domenica 23 febbraio 2025

Paddington in Perù: la nostra recensione del film di Douglas Wilson, che continua le avventure dell’orsetto amante dei sandwich alla marmellata d’arance, creato da Michael Bond

 


Paddington (con la voce in originale di Ben Whishaw e voce italiana di Francesco Mandelli) è un adorabile orsetto, che indossa sempre un montgomery azzurro ed un cappello rosso, nato e cresciuto in Perù, che vive a Londra con la sua famiglia di umani, i Brown. Paddington, infatti, è stato adottato dai Brown dopo che zia Lucy (con in originale la voce di Imelda Staunton, in italiano di Graziella Polesinanti) l’aveva spedito a Londra dal Perù, ritirandosi nella casa di riposo per orsi. Zia Lucy ed il nostro orsetto però sono sempre in contatto e si scrivono per tenersi aggiornati.

Papà Brown (Hugh Bonneville) sta passando una sorta di crisi sul lavoro: lui, così ligio a regole ed assicurazioni, si trova a collaborare con un nuovo capo che guida l’ufficio al grido di “prendere il rischio”. Mamma Brown (Emily Mortimer, che qui riprende il ruolo nei precedenti film di Sally Hawkins) è triste. Vede ormai cresciuti i suoi bambini: la figlia Judy (Madeleine Harris), che sceglie una università lontano da casa, il figlio Jonathan (Samuel Joslin) ormai auto confinatosi nella sua camera, tra le sue invenzioni e i videogames.

Ma ecco giungere un grande cambiamento per il nostro orsetto. Nello stesso giorno diventa un cittadino inglese grazie alla consegna ufficiale del passaporto (e ad un ombrello da vero lord inglese, dono dei vicini di quartiere) e riceve una lettera dal Perù: non da zia Lucy, ma dalla madre superiora (una Olivia Colman strepitosa) della casa di riposo per orsi. La richiesta è quella di recarsi in Perù per far visita all’anziana zia.

Quale migliore occasione per sfruttare il passaporto nuovo se non un viaggio in famiglia?

Ecco, quindi, che l’intero clan dei Brown si sposta in Perù!!

Ma c’è un colpo di scena! Appena arrivano alla casa di riposo scoprono che zia Lucy è sparita… e allora partono tutti all’avventura per ritrovare l’amata zia orsa! 

Con l’aiuto dell’affascinante ma un po’ squinternato capitano di battello Hunter Cabot (Antonio Banderas), che vive perennemente “perseguitato dai suoi avi” (interpretati tutti sempre da Antonio Banderas), e con il supporto della sua giudiziosa figlia Gina (Carla Tous), Paddington e i Brown inanelleranno una serie di avventure una più stramba dell’altra…

 


Torna al cinema l’orsetto Paddington, nato dalla penna di Michael Bond, in una pellicola che vede il debutto alla regia del Douglas Wilson, che fu nominato ai Grammy Awards nel 2009 per il video del Coldplay “Live in technicolor II”, un piccolo gioiellino che se amate la bella musica e l’atmosfera colorata e “super positiva” di Paddington dovete assolutamente recuperare.

La sceneggiatura è opera di Mark Burton (Shaun vita da pecora, Wallace & Gromit), Jon Foster e James Lamont (autore del corto Paddington incontra la Regina, uscito per il giubileo di diamante della Regina Elisabetta), mentre al soggetto hanno lavorato Burton, Simon Farnaby (Wonka, del 2023) e il regista e sceneggiatore dei primi due film Paul King (nonché regista di Wonka).

Al già amatissimo cast degli interpreti originali si aggiungono Antonio Banderas (già “avventuriero” in un film per i più piccoli con il suo Barba-Burger in Spongebob - Fuori dall’acqua) e Olivia Colman (la regina ne La Favorita di Lanthimos).

Gli effetti speciali che danno vita all’orsetto e tutta la sua tenerezza sono ancora una volta curati dalla rinomata Framestore, con sede a Londra, in Chancery Lane, che ha lavorato anche ad Avatar, i film di Harry Potter e Animali Fantastici.

Le musiche sono di nuovo firmate dal compositore pisano Dario Marianelli, che ha lavorato anche alle colonne sonore dei film animati in stop motion prodotti dalla Laika e al Pinocchio di Garrone.

Il direttore della fotografia è ancora l’ottimo Erik Wilson, che abbiamo visto di recente illuminare, in modo “raggiante”, una Londra che, se vogliamo, è vicina a quella di Paddington: nel fanta-biografico Better Man di Michael Gracey, sulla vita di Robbie Williams.

Paddington in Perù è un godibilissimo film adatto a tutta la famiglia. Non conosco persona al mondo che non adori l’orsetto Paddington, i suoi sandwich con la marmellata di arance, il suo cappottino azzurro o il suo cappello rosso. Diversamente dai precedenti due film, questo terzo capitolo vede la città di Londra protagonista solo per breve tempo, in quanto l’avventura è ambientata in un magico e coloratissimo Perù, terra natia del nostro orsetto. Un luogo “magico e misterioso” che rende il film più simile a Jungle cruise o Jumanji (Ad un certo punto ci son quasi rimasta male che non sia saltato fuori The Rock…). Tutto “torna alla normalità” quando invece le scene sono ambientate a casa, incluso un tenerissimo omaggio alla Regina Elisabetta che compare in foto, proprio nel giorno del suo giubileo di diamante in compagnia di Paddington mentre prendono assieme il tè delle cinque.

Gli effetti speciali, opera di Framestore, risultano molto belli: gli orsi appaiono ben integrati nelle scene e le scenografie sono sempre dinamiche e coloratissime. Bravissimo tutto il cast (un unico cambiamento rispetto ai precedenti, mamma Brown qui impersonata da Emily Mortimer).

Le nuove avventure di Paddington riescono bene a raccontare a un pubblico molto giovane il tema della necessità, volenti o nolenti, di “lasciare il nido”. Un nido e “un’origine” a cui nell’arco di una vita intera spesso cerchiamo di tornare con la memoria, i ricordi o i “fantasmi”, come quelli che inseguono qui il povero Banderas. A volte questo nido “ci chiama”, al punto da farci mettere in viaggio, come fanno i Brown insieme a Paddington, verso un Perù che è sì un posto pieno di avventure, alla ricerca della zia (e forse anche di un tesoro…), ma che per il nostro orsetto rappresenta anche qualcosa di più profondo. Delle “radici nuove da scoprire”: se vogliamo una appartenenza culturale in cui “riconoscersi” come frammento importante della propria identità. Così il viaggio divertente e avventuroso di Paddington in Perù non è per molti versi dissimile dal viaggio che spesso fanno i ragazzi adottati, accompagnati dalle loro nuove famiglie, nella propria terra d’origine. In cerca di “tratti somatici”, sapori, toni di voce e modi di fare in cui “misteriosamente” riescono a specchiarsi. Un “viaggio” che gli autori sanno raccontare attraverso i personaggi e il racconto a una platea di tutte le età, in modo caloroso, sensibile e non banale, anche per merito di attori molto bravi.

Un paio d’ore di pura felicità, divertimento (Banderas e Colman su tutti) e pace col mondo.

Questo è l’effetto stupefacente che Paddington fa alle persone. La voce di Paddington ci conferma di quanto sia bravo Francesco Mandelli a sussurrare con calma ogni parola, come solo i gentiluomini sanno fare. 

B-Gis

sabato 22 febbraio 2025

September 5: la nostra recensione del film di Tim Fehlbaum che ricostruisce, dal punto di vista dei reporter televisivi della ABC, le ore concitate del massacro al villaggio olimpico avvenuto a Monaco nel 1972

Monaco, 1972: le prime Olimpiadi trasmesse in diretta grazie al sistema satellitare. 

Per qualcuno dei più ricchi telespettatori “anche a colori”. 

Per i giornalisti e i tecnici della ABC una discreta sfacchinata, con un fuso orario infausto che li costringe a lavorare in piena notte, in uno studio-bunker soffocante illuminato solo con gli schermi tv, a pochi passi da un villaggio olimpico che la maggior parte di loro vedrà solo da un obiettivo.

Il regista Geoffrey Mason (John Magaro) arriva ancora assonnato mentre in Germania già albeggia, un po’ scazzato e un po’ bevuto. Aspetta il pugilato e il volley femminile con poca passione, insieme al già programmato special sulla Shoah che ricorda come quelle Olimpiadi si tengano a 15 km dal campo di concentramento di Dacau. I tedeschi sono intenzionati a evitare ogni possibile brutto ricordo del passato, al punto che le guardie del villaggio olimpico sono sprovviste di armi. Il clima è tutto pacificamente sonnacchioso e amichevole, il primo obiettivo cercare per lo meno di far fronte ai Black-out in cui sempre più spesso incorre lo studio, per colpa di cavi elettrici non in ottimo stato, in sovraccarico o rotti. L’assistente di produzione Marianne (Leonie Benesch) è come il regista al suo primo grande incarico, ma per lo meno lei parla tedesco ed è quasi l’unica a farlo lì per la ABC. Il produttore Marvin (Ben Chaplin) intima di non svegliarlo fino alle dieci del mattino, le “dieci vere”. Tutti sonnecchiano. Poi il tecnico francese dei cavi sente degli spari. Qualcuno li scambia per fuochi d’artificio, ma gli spari proseguono e sembrano vicini, direttamene dal villaggio olimpico. La radio della polizia conferma che sono colpi d’arma da fuoco, anche degli atleti confermano lo stesso chiamando l’emittente. Alla fine, qualcuno, le pistole nel villaggio olimpico le deve aver portate. 

Bisogna contattare il reporter Jennings (Benjamin Walker) che con il suo cameraman e la mini macchina da presa è già da quelle parti per le interviste mattutine. Serve svegliare qualcuno prima delle 10.00, spostare quella enorme e pesante telecamera da studio di svariate tonnellate direttamene all’aperto, più vicina all’azione. Si può utilizzare da remoto la telecamera centrale generale che dall’alto, del centro della struttura olimpica, esplora ogni suo lato in senso orario e moto perpetuo. Bisogna sperare che il collegamento satellitare, condiviso con la CBS, non salti al momento più inopportuno: tipo per rubarsi la titolarità della diretta. 

Voci parlano di qualcuno che è fuggito e forse di qualcuno che è morto. Uomini armati non confermati: “guerriglieri” o “terroristi”, anche se la seconda parola non è stata approvata dal network in caso di utilizzo. 

Dal contatto via radio onde corte con il reporter c’è la conferma di immagini fresche, ma la polizia ha già messo un blocco e nessuno può accedere al villaggio olimpico, salvo gli atleti. Si traveste l’aitante tecnico di colore ABC Gary (Daniel Adeosun), che con una tuta e un finto tesserino di fortuna si può scambiare facilmente per un atleta americano: per mandarlo a superare il blocco, prendere dal reporter il girato e fornirgli altri rullini, che Gary nasconderà sul suo corpo come i Narcos che passano il confine con il Messico. Gary entra senza problemi e ritorna, inquadrato dalla telecamera a moto perpetuo tra gli applausi della ABC. Ha immagini incredibili, provenienti direttamente da una terrazza, dove un uomo mascherato sta trattenendo gli atleti israeliani. Dalla radio della polizia si parla di negoziati in corso, ultimatum con scadenza alle 12:00: il rilascio degli atleti del team israeliano in cambio di 200 combattenti palestinesi detenuti nelle carceri. Senza liberazione, seguirà una esecuzione allo scadere di ogni ora di ritardo. Il tutto sembra portare la firma del gruppo di Settembre Nero.  

Geoffrey capisce di colpo di essere l’uomo al comando dell’unica emittente in diretta a dare nel mondo quella notizia. Deve agire velocemente per coordinare tutti i reparti, dai tecnici agli inviati, la sala speaker, la  produzione, il team legale. Vuole rimanere in diretta, ma cosa potrebbe succedere, se i genitori di quegli atleti, magari da un nuovo tv a colori appena comprato, vedessero l’esecuzione dei loro figli in tv?  

Cosa potrebbe succedere, se gli stessi terroristi utilizzassero quella diretta, per magari scorgere i movimenti con cui la polizia sta cercando di circondarli: libererebbero gli ostaggi per paura o si coordinerebbero meglio per respingerli, magari sistemando meglio i cecchini? 

La polizia tedesca irrompe in studio e la diretta si interrompe, ma solo per poco. 

Si sventolano interessi nazionali e diritto di cronaca come distintivi in un film di gangster, con nessuno che parla la lingua della controparte perché l’unica interprete è stata mandata altrove per un contrattempo.

C’è tensione e tutto è sospeso, anche se alcuni eventi hanno già cominciato a muoversi e l’uomo che voleva svegliarsi alle 10:00 è già intervenuto. Si riparte.

Molti atleti rimasti ignari si stanno riposando sulla vicina baia, al sole. Ma qualcuno è già in allerta, qualcuno già ai microfoni per le “impressioni a caldo”.  L’azione è vicina, l’ultimatum rimandato di poche ore, i giornalisti determinati a tutto pur di documentare, anche a costo di mettere a repentaglio la loro vita personale, in una sorta di “ansia da scoop”. 

La piccola troupe della sezione sportiva della ABC vive sulla pelle quell’onda. Ma agire velocemente per lo scoop basterà per agire nel nome della verità?


Era il 1972, un‘era ancora senza internet. Poche telecamere per lo più pesantissime e piene di limiti nello spostamento, in mano solo a tecnici specializzati. Per comunicare veloce si usavano radio a onde corte o telefoni a gettoni, se si trovava una cabina telefonica o un bar nei paraggi. Per spostarsi su un territorio si faceva uso di una mappa pieghevole, in carta, da compare debitamente aggiornata non in tempo reale. 

Anche registrare e diffondere un filmato richiedeva lo sbobinamento dello stesso e questo implicava il trasporto della pellicola e  una procedura che poteva occupare diversi minuti di “copia e incolla”. 

Una “infografica” con nomi e date come quelle che oggi snocciolano in un attivo i telegiornali, che con tre click si fa su Instagram, si costruiva al volo e a mano in un vero e proprio “Art Attack!”:  con dei magneti al posto delle lettere, numeri e linee, con ritagli di giornale e foto che venivano “incollate o inchiodate” insieme, su uno sfondo nero che “scompariva”, per un gioco di specchi, dalla sovra-impressione di un obiettivo . 

September 5 è ultra-tecnico e ultra-dettagliato nel raccontarci il modo complesso quanto eroico con cui, con questi limiti tecnici, la ABC riuscì nel 1972 a trasmettere una diretta che ebbe più audience dell’Allunaggio del 1969. 

La ricostruzione storica è fedele in ogni minimo dettaglio, dagli abiti allo scenario, dagli strumenti dell’epoca alla ricostruzione delle stesse inquadrature arrivate da Monaco in quel giorno di settembre.

Una trasmissione sfidante, affidata per lo più a giornalisti sportivi e non a reporter di guerra, motivati quanto in parte impreparati. Con un esito complesso quanto purtroppo amato: anche in ragione di questioni etiche, umane quanto politiche. Tutti in trincea, a un passo da una verità che però potevano solo “intuire”. 

Con quei mezzi tecnici la Storia appariva per lo più solo “sfuocata”, macchinosamente “lontana”, spesso riferita “di seconda o terza mano”. 

Una realtà illusoria, sulla quale incombevano pure la censura tedesca e internazionale, un gergo “tecnico/militare” specifico, a volte un vero e proprio “filtro politico” per i singoli paesi.

September 5 ci mette direttamente nei panni di quei giornalisti, che cercano con i loro strumenti spuntati di cavalcare la notizia più grande del mondo, come l’equipaggio di Achab cercava di domare Moby Dick. Sputando gergo tecnico e insulti, invocando la fine di pause pubblicitarie troppo lunghe, maledicendo il satellite, scaraventandosi direttamente sul campo, magari su una jeep in pieno conflitto a fuoco o fingendosi atleti. Giornalisti si direbbe “nel pieno furore della professione”, che come soldati coordinati verso l’obiettivo finale ci ricordano per forza gli eroi della Civil War di Adam Wingard, probabilmente il film più bello degli ultimi anni sull’arte di “raccontare il presente”. 

Il montaggio veloce e “senza fiato”, che segue gli eventi rincorrendola tra gli schermi di una sala comandi, affollata e incazzata, ci riportano invece felicemente a una delle pellicole più belle e sottovalutate di De Palma, Snake Eyes - Omicidio in diretta, nel 1998. Ma anche all’altrettanto bello e sottovalutato Vantage Point di Pete Travis, del 2008. Pellicole-puzzle da “leggere e seguire” senza avere in mano tutti i pezzi visivi.


In tutta questa “concitazione e coordinazione”, quasi “militare”, il regista svizzero Tim Fehlbaum non si dimentica però mai di raccontarci il lato umano dei suoi personaggi. Lo fa in momenti di “pausa” in quanto “di lontananza involontaria” dall’azione: l’attesa di una conferma dall’estero, il momento per terminare la sbobinatura di una ripresa, un blackout. Sono momenti che vengono accolti a volte come boccate d’aria, ma che più spesso diventano fonti di tormento silenzioso, dubbi, perfino auto-critica. 

Sono frammenti temporali in cui tutti i nostri giornalisti in parte perdono “lo stato di ipnosi” che la stanza degli schermi esercita su di loro, mettendo a nudo il loro lato più profondo. Tornano per un attimo uomini e per questo fallibili, fragili, pure goffi. Personaggi “reali” e per lo più alieni da ogni tipo di retorica o trionfalismo, disincantati. Anche grazie al talento di bravissimi interpreti che sono stati in grado di mostrare al meglio anche questa “altra faccia” dei rispettivi personaggi, facendosi aiutare dai filmati d’epoca, le interviste e l’imponente materiale di archivio che la produzione ha messo a loro disposizione.   

La cosa interessante è che oggi, nella comunicazione via social, la maggior parte dei “tempi morti”, che esistono in questo film prevalentemente per via di tecnologia e burocrazia, di fatto non esistono più. Come forse è scomparsa parte di quella “pausa riflessiva” che questi tempi morti comportavano. Ma questa è forse solo una riflessione da boomer.

Sta di fatto che Monaco per uno strano scherzo del destino in questi giorni è tornata protagonista di un attentato, avvenuto a poche ore da un'importate conferenza sulla sicurezza internazionale. Anche in questo caso la gestione della storia avrà forse comportato una “gestione pubblica” come quella che Tim Fehlbaum ha puntualmente documentato in quella che a tutti gli effetti è una ricostruzione quando più fedele possibile degli eventi del 1972.

September 5 è un film bellissimo, dal montaggio rapido, pieno di ambientazioni  e temi claustrofobi e crudi, “difficili”. 

Ottimi gli interpreti, il montaggio veloce e una fotografia, scenografie e costumi molto accurate e rispettose del periodo storico rappresentato. 

Bella la scelta di un linguaggio e  messaggio diretti e senza fronzoli. Un modo di vedere le cose e il mondo “imparziale”, documentando con puntualità, ma anche pronti a dare delle smentite veloci in caso di errore, come immaginiamo dovrebbe essere il punto di vista del migliore giornalismo. 

Un film oggi attualissimo, intelligente ma anche ricchissimo di azione e fascino per i dettagli. 

Talk0

venerdì 21 febbraio 2025

Bridget Jones - Un amore di ragazzo: la nostra recensione del film di Michael Morris che riporta al cinema il divertente e romantico personaggio creato da Helen Fielding e interpretato da Renee Zellweger


Tutte quante siamo state Bridget Jones, almeno per un giorno. Nel corso degli anni l’abbiamo conosciuta prima leggendola: stupendo il primo diario scritto da Helen Fielding. Fresco, spiritoso, da leggere e rileggere nei momenti tristi per farsi una risata. Questa ragazza qualsiasi che riusciva a conquistare l’amore tra mille vicissitudini.

Divertentissimo il secondo diario, con un capitolo dedicato all’intervista della nostra Bridget al suo attore preferito, Colin Firth, interprete di Mr Darcy in una fiction inglese. Ecco quindi l’arrivo dei film. 

La bellissima Renee Zellweger, morbidosa e piena di difetti, sulla scena con il perfettissimo Hugh Grant, nei panni del capo/crush Daniel Cleaver, prima volta da “villain” per lui che veniva dall’essere il timido imbranato di Quattro matrimoni ed un funerale o l’ancor più timido libraio dell’adorabile Notthing Hill. E sulla scena c’era poi proprio lui, Colin Firth, l’interprete dei sogni della scrittrice, l’uomo perfetto per Bridget per “proprietà transitiva”: Marc Darcy! 

Nel primo film Bridget è sovrappeso, beve, fuma, ha un lavoro che non la soddisfa ma alla fine, dopo uno scontro in cui “piovono uomini”, viene amata “così com’è” dall’uomo perfetto. 

Nel secondo film Bridget non riesce proprio a vivere felice, per cui farà di tutto per perdere l’uomo che ama, cacciarsi nei guai con la giustizia thailandese ed infine tornare assieme al suo Mark. 

Ma nuove avventure attendono la nostra Bridget ed ecco giungere un terzo film con nuove sfide per la carriera, nuovi sogni e forse “un po’ meno divertimento”. L’orologio biologico è agli sgoccioli… quale migliore occasione per l’arrivo di un bebè in pieno stile Bridget Jones? 

Il primo film era carino. Forse meno “raffinato” rispetto al libro, ma carino. Il secondo film dal secondo libro prendeva solo spunto, ma si lasciava comunque vedere. Se già per il terzo film pure Hugh Grant “si era già dato alla macchia”… c’era proprio bisogno di un quarto? 

Eppure eccoci qui con il quarto capitolo di Bridget Jones! 

Bridget dopo aver messo su famiglia con l’amore della sua vita, rimane vedova. Ed ecco quindi una serie di avventure che la rimettono “sul mercato” in cerca di un nuovo inizio. Bridget è una mamma a tempo pieno che non lavora. Due sono i bambini Jones-Darcy. Il maschio più simile al padre, timido e introverso, sente la mancanza del genitore e soffre in silenzio. La bambina molto più Bridget e propensa a figure discutibili. Compito di Bridget è accompagnarli tutti i giorni a scuola dove li attende il professore di scienze, ma anche assistente all’ingresso, attraversatore di strisce pedonali e factotum, Mr Wallaker (il sempre super fascinoso Chiwetel Ejiofor). Altre attività non ha. Spinta da consigli da ogni parte dei suoi amici e di sua madre, si ritrova a voler tornare a lavorare e si ritrova pure a non disdegnare l’idea di trovare un altro uomo… eccola quindi alle prese con app di dating.

Un pomeriggio decide di trascorrere del buon tempo in famiglia andando al parco coi bambini. Ed eccoci quindi nella tipica situazione Bridgetoniana: bambini e mamma restano incastrati su un albero. In loro soccorso compare il bel giovane Roxster (Leo Woodall). Ormoni a mille! Ma ecco anche giungere il bel Mr Wallaker….

Inizia quindi una nuova vita per la nostra protagonista. Chatta con il bel Roxster, torna al lavoro, assume la tata perfetta, fa da mentore al suo amico Daniel Cleaver… ma potrà la nostra lasciarsi andare? Lo scopriremo solo alla fine del film…


Quarto capitolo, a questo giro con la regia di Michael Morris, di cui non si sentiva esattamente la necessità ma che invece porta un paio d’ore di risate e simpatia. Più riuscito questo film rispetto al secondo ed al terzo capitolo, che facevano del marchio Bridget Jones una saga più in stile Vacanze di Natale che Harry Potter, però va bene così. 

Bravi i protagonisti, una Renee Zellweger bellissima non dimostra l’età che ha, anche se, mio parere personale, non mi va giù che Bridget sia così magrissima ed in forma… la donna media non riesce ad immedesimarsi. Splendidi, in tutti i sensi, i protagonisti maschili (Ejiofor, Woodall e Grant) che mostrano tre tipologie differenti di uomo che tutte, prima o poi, abbiamo incontrato. Ci sono un sacco di scene buffe e divertenti che fanno molto ridere gli spettatori (il lucidalabbra su tutti). 

La trama riesce a essere fresca e divertente, ma “l’assenza”, sulla scena e nel cuore della protagonista, del personaggio di Colin Firth conferisce una nota particolarmente malinconica e agrodolce a tutta la narrazione. Da qui prende piede un racconto molto tenero e sentito, sul modo in cui la piccola famiglia di Bridget cerca di “ricostruirsi” dopo il lutto: attraverso piccoli genti e occasioni che mettono in luce anche la bravura degli interpreti più giovani: Milla Jankovic nel ruolo di Mabel e Casper Knopf in quelli di Billy.

Molto buffa anche la ginecologa interpretata da Emma Thompson e bravo anche tutto il cast di comprimari che da sempre accompagnano la serie formano ormai una sorta di grande famiglia allargata.

Perfetto da vedere in compagnia delle amiche. 

B-Gis

giovedì 20 febbraio 2025

We live in time - Tutto il tempo che abbiamo: la nostra recensione del film romantico di John Crowley, con protagonisti i bravi Andrew Garfield e Florence Pugh

Forse il senso della vita è tutto racchiuso nell’arte di saper sempre preparare una buona colazione: unendo insieme uova e biscotti.

Un giorno Tobias, un ragazzotto imbranato dall’aria dolce (Andrew Garfield), “si scontra” con una giovane, ironica e determinata cuoca bionda, di nome Almut (Florence Pugh). Lui fa il rappresentante per i biscotti della colazione della Weetanix. Lei è la chef stellata di un ristorante fusion ed è specializzata in dolci, che ama realizzare ogni mattina, prendendo le uova fresche direttamene dalle sue galline, dopo una corsa nel verde. 

Quella volta a “strapazzare” non saranno le uova, ma direttamene il ragazzo dei biscotti Tobias. Lo scontro avverrà di notte in una zona poco illuminata, con Almut che alla guida di un’auto tamponerà il sedere di Tobias, mentre lui “vaga” sulla superstrada in stato piuttosto confusionale: coperto solo dall’accappatoio bianco di un hotel. 

Doveva firmare le carte del suo divorzio, arrivate nottetempo via fax, per chiudere una volta e per sempre un capitolo infelice della sua vita. Accadeva mentre era in trasferta di lavoro in un luogo ameno tra i campi. Nella sua borsa, nella stanza d’albergo come alla reception, non si trovava una penna. Così, “impanicato duro”, vestito solo di ciabatte e accappatoio, Tobias era partito alla volta di un autogrill. Per poi finire in mezzo alla carreggiata a raccogliere la penna appena pagata e “fuggita dalle mani”.

Da lì la botta, inevitabile.

Un “colpo netto”, come quello che senza un’auto, a mani nude, Almut è solita applicare per sgusciare bene le uova, preferibilmente su una superficie piatta: la base tecnica migliore per preparare i waffle di una buona colazione. Ma anche un “colpo di fulmine”, come quello che prova subito per Almut Tobias. Seppur  con un collarino, seppur moralmente e fisicamente “strapazzato”, seppur svegliandosi di colpo, nudo, in un letto di ospedale sconosciuto davanti a una sconosciuta. 

Lei, magari all’inizio, spera che il fesso che ha appena messo sotto, mezzo nudo e forse pazzo, non le muoia davanti. Lui incrocia il sorriso con quello di questa piccola cuoca bionda, seduta al suo capezzale, che lo ricambia. C’è decisamente “chimica” nell’aria: c’è come il profumo di biscotti e uova che preannuncia più future colazioni insieme.  

Un “profumo di felicità”, che nel corso della loro storia Tobias e Almut saranno chiamati a rincorrere e ricercare: tra la memoria di un passato felice, un presente un po’ meno felice e un piccolo futuro da cullare. Spesso “riavvolgono il nastro”, sovrapponendo i momenti felici a quelli più complicati, ma cercando comunque di vivere sempre e in pieno una quotidianità felice, buffa, affettuosa, seppur spesso complicata: che non fa sconti tra litigi, incomprensioni e patteggiamenti. 

Costruendo e ricostruendo insieme una relazione “affettuosa”, ma anche a tratti “eroica”, come capita a tantissime storie d’amore. Tra incidenti stradali e incontri fortuiti. Incertezze e tenerezze del vivere insieme. Dolori, umori, sogni e sospiri da vivere da soli. Impegnandosi nel ricreare ogni volta, ogni giorno, l’amalgama giusta per preparare la colazione perfetta, insieme. 

Insieme, specie quando sarà più surreale o più difficile farlo.

Insieme trovandosi più volte davanti a medici che sembrano plotoni di esecuzione:  cercando di tenersi per mano davanti all’ennesima brutta notizia. 

Insieme, quando si tratterà di partorire rocambolescamente nel bagno di un autogrill, aiutati da due buffi commessi, dopo il viaggio in ospedale più scombinato di sempre. 

Insieme, quando decideranno di avere una bambina: nonostante non prevedessero di avere bambini, nonostante l’amore fosse appena iniziato, quasi per gioco e “senza crederci più”, in un momento in cui tutti avrebbero preferito rimanere soli. 

Insieme, ad accettare il verdetto medico più difficile di tutti e poi a cercare di “spiegarlo”, con tutto il più impossibile tatto possibile, alla loro bambina. 

Insieme, alla gara di cucina internazionale a cui Almut voleva partecipare a tutti i costi perché sentiva il dovere di partecipare, a muso duro e spremendosi tutte le energie rimaste: per dimostrare solo di poterlo fare, nonostante tutto, tutti e il buon senso. 

Insieme al palazzetto del ghiaccio, mano nella mano col la loro bimba, bionda e sorridente come Almut, a imparare ad andare sui pattini come la mamma.

Insieme, nel tramandare alla piccola Ella il modo corretto di rompere le uova, per realizzare una buona colazione.


Il produttore Benedict Cumberbatch e il regista irlandese del bellissimo Brooklyn,  John Crowley portano in sala un film piccolo ma potente, scritto con grande maestria, tatto e ironia da un bravissimo Nick Payne (L’altra metà della storia, L’ultima lettera d’amore). È un film che in qualche modo aggiorna il classico Love Story del 1970, di Arthur Hiller per le nuove generazioni, parlandoci con trasporto ma anche disincanto di amore e malattia, felicità e sogni infranti. 

All’inizio della pellicola, senza filtri, veniamo informati di quello che sarà il triste epilogo di una storia d’amore, senza ancora quasi conoscere i due protagonisti. I nostri eroi non potranno fare niente, se non cercare di vivere al meglio il presente e pianificando un futuro a breve termine: provando a tenere insieme e “dare un valore alto” ai molti pezzi della loro relazione insieme. “Frammenti di memoria” che la sceneggiatura ci dispone piano piano nel racconto, come pezzi di un unico grande puzzle. Pezzi che “per forma o colore”, grazie alla grande cura che il regista ripone nella costruzione delle singole inquadrature, spesso si confondono e sovrappongono tra le linee temporali, mentre cerchiamo di completare il quadro complessivo. Pezzi narrativi che per il modo originale e “antitetico” con cui vengono disposti, mischiando intelligentemente “Eros e Thanatos”, amore e dolore, sanno mutare anche repentinamente il senso della storia. Portandoci come spettatori spesso a sorprenderci: facendoci ridere un secondo dopo averci fatto piangere. 


Nicky Payne riesce così nel difficile intento di offrirci una “visione d’insieme dell’amore”, che vada oltre il lato tragico iniziale, preservando una complessità strutturale ed emotiva unica, quanto rispettosa delle mille sfumature proprie di ogni relazione umana. 

Il titolo originale dell’opera, We live in time, potremmo quindi intenderlo non solo come “noi viviamo il tempo insieme che ci resta”, ma anche come “noi viviamo attraverso il tempo”: attraverso i molti momenti della nostra vita insieme, sparsi e combinati/ricombinati nel tempo, sotto forma di ricordi. 

La bella sceneggiatura di Nick Payne viene sorretta dall’ottimo montaggio di Justine Wright, in grado di calcolare quasi al millesimo la giusta “durata emotiva” di una scena, senza eccedere mai in modo artificiale. A questo si aggiunge la fotografia molto accurata e puntuale di Stuart Bentley: capace di passare con velocità dai toni freddi delle scene più drammatiche al calore dei momenti più ironici e romantici. 

È un film inoltre che parla di cucina, mettendo spesso in primo piano la costruzione di bellissime pietanze che grazie alle luci e alla fotografia sembrano letteralmente da “mangiare con gli occhi”.

Anche il lato “emotivo e competitivo” legato al “tema della cucina” offre sfumature interessanti e originali alla narrazione generare. A essere un po’ dissacranti potremmo dire che We live in time in alcune scene coniuga bene “Love Story a Masterchef”. Ma di fatto (essendo meno dissacranti) potremmo dire che chi ha amato film come Il sapore del successo con Bradley Cooper o Il gusto delle cose con Joliette Binoche si troverà bene anche qui, in una simile commistione tra cucina e sentimenti. 

Tutto questa “costruzione di un amore” (per citare una celebre canzone di Ivano Fossati) sarebbe comunque vana se non fossero sulla scena due interpreti davvero in ottima forma. Garfield, senza abbandonare la sua aria da eterno bravo ragazzo, con gli anni sta diventando sempre più bravo a conferire sfumature ai suoi personaggi, con molta spontaneità e leggerezza. Il suo Tobias è un uomo molto emotivo che impara scena dopo scena a diventare adulto e indipendente per il bene della sua nuova famiglia, pur non abbandonando mai una amabile goffaggine. Florence Pugh dona alla sua Almut un carattere da vera combattente: spigolosa, fragile ma sempre in grado di rialzarsi e tornare a combattere, pragmatica nel suo affrontare la vita a testa alta. 

I due personaggi funzionano molto bene insieme, sia a livello romantico che “buffo” che drammatico. Al punto che presto ci si affeziona davvero alla loro storia e i più sensibili probabilmente dovranno preparare i fazzoletti, anche se il film ha il grande merito di non cadere mai in eccessi drammatici.  

We Live in Time è un film romantico “ma non solo”: è un film che parla di una relazione sentimentale a 360 gradi: realistica, senza retorica, tanto divertimento e con tanti spunti di riflessione. Specie per chi oggi è così innamorato o pazzo da pensare di costruire una vita insieme a qualcuno: “nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia”. Un film che fa commuovere, ridere e riflettere. 

Talk0

lunedì 17 febbraio 2025

Fiume o morte: la nostra recensione del “documentario - punk”, scritto e diretto da Igor Brezinovic, sul periodo di Gabriele D’Annunzio a Fiume.


C’è stato un tempo in cui a Fiume si parlava italiano: è successo dagli anni venti, per qualcuno fino almeno agli anni sessanta dello scorso secolo. 

C’è stato un tempo in cui alberghi, scuole, piazze ed edifici recavano il nome di Gabriele D’Annunzio, anche se oggi questo nome per i locali dice poco. 

Il celebre locale dove la sera D’Annunzio amava cenare, ribattezzato dopo una azione di goliardia dal sodale Barone Weller “L’Ornitorinco” (il furto del suddetto animale impaginato da un museo di storia naturale), oggi è un salone per la cura delle unghie. 

Le camerate dei cosiddetti “legionari di D’Annunzio”, una milizia che è stata di 10.000 uomini, per lo più giovanissimi e cresciuti nel mito superomistico di Nietzsche, sono oggi sede di scuole pubbliche o ostelli universitari. Il palazzo del governatore, dove il poeta dimorava, è oggi aperto al pubblico come un museo sulla pesca. 

Lo ricordano davvero in pochi D’Annunzio, a parte i turisti italiani di passaggio. 

Chi ha lavorato in un museo, chi ha lontane discendenze italiane o chi è “abbastanza vecchio” lo ricorda per lo più come: “grande amatore”, “poeta”, “spendaccione”. Quasi tutti lo ricordano soprattutto come “fascista”, anche se di fatto D’Annunzio è venuto prima dei Fasci Combattenti, di Mussolini e la seconda guerra mondiale. Per certi versi però l’avventura a Fiume di D’Annunzio è stata una vera e propria “preview” di quello che sarebbe accaduto di lì a poco nella Storia: quindi un ricordo “non bellissimo”. Qualcosa di così incisivo e difficile da digerire che la Fiume di oggi ha preferito piuttosto dimenticare del tutto: dimenticare quando si parlava italiano, dimenticarsi del “poeta cattivo” (per citare il film di Gianluca Jodice) e del piccolo regno che a suo nome aveva eretto in casa loro intorno agli anni ‘20 del 1900. Un “regno del Carnaro” (come amava definirsi) immortalato negli archivi ufficiali e museali in oltre 10.000 foto e filmati, atti pubblici. Un regno di cui costruzioni del passato e vecchi segni a rilievo dei lampioni del centro cittadino riportano ancora, sbiadito, il simbolo: una aquila romana. Un’aquila ben diversa dall'“aquila a due teste” emblema del locale potere asburgico, al punto che D’Annunzio si era premurato di segare via da un monumento cittadino “quella testa in più” (una testa d’aquila in eccesso che ora si trova al Vittoriale). 

Era un regno di 21 km, con il sopra citato piccolo esercito personale (inizialmente identificato come “gli arditi”, poi a seguito diventato con diversa struttura di “legionari”), con una costituzione (sebbene mai entrata in vigore), celebrato anche da inviti in loco di personalità come Guglielmo Marconi, il futurista Marinetti, un giovane Mussolini. Un regno che di faceva lustro e vanto di spettacoli teatrali, grandi feste, “multe salatissime” per chi era dissidente. 

Tutto però, perlopiù, scomparso.


L’ironico e arguto documentarista Igor Brezinovic cerca così le “tracce della Storia” nel presente di Fiume: giocando con lo sterminato archivio su D’Annunzio ma pure andando a ritrovare lo “stato odierno” degli edifici del passato. Confrontando foto e cartoline d’epoca, con quanto può inquadrare oggi negli stessi luoghi la sua telecamera. 

Facendo rivivere nel presente, in modo dissacrante e per nulla epico, alcuni dei momenti più significativi di D’Annunzio a Fiume, usando come attori assolutamente non professionali persone prese dalla strada, amici, speaker radiofonici, storici, studenti del liceo, membri del gruppo che organizza il carnevale di Fiume. 

C'è almeno una decina di persone che “si passano il testimone” nell’interpretare il poeta nei suoi comizi, filmati. Persino in “momenti pittorici” in cui veniva ritratto nudo, avvolto in una bandiera, con in mano una spada. 

Tutto rivive tragicomicamente. La recitazione è amabilmente amatoriale. Riprese d’epoca di massa, con centinaia di persone, rivivono con tre persone in croce poste nello stesso squarcio paesaggistico dell’epoca: persone scelte spesso in quanto gli “abitanti attuali” di quella tale via o edificio.

Alcuni ragazzi sono stati vestiti da “legionari” e posti direttamente a girare nel centro di Fiume di oggi, con i passanti e turisti che gli chiedono durante le riprese chi siano, con un godibile effetto candid camera che ci ricorda il film Sono Tornato: quando Popolizio girava per Roma negli abiti del Duce.

Tutto diventa all’istante parodistico, ma la precisione storica degli eventi rimane assoluta: al punto che il regista si premura di “integrare” l’archivio storico, con le sue “ricostruzioni dal presente”, per raccontare eventi che pur nelle migliaia di documenti d’epoca non avevano trovato una singola foto. Come le scene delle votazioni “truccate” da D’Annunzio.  

Brezinovic fa rivivere anche gli eventi del cosiddetto “Natale di Sangue”, ma solo come un'eco del passato: usando rumori di fondo, di lotte e combattimento, abbinate alle immagini delle luci e del centro città del Natale del 2024 di Fiume. Rumori che sono ormai loro stessi fantasmi.

Molto belle le musiche di accompagnamento, dai toni rock-punk, alternati a brani di musica classica. Una menzione a parte va a “Giovinezza”, l’inno dei legionari che assume nel documentario più volte una importante funzione narrativa.

Fiume o morte racconta il viaggio a Fiume di D’Annunzio anche nei termini di una ossessione di grandezza, che si è fatta tragica realtà storica. Descrivendo questo aspetto il documentario, pur nella sua inebriante leggerezza espositiva, non manca di interessanti sfumature malinconiche, tragiche e fortemente critiche di quel periodo storico. Sfumature che sanno sempre, “con  una punta di amarezza”, farsi largo tra l’ironia generale.

Dissacrante, intelligente, divertente e “spericolato”, spesso amabilmente low budget e “fai da te”, il documentario di  Brezinovic è un prodotto che sa farsi amare dalla prima all’ultima scena. Un prodotto imperdibile per chi ama il particolare e sempre originale catalogo di Wanted, uno dei distributori indipendenti più interessanti degli ultimi tempi. 

Talk0

martedì 11 febbraio 2025

Sonic 3: La nostra recensione del film di Jeff Fowler, che prosegue le avventure cinematografiche del porcospino blu dei videogame Sega, introducendo un nuovo personaggio con la voce di Keanu Reeves

Siamo sempre dalle parti dei lussureggianti parchi naturali di Green Hills, nel Montana. Dopo le due sconfitte ai danni degli eserciti robotici del dottor Ivo “Eggman”Robotnik (Jim Carrey) e la formazione del “Sonic Team” (nome provvisorio), con lo scoiattolo a due code Tails (in originale con la voce di Colleen O’Shaughnessey) e l'echidna Knuckles (in originale con la voce di Idris Elba), è arrivato per Sonic (in originale con la voce di Ben Schwartz)  il fatidico giorno del “complearrivo”. 

Non essendoci un equivalente per lui del “compleanno”, lo sceriffo Tom (James Marsden) e sua moglie Maddie (Tika Sumpter), di fatto diventati i suoi “genitori terrestri adottivi”, in questo giorno hanno deciso di celebrare il momento in cui il nostro porcospino blu è arrivato sulla Terra, attraversando un magico anello dorato, in fuga dagli echidna. Il luogo della festa non è lontano dalla casetta sottoterra che si era scavato il porcospino per rifugiarsi nei primi tempi: piena di disegni, un divano, sogni. Tra tanta commozione e ricordi, arriva il momento centrale della giornata, prima della torta, striscioni e di tutto il resto. 

La prima edizione della gara per “il trofeo di famiglia”, nella quale sarà deciso, in via ufficiale e “superdefinitiva”, chi è il più super-veloce tra Sonic, Tails e Knuckles. Il tracciato è velocissimo, immerso nel verde, pieno di curve e tronchi da schivare stile overbike del Ritorno dello Jedi. Il posto ideale dove tutti e tre potranno dare fondo ai loro poteri super elettrico/cinetici/tecnologici, in totale sicurezza di animali, cose e persone. 

Knuckles è così determinato che è quasi più rosso del solito. Tails è pronto per sfoggiare il suo nuovo Jetpack a reazione perché comunque il regolamento glielo consente. Sonic è tranquillo e rilassato come sempre. I tre scattano, Knuckles passa in testa, ma la competizione viene sospesa, con l’arrivo dal cielo degli uomini della G.U.N. 

Le vecchie conoscenze governative insistono perché il Team Sonic (nome provvisorio) parta subito alla volta di Tokyo, per far fronte a una minaccia aliena che può essere fermata solo con le loro speciali abilità combinate. Si parla di un porcospino di colore nero, molto simile a Sonic ma con occhi rosso fuoco, nome classificato “Shadow” (in originale con la voce di Keanu Reeves), in possesso di poteri altamente distruttivi che potrebbero presto altamente distruggere la capitale del Giappone.

Shadow però è un osso troppo duro.

Nonostante la potenza dirompente che permette a Knuckles di farsi largo a pugni tra ostacoli e palazzi. Nonostante la tecnologia di tracciamento e inseguimento a reazione di Tails. Nonostante la super velocità che può trasformare Sonic in una sfera rotante di energia ed elettricità. Lo scontro si fa largo tra le vie di Shibuya come in Fast’n’furious 3 e sale lungo la struttura verticale della Tokyo Tower. Si infrangono forza di gravità e suono, si scombussola l’area con strani fenomeni meteorologici tra tuoni e fulmini colorati e tutto finisce in un unico, grande boato. 

Il team del porcospino blu a terra e ammaccato. Il porcospino nero che si dilegua nella notte, con aria triste e sotto la pioggia, alla guida di una rombante moto nera. 

Il giorno dopo, il comandate Walters (Tom Butler) predispone per i tre sconfitti un meeting informale in centro città. Viene scelto un locale “molto kawaii”, pieno di pupazzi animatronici peluccosi, in cui il trio può passare del tutto inosservato mentre parla con un militare.  

Walters ha per loro una storia. 

Inizia negli anni ‘70 quando è caduto sulla Terra, dalle parti dell’Oklahoma, un meteorite con al suo interno proprio quel riccio nero alieno. Un alieno affabile, con cui il professor Gerald Robotnik, il nonno di Eggman (a interpretarlo è sempre Jim Carrey, invecchiato con il trucco), sentiva di poter realizzare degli esperimenti, per cercare di comprendere e magari utilizzare quello che lui stesso definiva “il potere del caos”. Shadow sapeva sprigionarlo correndo dentro una specie di tapis roulant hi-tech all’interno di un centro di ricerche segreto, stile area 51 ma con tutte le comodità e confort. 

Era lì che operava nella vigilanza il giovane Walters. Nel laboratorio, tra un esperimento e l’altro, Shadow aveva fatto amicizia con la nipote di Eggman Maria (Alyla Browne). Insieme guardavano film e correvano sui pattini a rotelle, ballavano e la sera guardavano le stelle. A Shadow non mancava più la sua casa. 

Tuttavia, dopo un misterioso incidente, Robotnik era stato imprigionato dalle autorità e Shadow posto in una sorta di cryo-sonno, per tanti anni. Fino a che di recente, all’improvviso, si era destato. Seminando il panico a Tokyo.

Il racconto di Walters termina bruscamente quando irrompe sulla scena l’agente Stone (Lee Majdoub), il “leccapiedi” di Eggman. A quanto pare il dottore non è esploso nell’atmosfera al comando del suo robot gigante come tutti pensavano. È vivo e forse un po’ sovrappeso, perché ama ancora ingozzarsi di tacos mentre guarda in tv telenovele messicane. Ma sembra che il rapporto con il suo vice sia migliorato: da “leccapiedi” ora lo definisce “leccamico”. L’incontro con Stone porta i nostri eroi in giro per il mondo in cerca di risposte:  su Shadow e su chi ha rubato a Eggman i suoi “ovetti robotici”. Ma soprattutto porta Eggman a incontrare per la prima volta nonno Eggman, ultracentenario ma “in formissima”, per rivivere con lui in un solo pomeriggio, in realtà virtuale accelerata, tutta l’infanzia perduta. Nonno Eggman è così gentile e affettuoso che Eggman subito lo rinomina “ninnanonno”. I due scoprono di ballare benissimo e coordinatissimi nelle loro nuove tute colorata in Spandex rosso.

Ma c’è il mistero di Shadow da risolvere a colpi di scontri superveloci con robot-ovetti, ci sono da affrontare intrighi degni di 007. Così l’azione si sposta nel cuore di Londra, patria degli 007, dove “sotto copertura” potranno intervenire ad aiutare i nostri eroi anche lo sceriffo e sua moglie, che lasciati soli a casa si stavano annoiando tantissimo. 

Una mega struttura celata sotto Tower Bridge sta per tornare alla luce e forse segnerà l’inizio della fine del mondo. A meno che i nostri eroi intervengano con un attacco combinato e super veloce. A meno che il cristallo che racchiude i poteri di Super Sonic, celato in un luogo segreto ma facilissimo da trovare, non torni alla luce. 


Tornano al cinema i personaggi creati per Sega da Yuki Naka, Naoto Oshima e Hrozaku Yasuhara, in una storia ancora diretta dal bravo Jeff Fowler e scritta da Pat Casey e Josh Miller, a cui si affianca questa volta anche John Whittington, autore di Lego Batman

Squadra che vince non si cambia e quindi ritroviamo ancora quasi tutto il cast vocale, gli attori e i tecnici che hanno finora lavorato alla amatissima serie come allo spin-off televisivo su Knuckles. 

Jim Carrey “raddoppia”, vestendo contemporaneamente i panni di Ivo e di Gerald Robotnik e avendo il via libera di “scatenarsi a piena potenza”, libero e anarchico come solo ai tempi di Ace Ventura. In una continua serie di invenzioni facciali e corporali esilaranti, accompagnati da doppi sensi e battutacce, Carrey riesce a rendere Ivo bambino e ottuagenario, tenero e terribile, eroe e anti-eroe. “Cartoon” sullo stile dei cattivi di Yattaman (di fatto tutto il brand di Sonic “profuma di Yattaman”), ma anche figura sorprendentemente tragica, profondamente umana. 

James Marsden e Tika Sumpter, ma anche Lee  Majdoub e in una piccola particina Natasha Rothwell e Shemar Moore, rimangono perfettamente sintonizzati con personaggi che sanno essere sempre buffi, divertenti e “adatti a tutte le età, così come per il cast vocale si segnala un Idris Elba in piena forma, in grado di conferire al suo echidna ancora più sfumature “epico-buffe”.

Ma soprattutto entra in scena il porcospino Shadow con tutte le sue “50 sfumature di dark”.  Un “dark alla Lego-Batman”, mutuato  dall’arrivo del nuovo sceneggiatore ma pure offerto dalla voce, bassa e profonda, di un Keanu Reeves che pur in “veste di porcospino” profuma della tragicità di John Wick come del carisma di Neo di Matrix. Un “dark” a cui contribuisce anche la fotografia di Brandon Scott Trost: già attivo sulla serie su Knuckles, ma anche dietro le “luci cupe” di Halloween II e Le streghe di Salem di Rob Zombie, dietro i colori psichedelici e “aspri” di Crank: High Voltage e di Ghost Rider: Spirit of Vengeance di Neveldine e Taylor. 


Shadow e il suo lungo flashback, il suo destino difficile e l’incredibile presenza scenica sarebbero in grado di “mettere in ombra” quasi tutto il resto, fagocitando il film in un modo originale, fresco e per nulla scontato. La pellicola potrebbe prendere benissimo il suo nome e nessuno si offenderebbe, ma c’è da dire che ancora una volta gli sceneggiatori, Ben Schwartz e la Industrial Light and Magic sono riusciti a dare vita a un Sonic che non gli è per nulla da meno. Un Sonic “più adulto”, passato ormai fa tenero “furry” pasticcione a supereroe per caso alla Spider-Man, per infine essere un leader, strampalato ma anche risoluto. Un personaggio in costante evoluzione che non vediamo l’ora di conoscere meglio nel nuovo capitolo della saga, per altro già confermato, in cui le sue avventure prenderanno forse una piega diversa, magari “più fantasy”. Un bel Dungeons & Dragons a tutta velocità magari. 

Sonic 3 ci ha convinto in tutte le sue sfumature, multicolor e dark. L’azione sullo schermo è sempre veloce e concitata, divertente e irriverente come nello spirito dei videogame a cui la pellicola si ispira. I personaggi sanno essere ancora una volta “buffi” ma al contempo iniziano a diventare  sorprendentemente “epici”, anche quelli più “inaspettati.” Un film adattissimo per il pubblico dei più piccoli, ma in grado di divertire anche i più grandicelli, nonché i vecchi nostalgici dei videogame. La dimostrazione che portare videogame al cinema oggi è “tutta un’altra storia”, rispetto all’epoca folle e stranissima del Super Mario con Bob Hoskins.

Talk0

venerdì 7 febbraio 2025

Noi contro loro (Jouer avec le feu): la nostra recensione del film drammatico di Delphine e Muriel Coulin, con protagonisti Vincent Lindon (vincitore per l’interpretazione della Coppa Volpi all’ultimo festival di Venezia), Stefan Crepon e Benjamin Voisin


Francia dei giorni nostri.

Pierre (Vincent Lindon) fa il ferroviere e lavora di notte alla manutenzione dei binari,  tra campi nel nulla avvolti nel buio più profondo, maneggiando un bengala segnaletico rosso o sopra un convoglio tecnico, per sostituire i cavi elettrici usurati o assestare i chiodi lungo il tracciato. 

Dopo la morte della moglie Pierre si occupa come può della casa, cerca di fare “il meglio possibile” per la crescita dei suoi figli: Felix (Benjamin Voisin) e Louis (Stefan Crepon). Felix, chiamato da tutti “Fus”, in onore della sua passione per il calcio (Fussbal, in tedesco), è un ragazzo solare e un discreto giocatore. Ha provato a studiare per fare il metalmeccanico e seguire le orme paterne ma senza grandi risultati. È iperprotettivo e quasi materno nei confronti del fratello più piccolo, che lui chiama “Loulou”. 

Louis è timido e così studioso che presto sarà ammesso alla Sorbona: sarà allora che Fus e Pierre dovranno cercare di convivere insieme senza scannarsi. Perché Fus è stato visto di recente dai colleghi di Pierre insieme a un gruppo di estrema destra, legato alla tifoseria calcistica. Un gruppo violento, che avrebbe alzato le mani su un corteo di lavoratori durante una manifestazione. 

Per Fus sono solo “amici con cui si diverte la sera”, non lo coinvolgono “in quelle cose”. In fondo li conosce da sempre, erano suoi compagni di scuola e di curva.  

Pierre troppo presto giudica Fus come “parte di un branco” e scontro dopo scontro inizia a perdere il rapporto con suo figlio. Fus torna sempre più tardi la notte o non torna per nulla. Appare spesso ubriaco e ascolta tutto il giorno musica disco a tutto volume, quando non la balla in qualche rave party. 

Inizia a esprimersi in modo livoroso con chiunque frequenti la loro casa per aiutare LouLou negli studi, specie i “bravi ragazzi dell’Università”: li giudica troppo distanti dai problemi della gente comune, “fighetti”. Pierre lo tiene costantemente a freno, spesso in modo brusco e autoritario. 

Alla fine tutto ciò che li tiene uniti è solo l’affetto per Louis e poco altro.

Un giorno Pierre segue Fus da lontano, in auto, dopo l’ennesimo litigio. Lo vede entrare in quella fabbrica abbandonata che spesso di notte guarda da lontano nei suoi turni di manutenzione ai binari.

Fus entra, Pierre lo segue e scopre un luogo brulicante di gente che si allena, balla e addirittura combatte all’interno di una specie di gabbia, a mani nude. Pierre si mette a un margine della gabbia e osserva il figlio tra la folla a bordo ring, sull’altro lato. Fus urla e sbava, inneggia alla morte del combattente più debole. Ha gli occhi iniettati di odio e lacrime. Pierre va via con lo sguardo assente, ormai considera suo figlio come morto.

Certo per il padre esistono ancora dei “riflessi di Fus”: nei momenti in cui stanno ancora tutto insieme a Louis, nei pomeriggio della domenica. Quando, un po’ ubriachi, giocando a calcetto nel piccolo campetto costruito in giardino, tirando rigori in una piccola porta di metallo costruita al fianco di un paio di altalene. Quando posano insieme sorridendo per le foto della festa per LouLou. Quando la loro squadra segna allo stadio per la grande partita per cui da tempo hanno preso i biglietti. 

Quando tutto insieme preparano i bagagli per il trasferimento di Louis in un appartamento in affitto vicino alla Sorbona la macchina di Pierre è così carica di mobili che non c’è spazio nemmeno per uno spillo: solo Pierre può accompagnare LouLou. Fus scherza cercando di rimanere attaccato alla portiera dall’esterno, per una decina di metri: vuole a tutti i costi andare via con il fratello e infine ruzzola buffamente,  lo saluta con la mano e con un sorriso mentre si allontana. 

Pierre rientra a casa e trova Fuz coperto di lividi e sangue. 

Pestato duro in una resa dei conti. 

Lo accudisce meccanicamente, ma in fondo lo sente già come un estraneo. 

Sangue e indifferenza continueranno a tenere sempre più distanti padre e figlio, fino a esiti molto drammatici. 

Fino a che pure uno dei ricordi della vita felice nel passato, la porta da calcio del giardinetto, viene anche lei trasformata in un oggetto di “lotta politica” tra “noi contro loro”: diventando una spranga d’acciaio. 


Con Jouer avec le feu, letteralmente “giocare con il fuoco”, le sorelle registe e sceneggiatrici Delphine e Muriel Coulin arrivano alla loro terza pellicola cinematografica. Molto legate alla produzione di documentari, con il loro primo film, 17 ragazze, uscito nel 2011 e ispirato a un reale fatto di cronaca, le due autrici confermano il loro interesse per i temi sociali più legati al presente, i più “urgenti” per comprendere la realtà che ci circonda. 

Il titolo italiano di quest’opera, Noi contro loro, sintetizza in pieno l’argomento centrale del film: specchio delle tensioni sociali figlie dell’attuale clima politico francese (ma pure italiano). Ci viene raccontato un mondo in cui non può che cadere nel nulla ogni ricerca di dialogo o di “possibile mediazione”, tra chi “la pensa politicamente in modo differente”. Che si invochino fantasmi del passato o si dia ascolto al “rispettivo gruppo di amici”, che ci si affidi alla nostalgia o al nichilismo, i personaggi dell’opera di Delphine e Muriel Coulin sono (pre)destinati a camminare da soli verso un futuro che li vede “divisi e nemici”, “Noi contro loro”. Pur di fatto facendo parte della stessa famiglia nucleare e quindi essendo loro tre insieme “un Noi”, come urla inascoltato il personaggio di Louis, in uno dei momenti più stringenti della pellicola. 

Pierre e Fuz vagano invece solo tra foto e ricordi, senza il coraggio di guardarsi negli occhi, con la convinzione reciproca di avere davanti l’immagine distorta, di un padre o un figlio, che si ritengono ormai “già morti”. 

Entrambi vivono un lutto struggente, quanto quasi inspiegabile. 

Le due registe non fanno sconti a entrambe le “fazioni in gioco”: la violenza fisica e psicologica è intesa equamente, ripartita tra chi “si crede buono” e chi storicamente “non può essere che il cattivo”. Le botte, gli insulti e il sangue arrivano da destra come da sinistra, con pari rancore, paranoia e “squadrismo”, come tra estremisti ultras di squadre di calcio. 

Allo stesso modo le fragilità emotive e le “buone intenzioni”, che hanno radici in un disagio sociale che il racconto prende in prestito direttamente dalla cronaca, sono ben ripartire tra tutti i personaggi sulla scena: mettendo bene in evidenza una complessità di vedute che le due registe sanno maneggiare con cura e rispetto di tutte le parti in causa. Come dovrebbero fare i migliori autori, ma anche i giornalisti.

Vincent Lindon, quasi per predestinazione, continua qui a interpretare personaggi complessi e dolenti, conferendogli grande umanità e umiltà, un animo tormentato quanto malinconico. Un personaggio splendidamente imperfetto, “vivo”.

Benjamin Voisin, che impersona Fus, dimostra di essere un giovane attore davvero straordinario e versatile, raccontandoci qui un personaggio in continua trasformazione: tra il ragazzino e l’adulto, tra l’ingenuità e la ferocia. 

Il personaggio del bravo Stefan Crepon ha un ruolo più piccolo ma determinante: è quasi un “collante sociale” tra il fratello e il padre. Una voce sempre gentile e premurosa, ma che proprio per questa gentilezza, in una storia che racconta con disincanto la realtà attuale, non può che essere una voce sussurrata. Tragicamente poco più che una “comparsa inascoltata”, all’ombra di un conflitto ideologico.

L’ultima pellicola di Delphine e Muriel Coulin è molto cruda e struggente, “pragmatica” ed essenziale come il miglior cinema sociale del fratelli Dardenne. 

Interpreti molto bravi, una messa in scena sempre realistica, ma che in alcuni frangenti sa essere anche evocativa, quasi “mistica”: come nelle scene notturne, tra binari illuminati da bengala rossi e rave party dal colore blu elettrico. 

È un film duro, che fa molto riflettere e conquista facilmente l’attenzione degli spettatori.

Talk0

giovedì 6 febbraio 2025

Terra incognita: la nostra recensione del documentario di Enrico Masi, scritto con Stefano Migliore, che esplora il “futuro del pianeta”, tra lo sviluppo dell’energia nucleare e la volontà di un ritorno alla natura


Cosa siamo noi rispetto alla vastità del cosmo? Forse le stelle si possono osservare meglio quando ci appaiono “più vicine”, magari vivendo su una montagna.

Forse invece qualcosa di simile al potere delle stelle oggi lo possiamo “imbrigliare”, attraverso l’energia atomica.

Una famiglia tedesca dei giorni nostri, i Keyenburg, ha lasciato ogni comodità moderna per andare a vivere sulle montagne, in alta quota, “più vicino alle stelle”. 

Non sono i soli, ci sono testimonianze di diversi nuclei familiari intenzionati oggi a cercare un esodo fuori dalla realtà urbanizzata, per vivere in assenza di elettricità, in sinergia con gli animali e quanto la natura ha da offrire.

Per i Keyenburg è una condizione provvisoria stare sulle Alpi Svizzere, si stanno solo “preparando” a qualcosa di più grande: il Canada, dove sognano di fondare un'ampia comunità energeticamente autonoma.  

Il capofamiglia, Gerd, è un artista famoso per il suo impegno nel campo ambientale. È segaligno, ha capelli bianchi, occhi azzurri e il sorriso triste. Ama “piantare alberi”, come dice di lui parte della stampa. Ma è interessato anche nel ripristino di vecchi strumenti musicali, è affascinato dallo scoprire sempre nuovi utilizzi di strutture tecnologiche del “passato recente”: come un sistema missilistico svizzero smantellato, dal quale oggi, guarda il caso, si è ricavato un osservatorio per le stelle. Ormai la Terra è per Gerd piena di ruderi tecnologici, iniziati nel ventesimo secolo e abbandonati come strani dinosauri, oggi ricoperti dal verde. 

La moglie Annegret ama parlare di scienza e filosofia, spesso creando con estrema facilità complessi discorsi che spaziano tra più discipline. Ha un animo un po’ anarchico e per lei la vita ad alta quota è anche un “sottrarsi dai capi e sedicenti insegnanti”: è una sfida a imparare da soli a stare in equilibrio con la natura e quindi con il mondo. Sa costruire ogni cosa da sola, intagliando legna e piantando chiodi.

I figli sono giovani e forti, la più grande è affascinante e bionda come una valchiria e spesso si occupa personalmente dei cavalli. Tutta la famiglia spesso guardando il cielo entra in discorsi che affrontano il piano metafisico: ma tutti sono concordi che se esiste il paradiso ha la forma del luogo in cui si trovano ora.

La vita che hanno scelto è dura, forse maggiormente per i più giovani, ma “ne vale la pena”. Anche quando a volte animali e uomini si devono arrampicare portando enormi zaini e sacche, su sentieri stretti e a strapiombo.

Anche quando le condizioni climatiche sono rigidissime e cambiano molto velocemente, di fatto rinchiudendoli in casa davanti al fuoco. I pericoli dovuti a una frana o dal corso più impetuoso di un fiume sono sempre dietro l’angolo, ma loro con l’esperienza hanno imparato a saperli prevenire o gestire. 

Così i Keyenburg vivono a contatto con la natura, cantano e suonano insieme e sono in armonia con gli animali: quasi degli elfi silvani, sotto un cielo stellato. 

A Cadarache, nella Francia del Sud, si sta invece tenendo il complesso esperimento ITER, per il collaudo di un nuovo reattore termonucleare che darà al mondo il “potere delle stelle”. Un potere quasi illimitato ma per qualcuno “pericoloso”, se l’uomo di pari passo non imparerà a gestirlo “migliorando a livello umano”.

Al progetto partecipa anche uno scienziato nato tra gli Amish, in assenza di ogni tipo di tecnologia. Da quando ha lasciato il villaggio per andare al college si è dedicato alla ricerca della tecnologia massima del “domani”: una “fusione nucleare” pulita e infinita. Come l’energia delle stelle, ma da ricrearsi nel cuore della terra, assemblando insieme ad altri scienziati varie componenti tecnologiche, attraverso fabbriche e macchinari giganteschi, quasi fantascientifici.

Se dalle cime dei monti risuona la forza della natura e la musica dei nuovi “abitanti dell’alta quota”, in valle riecheggia uno strano rumore di fondo, elettrico e cupo, continuo. Un rumore che rimbalzando tra mille tralicci si fa largo tra cavi, scale, acciaio, andando a convogliare l’energia degli atomi che per qualcuno è stata già ribattezzata “divina”. Ma che per qualcun altro non ha davvero nulla di religioso: Dio se c’è è altrove. 


La lavorazione di Terra Incognita è durata sei anni e ha coinvolto molti esperti e scienziati, ha portato alla realizzazione di interviste e riprese che hanno avuto luogo in Francia, Germania, Svizzera, Stati Uniti, Spagna e Italia. Il film è stato presentato in anteprima al Festival dei Popoli, ricevendo una accoglienza calorosa.

L’idea di Masi nasce da una riflessione legata al concetto di “Antropocene”: il termine che indica l’attuale “era geologica”. Un’epoca caratterizzata dal fatto che l’essere umano sia infine riuscito, con le sue attività (tecnologiche, produttive, estrattive), a “mettersi al centro del mondo”, arrivando ad apportarvi modifiche territoriali, strutturali e climatiche, capaci di incidere enormemente sui processi geologici stessi. È ormai l’uomo il “fattore geologico” e le sue scelte diventano centrali per la natura. 

Le esigenze di “approvvigionamento energetico”, devono per forza combinarsi in modo da garantire la “sopravvivenza globale” ma c’è di più: se l’uomo è oggi in grado di “prodotte energia”, oltre alle ricerche sull'“energia nucleare” dovrebbe impegnarsi anche nella ricerca di “energie” che migliorino la  “condizione umana”, magari che lo portino a essere un “uomo migliore”.  

Da qui l’idea dei due estremi: la famiglia moderna che sceglie di vivere senza “il progresso energetico”; lo scienziato Amish che sceglie di vivere immerso nella tecnologia del futuro, spesso intabarrato in maschere, respiratori e tute antiradiazione, pur cercando di creare un'energia pulita. 

Un “dibattito a distanza”, dicotomico e non per forza antitetico. 

Due “modi di essere” affascinanti, strani quanto misteriosi, che evocativamente vengono raccontati dai magnifici scenari naturali delle Alpi quanto dai “fantascientifici” componenti e mega-strutture della ricerca atomica, insieme alle fatiscenti fabbriche/dinosauri del passato. Immagini che rimangono impresse nello spettatore: per la maestosità della fotografia digitale quanto per i toni quasi spirituali ed “elettronici” di una sonora cui hanno preso parte i Keyenburg stessi.

  


Terra Incognita è un film difficile, denso, carico di sfumature e significati che si dipanano meglio visione dopo visione, andando a costruire un piccolo ecosistema semantico peculiare, unico e che invita all’approfondimento. 

A volte può sembrare un lavoro quasi “compiaciuto” nel suo essere difficile, richiedendo una “non scontata” soglia di attenzione e preparazione che permettano di muoversi tra digressioni filosofiche e letterarie, conoscenze tecnologiche e approfondimenti storici. 

A volte l’opera di Masi può invece all’opposto apparire quasi come un “viaggio sensoriale”, una immersiva esperienze sonora e visiva che ci trascina, tra rumori ossessivi e cori in un mondo di confine quasi “fantasy” e in larga parte ancora inesplorato dai media tradizionali.

Tra queste due anime prende il passo un documentario (quasi) “senza didascalie” che aiutino a contestualizzare/semplificare le persone e i luoghi, dare ordine agli eventi. Masi ama stimolare lo spettatore più che dirigerlo verso soluzioni di comodo, che blocchino un flusso di coscienze e immagini che deve infine essere quanto più “personale”. Una scoperta.

Quando le persone sulla scena ci parlano di complicate teorie filosofiche e Geopolitiche, religione e scienza nucleare, lo fanno quasi “bisbigliando sottovoce”. Come i depositari di un linguaggio magico, antico e ambiguo. Un “Whispering” degno delle favole che viene parlato da un piccolo popolo “modernamente-antico”, autoconfinatosi sulle vette delle montagne.

È tutta da scoprire attraverso le immagini anche la “sottotrama” sui “componenti per il CERN”, che partono da più fabbriche anonime, tra cui anche porto Marghera, via nave, per poi essere assemblati e far parte del grande reattore circolare, di fatto “l’energia del futuro, che rimbomba sotto la terra”. Un racconto che si può solo intuire da una serie di progetti tecnici, grandi argani che spostano materiali con carrucolo, ingranaggi complicati e uomini coperti di tute anti-radiazione. Dati da masticare e magari comprendere/decodificare, se non si è addetti ai lavori, solo dalle note di approfondimento ricavate in rete. 

C’è quindi complessità e spiritualità, ma non manca all’opera un po’ di “sana umanità”. 

Ad accompagnarci (e forse “giudicarci”) c’è lo sguardo triste e il sorriso malinconico di un artista affascinante quanto buffo, che di colpo inizia a strimpellare con la chitarra e poi con il piano: e lo fa umanamente malissimo, stonatissimo.

Si parla poi del lavoro sinergico, insieme uomini e animali, ma Masi non ci nasconde i pericoli evidenti di questo stile di vita, in scene anche dal forte impatto visivo ed emotivo. 

Masi confeziona un prodotto molto “carico”. Carico di trascendenza e  psichedelia. Carico di montagne generose, quanto a tratti fredde sotto la pioggia battente, ma pure di architetture umane/scheletrico-scientifiche ardite. Carico di cori cupi alternati a rumori di fondo elettrici e intrusivi, gergo tecnico, addirittura “simbologie iraniane” e ritualità bibliche, tutte frullate insieme in un unico folklore semantico. Un’opera carica della poesia di strumenti musicali in legno, da curare e accordare,  perché danno un suono “vivo” e per questo contrastano con “cadaveri di reattori” che sembrano cuori artificiali avvizziti e marci, con tubi contorti come arterie rinsecchite. Vediamo la poesia, simboleggiata da quella bellissima giovane ragazza (la figlia dell’artista), che simile a una valchiria accompagna con la madre i cavalli sul ruscello ad alta quota, immergendosi nelle acque. Si parla non a caso di paradiso e il documentario è uno strumento cinematografico molto originale per descriverlo. 

Certo la sintesi di un lavoro di 6-7 anni può apparire complicata,  in un’ora e mezzo di visione e l’opera vuole comunicarci forse anche proprio “l’inespresso”, di un viaggio simbolico tra progresso e umanità.

Un viaggio difficile, molto filosofico quanto scientifico, a tratti sociologico, politico, religioso, ma sempre interessante. Specie per chi dal cinema vuole anche la complessità: nello specifico “tanta complessità”, a tratti troppa. Ma interessante anche per chi vuole intraprendere un viaggio onirico e psichedelico dentro questo strana “fantascienza del reale”. 

Talk0