per mettersi a giocare a scacchi contro i vecchi amici per dimostrare chi è ancora il più potente. Le sue armi sono affilate e letali. Le pedine di cui muove i fili, una giornalista malata di arrivismo (Kate Mara), un politico suddito per vocazione (Corey Stoll) e un'intera corte al suo servizio sono pronti a compiere, volontariamente o meno, tutti i suoi più torbidi intrighi. Perchè in fondo la Casa Bianca non è nulla di più che un instabile castello di carte e Francis è l'uomo giusto.
Dovrebbe solo dedicare un po' di tempo extra a tonicizzare la pancia con il suo nuovo vogatore.
David Fincher e Beau Williman producono una delle nuove serie di culto della ABC, lo show imperdibile sui giochi di potere che ha come spettatore nientemeno che il presidente Obama ed è guardato con molto interesse perfino dai nostri politici.
Basato sul libro Best Seller che oggi ho molta voglia di recuperare, House of cards è pungente, spietato, ironico e appassionante. Splendidamente recitato, splendidamente diretto, accompagnato da uno score martellante e da una messa in scena sontuosa, fatta di inquadrature estatiche e fotografia esautorata, metallica, non distante dalle atmosfere con cui Fincher ha riletto il capolavoro di Larsson, Uomini che odiano le donne. Il grande regista dà ampio spazio a Kate Mara (sorella di Rooney, la Lisbeth cinematografica). Il cuore emotivo dell'opera, forse l'unico personaggio ancora ammantato di un'umbra di purezza. Non per questo meno sgamata, scaltra, pronta a sfruttare le debolezze umane al punto da mettere nel sacco anche le prede più improbabili. Il suo personaggio compie nel primo arco narrativo una autentica scalata verso l'alto, priva però apparentemente di paracadute. Se fossimo in un romanzo di vampiri, e non siamo poi così lontani come potremmo pensarlo, lei sarebbe la damigella indifesa che morsa dal vampiro diventa sua succube. Anche se in questa storia la damigella deve ricorrere a un push-up per attirare a sé un signore oscuro, la trama in fondo non può che ripetersi. Il potere inebria e corrompe, al punto che dei buoni propositi rimane infine davvero poco.
Perché, bisogna ribadirlo, non ci sono che squali in questa serie. persone pronte ad aggredire la preda fino a spolparla, renderla inoffensiva, semi-morta. Una preda che è così inconsapevole e manipolata che prima di esalare l'ultimo respiro non potrà che ringraziare il proprio carnefice. Un terreno favorevole per la bellissima, algida e regale Robin Wright. Sempre impeccabile, persino in pigiama, persino con una tuta invernale da jogging con sex appeal apparentemente annullato. Potente come una divinità greca agli occhi delle ignare formichine che lavorano per lei, il suo personaggio, rincuora nelle situazioni difficili, infonde coraggio ma allo stesso tempo non si fa scrupoli nell'uccidere i suoi sudditi e le loro piccole esistenze. Mandare alla mensa dei poveri o a sgomitare alle casse di McDonald's impiegate quasi sessantenni con famiglie a carico non è un problema, non intacca il fascino di parole come "progresso" e "cambiamento" cui ha dedicato la sua esistenza. Il suo personaggio non è però crudele, è più alieno, meta-umano. Il male che commette forse non è accompagnato da una effettiva consapevolezza. Quanto forse solo dall'esigenza di eliminare dalla sua vita qualcosa che stoni rispetto al suo abitino Armani.
Da sempre fare i "cattivi" è un vero spasso per gli attori. In House of cards, Kevin Spacey si diverte un mondo, come non mai. Come un attore Shakespeariano (e come Deadpool, ma citare qui Deadpool mi faceva brutto...), Spacey abbatte sovente la quarta parete, dialogando direttamente con gli spettatori. Come Pluk o un novello Riccardo III, il suo Francis si fa beffe dei nemici, ci anticipa le loro mosse e ci strizza l'occhio quando accade esattamente quello che aveva previsto. Un gioco infinito che per contrappasso ci fa tornare alla memoria un'altra interpretazione di Spacey, il suo sfigato perdente protagonista di American Beauty. Anche lui parlava con noi, spezzava la quarta parete, ma il suo top della giornata era farsi una sega sotto la doccia mattutina in attesa di andare a girare hamburger. Francis ha decisamente fatto i compiti. Ha sicuramente anche lui problemi con il gentil sesso, ma nessuno è perfetto.
Me la sono davvero goduta questa serie.
Ne avevo sentito parlare molto e bene ma non avendo la pay non mi ci ero ancora imbattuto direttamente. So ora di aver fatto male, perché sono già in spasmodica attesa delle nuove puntate. 13 puntate a stagione infatti sono davvero pochine e mentre la seconda stagione è già finita in Usa e si parla di terza, la prima esce incredibilmente alla fine di questo settembre. Per lo meno a un prezzo davvero contenuto, concorrenziale. Una ventina di euro e poco più e vi portate a casa un bel mini cofanetto dei sogni.
Spacey mi è piaciuto tantissimo. Si divora da solo la scena. Un vero monarca cattivo di altri tempi. La Wright è una perfetta regina nera e vendicativa. Mancano dei buoni. La Mara non mi sembra per ora una pretendente al trono e Stoll non ancora motivato. Ma c'è tutto per il dramma. E per scenografia una Roma moderna, che sia appoggia alle sue statute di influenza romana per compensare i suoi bassissimi palazzi. Se mi dicessero che questa è la trasposizione di un'opera di Seneca sull'impero romano ci crederei, perchè l'impostazione è molto teatrale, epica, potente, universale. Come lo è la banalità del male e il suo indubbio fascino.
Consigliato.
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